Dieci sistemi sicuri per dare al tuo romanzo un finale con i fiocchi

di Giulio Mozzi, direttore della Bottega di narrazione

Uno. Ricorda che il finale del tuo romanzo non è il luogo nel quale si rivela, o si fa intendere, il «senso della storia»; è il luogo nel quale si rivela, o si fa intendere, il tuo «senso della storia»: non il senso di quella storia lì, ma in generale il senso che tu dai alla storia – la storia vera, la storia dell’umanità e della biomassa e del pianeta Terra e del cosmo in generale. Se l’incipit di un romanzo è in genere il momento in cui l’immaginazione dell’autore smette di contemplare l’universo mondo e per così dire cade, precipita a considerare una singola, specifica storia, o avventura, l’explicit è il momento in cui l’immaginazione si allontana, allarga il suo punto di vista, da quella storia lì (lì, in quel momento lì, tra quei personaggi lì, ec.) si allontana e sale in alto, in alto, fino a contemplare tutto «dal punto di vista delle stelle fisse», come diceva Italo Calvino, o addirittura da quel punto impossibile che permette di vedere anche le stelle fisse: il punto di vista del Nulla che contiene il Tutto, il punto di vista di Colui che non va nominato invano.

Due. Ricorda che non c’è coincidenza tra l’ultimo degli avvenimenti che intendi narrare – quello che volgarmente è chiamato «la fine della storia», la fine della cronologia, la fine della fabula – e la fine della narrazione. Narrare significa: turbare l’andamento temporale (e geografico, e psicologico, ec.) degli eventi. La «fine della storia» può stare anche pagina uno, la fine della narrazione è un’altra cosa, è l’esaurirsi – perché ormai la conoscenza di ciò che si voleva conoscere narrando è completa, o perché la rinuncia a conoscere ciò che si è narrato è definitiva e totale – del movimento interno del narrare. È quel momento in cui l’autore si dice: «Non ne posso più», oppure si dice: «È tutto chiaro», oppure si dice: «Non ci capisco più nulla» – oppure semplicemente l’immaginazione si spegne.

Tre. Un finale ben fatto manda a casa il lettore (o lo spettatore, se siamo al cinema) tranquillo e soddisfatto. Ma un finale ben fatto è una menzogna: sempre. Rifuggi dalla tecnica dei finali! – più in generale: rifuggi dalla tecnica! Devi passare non devo aver paura. «La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta alla distruzione totale. Affronterò la mia paura, permetterò che passi oltre e mi attraversi; e quando sarà passata, seguirò il suo percorso con il mio occhio interiore: dove è andata la paura non ci sarà nulla, rimarrò soltanto io»: questa è la Litania contro la paura che recitano, all’occorrenza, i personaggi del ciclo di romanzi Dune di Frank Herbert: tu imparala a memoria, sostituisci alla parola «paura» la parola «tecnica», e recitala all’occorrenza. Perché, quando si ricorre alla tecnica, è perché si ha paura: anche se non lo si sa, anche se non si sa di cosa.

Quattro. Il finale è semplicemente l’ultima pagina (le ultime pagine) del libro. Una narrazione può anche semplicemente interrompersi, così come la morte, sempre, o quasi sempre, interrompe la vita. Che una morte occorsa in un certo momento, a una certa età, in certe circostanze, dopo un certo susseguirsi di eventi, eccetera, dia un senso a una vita, è una pia menzogna: lo sai. La vita è comunque insensata – in questo mondo: nell’altro, chi potrà darci un’occhiata, si vedrà. Non sappiamo nulla dell’altro mondo. Ma – questo è un altro modo di dire ciò che ho detto al punto Uno – è ciò che sappiamo, anche solo per immaginazione, è ciò che abbiamo visto per speculum et in enigmate dell’altro mondo che può dare alla nostra narrazione un senso. Ma poiché veramente dell’altro mondo, anche per speculum et in enigmate, non sappiamo nulla, ma soltanto immaginiamo, allora: qualunque senso che non si autoconosca come immaginario è fasullo.

