“Tutti sanno che la scrittura non si può insegnare” e altri luoghi comuni discussi e confrontati con aneddoti di vera vita vissuta

Chiacchiere

di giuliomozzi

1. “Tutti sanno che la scrittura non si può insegnare”: mi sono sentito buttare in faccia questo luogo comune ormai non so quante volte (l’ultima, a es., qui). Normalmente rispondo: a me hanno insegnato a scrivere (e narrare), e posso raccontare chi e dove e come e quando. Do per scontato che, dietro allo specifico insegnamento, debbano esserci quattro condizioni almeno: la possibilità materiale di interessarsi alla cosa, un’educazione soddisfacente, un consenso sociale, un qualche talento specifico (cioè: che appartiene alla specie umana, e appare in certi individui più e in altri meno). So benissimo che ci sono scrittori diventati tali, e magari grandi, in condizioni difficilissime: il che mi fa pensare che la condizione del talento sia quella decisiva, forse non sufficiente, probabilmente necessaria. Ora: il talento, lo sanno tutti, va allenato. E bisogna trovare un allenatore.
Mi viene sempre in mente l’aneddoto dell’infanzia di Ludovico Antonio Muratori: “A Vignola presso Modena c’è ancora, ridotta a scuola, la casa in cui egli nacque nel 1672 da una modesta famiglia contadina. Il padre non poté mandarlo agli studi, ma il ragazzo se li fece per conto suo seguendo, aggrappato alla grata della finestra, le lezioni di un maestro che alla fine si commosse di tanta perseveranza e lo accolse gratis tra i suoi allievi. A tredici anni entrò in seminario e chiese i voti. Lo facevano un po’ tutti in un secolo in cui la Chiesa rappresentava l’unica industria remuneratrice” (dalla biografia scritta da Fabio Marri per il Centro studi muratoriani).

2. Ricordo la prima ora di lezione di filosofia, al liceo. Il professor Renato Bortot ci parlò a lungo del suo elefantino rosa. Era alto circa un metro (l’elefantino; Bortot invece aveva la barba) e lo accompagnava ovunque. La finezza fu, al momento dell’ingresso in aula, aprire la porta (si apriva verso l’interno) tendendo il braccio destro e restando indietro col corpo, muovendo la mano sinistra come per sospingere: “Su, coraggio”. In quel preciso istante appresi, e non dimenticai mai più, che delle cose che non esistono si può parlare esattamente come delle cose che esistono. Non per nulla, da grande, ho sviluppato una passione dilettantesca per la teologia: e in particolare la teologia fondamentale (cioè l’indagine attorno ai fondamenti epistemologici del discorso teologico: in sostanza, se e come si possa parlare del dio e delle trascendenti faccende divine) e l’escatologia (cioè il discorso attorno alle cose ultime: la morte indivduale e il destino del corpoanima, la fine del mondo e l’eventuale giudizio universale, gli stati intermedii, l’infernopurgatorioparadiso, papa Giovanni xxii e così via). Ciò che importa è la tenuta del discorso, non l’esistenza di ciò che ne è oggetto.

3. In quinta elementare scrissi un componimento che stupì le maestre. Nel componimento notavo che, nella risoluzione dei problemi di matematica o geometria, se lo scolaro compiva un errore all’inizio del procedimento risolutorio (a es. nella prima di quattro operazioni da eseguire) il voto era generalmente di insufficienza, mentre se lo scolaro compiva un errore alla fine del procedimento risolutorio (a es. nella quarta di quattro operazioni da eseguire) il voto era generalmente di sufficienza. La cosa, scrissi, non mi sembrava sensata. Se un tavolino ha quattro gambe, argomentai, e una di esse è più corta delle altre, non ha importanza se il falegname ha tagliato la gamba sbagliata per prima o per quarta: l’esito traballino è il medesimo, e va nel medesimo modo valutato. Forse le parole non erano esattamente queste (è passato mezzo secolo, perdonatemi) ma questa era l’argomentazione.
La maestra fece leggere il componimento alle colleghe e le sentii ridere con un certo imbarazzo: il che, come scrisse Giuseppe Pontiggia, “è uno dei modi più tipici e strani in cui si reagisce alla verità” (La grande sera, prima edizione, primo capitolo: nella seconda edizione la sentenza sparisce). Non so se avevo ragione o torto: so che non ci fu nessun tentativo di contrastare il mio argomento (che non è un argomento fortissimo, sia chiaro: l’analogia tra i problemi di matematica o geometria e il tavolino è, come direbbe l’anonimo, un po’ tirata con gli argani). Eravamo peraltro quasi alla fine dell’anno, e non ebbi modo di valutare un eventuale impatto del mio componimento sui criteri valutativi nell’ambito della matematica e della geometria. Il punto è che io so perfettamente perché mi fu possibile scrivere quel componimento: perché in famiglia ero stato educato a ragionare, a domandarmi se un ragionamento fosse corretto o no, eccetera; e perché, data l’età, l’argomentazione attraverso l’esempio e/o il paragone mi veniva continuamente somministrata.

4. In uno dei primi giorni della prima media (poi con la scuola ho finito, ve lo prometto) il professor Giorgio Erminio Fantelli ci assegnò un tema. Si trattava di raccontare un viaggio, o qualcosa del genere. Raccontai una gita in treno da Padova (dove abitavo, e tuttora abito) a Bassano. Qualche giorno dopo c’era il primo ricevimento dei genitori, e Fantelli mostrò il compinimento a mia madre facendole notare che era composto di cinque periodi: introduzione, viaggio, giro per Bassano, viaggio di ritorno, conclusione. Ciascun periodo aveva due subordinate. Mia madre domandò: e cosa c’è che non va? Fantelli: niente, tutt’altro, ma si vede che questo ragazzo ha in mente non solo ciò che vuole dire, ma anche una struttura per dirlo. Seguirono, per tutto l’anno (poi Fantelli andò in pensione), rafforzamenti.

5. Finito il liceo, iniziai svogliatamente l’università (Lingue: durante la leva diedi gli esami del primo anno, e poi abbandonai) e più vogliatamente il servizio civile, presso un collegio-orfanatrofio. Svegli allle sette, lavaggi, colazione, salire alla scuola interna (dentro il collegio c’era una sezione di scuola media: pessima scelta, ma questo è un altro discorso), pranzo, gioco, due ore di studio, gioco, un’ora e mezza di studio, cena, gioco, fine. Che cosa posso fare con questi ragazzini?, mi domandavo. Gli insegnanti assegnati a quella sezione non ne sembravano entusiasti. M’informai. Lessi: Mario Lodi, Il mondo, cinque volumetti, Laterza. Lessi Célestin Freinet. Mi procurai un ciclostile. Cominciammo a fare un giornalino. D’altro non parlo, ma i testi prodotti dai ragazzini per il giornalino presentavano una correttezza grammaticale e sintattica molto maggiore di quella dei testi prodotti dagli stessi ragazzini nella vita scolastica. Davo il giornalino agli insegnanti, non ci credevano. Ha corretto lei, dicevano. Nel mio ruolo di allenatore, il lavoro più grosso era: (a) mostrare che certe cose erano possibili, (b) insegnare un po’ di dispositio. I preti gestori dell’orfanatrofio osservavano, con fiduciosa perplessità. (Se mi domandate quindi quando ho cominciato a insegnare “scrittura creativa”, devo rispondere: a venti, ventun anni, presso la Casa del fanciullo di Padova, che oggi non è più un orfanatrofio). (E se mi domandate che cosa insegnassi, in fatto di “scritttura creativa”, rispondo: niente, ho offerto un’occasione).

6. Dopo la leva ho lavorato per sette anni presso l’ufficio stampa della Confartigianato veneta, a Venezia. Entrai come impiegato di infimo ordine; il mio lavoro all’inizio consisteva nel rispondere al telefono e dire “Il dottore non c’è” (oppure passare la telefonata), nel battere a macchina in bell’ordine i comunicati stampa. Per il primo anno l’ufficio era stato dato in gestione a una cooperativa di giornalisti – che, incredibilmente, scrivevano a mano con la stilografica: nel 1982), nel preparare le spedizioni (busta, indirizzo, francobollo, etichetta Espresso), e poco altro. Dopo un anno il contratto con la cooperativa fu rotto. Il segretario regionale mi disse: fa’ quello che puoi. E io feci quello che potevo: avevo visto i giornalisti lavorare (non molto, a dire il vero: per questo il contratto fu rotto) e li imitai. Raccolsi le informazioni interne come avevo visto fare a loro, scrissi i comunicati come li avevo visti scrivere a loro. Non era “scrittura creativa”, ma avevo imparato. Quando, sei mesi dopo, Guido Lorenzon fu assunto come addetto stampa, evidentemente trovò che qualcosa ero capace di fare; e nel giro di qualche anno mi trasformò in una macchina per scrivere. Tra comunicati stampa, agenzia interna, riviste bimestrali di settore (L’autotrasportatore, Manifattura e confezioni, L’acconciatore, Crespe informazioni, Uniteis notizie, Manifattura artigiana, Tuttolegno, Medioveneto), discorsi per convegni, eccetera, scrivevo una media di dieci cartelle al giorno. Guido mi insegnò a costruire i pezzi attorno a una frase-chiave, a distinguere i fatti dalle notizie, a progettare una rivista (erano riviste assai modeste, ma andavano comunque progettate), a scrivere solo cose vere pur con certe ambiguità necessarie alle comunicazioni sindacali, e così via. Se pensate che non ci fosse creatività in questo, v’ingannate di brutto. Guido restò tre o quattro anni, poi venne per un anno Germana Parolini e infine, fino a quando nel 1989 me ne andai, Maurizio Pescarolo. Anche da loro imparai. Praticamente non c’era testo che uscisse dall’ufficio senza essere stato scritto da uno di noi, letto e commentato dall’altro, riveduto.

7. Non ho mai avuto la vocazione per la scrittura (qualunque cosa s’intenda con la parola “vocazione”). Ho avuto però ben presto la sensazione che lo scrivere, e in particolare lo scrivere per raccontare o per argomentare qualcosa, fosse una cosa che mi veniva bene. Non mi sarei mai immaginato, a quattordici o venti o trent’anni, di finire a fare il lavoro che – anche qui, ora, davanti ai vostri occhi futuri, scrivendo ciò che poi leggerete – effettivamente faccio (e del quale decentemente campo). E’ chiaro che, quando si sente la vocazione, tutto è diverso.

Il “chiamato” sente di avere dentro di sé qualcosa che prevale su tutto. Non che il sentirsi chiamato escluda la voglia di studiare, magari mattamente e disperatissimamente, o di mettersi a bottega (non necessariamente a Bottega, sia chiaro): al contrario, nella mia esperienza di formatore e di consulente editoriale i guai si presentano quando la vocazione, o l’illusione di una vocazione, c’è: ma non c’è un minimo di talento eventualmente allenabile, o addirittura non c’è nessun talento. Ho conosciuto troppe persone fermamente convinte che il loro destino fosse la scrittura, e/o magari orgogliosamente convinte di essere provviste di talento o di molto talento – le cui opere mi sono sembrate ingenuissime (nei casi migliori) o misere (nei casi peggiori).

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E’ per questo che ogni richiamo alla vocazione, a un’idea misterica della letteratura, eccetera, mi mette in sospetto. Mi è capitato, in certe tavolate, di sentir indire dei brindisi “alla letteratura” (forse, più esattamente, “alla Letteratura”): ho avuto un senso di disagio.

8. Assioma: ciò che si può imparare, può essere insegnato.

9. Corollario: come ci sono molti modi di imparare, ci sono molti modi di insegnare.

10. Identificare l’insegnamento con l’insegnamento della mediocrità mi pare sciocco. La storia delle arti (non solo della letteratura: anche della pittura, della musica, della scultura, del teatro, del cinema…) e della cultura (umanistica, scientifica, sociale…) è piena di relazioni positive tra maestri e allievi (positive: il che non esclude che fossero anche conflittuali eccetera), per tacere di quelle tra fratelli. Il resto (vedi foto sopra) sono chiacchiere.


[E se avete avuta la pazienza di leggere fin qui, magari potreste farmi anche la gentilezza di dare un’occhiata al bando del Corso fondamentale di narrazione, che si terrà nei primi mesi del 2018 a Milano e a Cagliari. Grazie].

4 pensieri riguardo ““Tutti sanno che la scrittura non si può insegnare” e altri luoghi comuni discussi e confrontati con aneddoti di vera vita vissuta

  1. Grazie per questo ulteriore insegnamento. Pensavo che la scrittura fosse il dono di un singolo, mentre il resto rimane nella mediocrità nonostante l’allenamento. Mi sbagliavo…

  2. 1) “[…] nel battere a macchina in bell’ordine i comunicati stampa. Per il primo anno l’ufficio era stato dato in gestione a una cooperativa di giornalisti – che, incredibilmente, scrivevano a mano con la stilografica: nel 1982), nel preparare le spedizioni (busta, indirizzo, francobollo, etichetta Espresso), e poco altro. ” -> dopo “i comunicati stampa” credo debba andare, al posto del punto, un’aperta-parentesi, da chiudersi, giustamente, dopo la data “1982”.
    2) “E’ chiaro che, quando si sente la vocazione […]”; “E’ per questo che ogni richiamo alla vocazione […]” -> la “è” maiuscola non dovrebbe andare con l’apostrofo, ma capisco che può essere noioso copiarla e incollarla da una sorgente alternativa. Io, per coerenza, mi limito a segnalarla.

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