Cinque. Quando l’adulto arriva alla fine della narrazione, o all’ultima pagina del libro, il bambino dice: «Anco’a» (uno che ho conosciuto io – uso il passato perché non è più un bambino, o almeno non è più così bambino – diceva: «Da capo»). La pretesa conclusione della tua narrazione, quindi, non è altro che un ponte, un momento di passaggio, oltre il quale c’è la ripetizione della medesima narrazione. «The greatest story that has ever been told» è quella narrazione che, come finisce, come s’interrompe, subito vogliamo che ricominci, come il famoso film – letale per la sua inabbandonabilità: chiunque lo vedesse non desiderava altro che rivederlo, trascurando di mangiare, di dormire, di compiere qualunque attività necessaria alla vita – di cui nel romanzo The infinite jest. «Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio, a fellow of infinite jest» dice Amleto contemplando il teschio di Yorik; e non sarà un caso se Laurence Sterne, l’autore del romanzo meno finito che esista, il Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, quando ha voluto mettere in scena sé stesso, nel Viaggio sentimentale, proprio «Yorik» abbia scelto di autonominarsi.

Sei. Tutti sanno che la prima frase del Finnegans Wake, «riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs», altro non è che la continuazione dell’ultima: «A way a lone a last a loved a long the» (che giustamente non è conclusa da un punto). Ma James Joyce non ha fatto una cosa strana, ha solo – come sempre fa – mostrato ciò che è ovvio: In my beginning is my end, in my end is my beginning, quando qualcosa finisce non desideriamo altro che vederla ricominciare. E se Joyce vi sembra troppo astruso, provate a dare un’occhiata a Siamo in un libro!, di Mo Willems, protagonisti l’elefantino Reginald e la maialina Tina, consigliato ai bambini di sei anni: dove appunto la prima pagina risponde all’aspettativa creata nell’ultima, e la narrazione si fa potenzialmente interminabile.

Sette. Ma, dette tutte queste cose, ricordati che il tuo finale va comunque travestito. «In che senso travestito?». Nel senso che il tuo finale deve sembrare un finale ben fatto. «Sembrare, ma non esserlo?». Precisamente: sembrare, ma non esserlo. «E perché?». Perché chi leggerà va portato sull’orlo dell’abisso, ma senza che se ne accorga, senza che ne percepisca avvisaglie: dev’essere per lui una sorpresa, altrimenti si tirerà indietro. «Devo dunque ingannare chi mi leggerà?». No, ingannare no: illudere, piuttosto. Dal latino: in-ludere, tirare dentro un gioco. Pensa a come somiglia, la parola illudere, alla parola includere. «Secondo me stai facendo una paraetimologia». Può darsi: ma ha importanza?

Otto. E dunque: sì, le vicende dei personaggi troveranno, nel finale, una loro conclusione; i misteri disseminati nella narrazione saranno rivelati; il personaggio del quale non si sapeva nulla verrà finalmente alla luce; lui e lei (o lui e lui, o lei e lei, o their e their) potranno finalmente amarsi liberamente e fare tanti bambini, o non farne alcuno, secondo la loro volontà. Il finale sarà, apparrà come, il trionfo della volontà, della determinazione, della pazienza, dell’intelligenza e dell’astuzia dei personaggi: apparrà come. Eppure qualcosa, un piccolo errore, una minima differenza, una riconoscibile contraffazione dovrà poter suscitare l’attenzione, il sospetto, il dubbio di chi leggerà. Pensa al libro di Giobbe: il cui protagonista, alla fine, dopo tanta pena, viene ricompensato con nuove mogli, nuovi figli, nuovo bestiame: gesto di generosità divina che peraltro non farà tornare vive le antiche moglie, non farà tornare vivi gli antichi figli, non farà tornare vivo l’antico bestiame; gesto di generosità divina che condanna Giobbe a concludere la propria vita circondato da sostitute e sostituti, così volonterosi nel cercare di sostituirsi – nella memoria – alle care e ai cari perduti, da ricordarli ossessivamente: persecutoriamente. Chapeau!

Nove. Pensa dunque, nel momento in cui cominci a narrare la storia, a come la terminerai. Ci sono due modi di rappresentare che cos’è un romanzo. Uno scrittore britannico del quale non ricordo il nome – la citazione è citatissima, ma nessuno ne riporta il nome – diceva che il romanzo è composto «da un inizio, una fine, e da un sacco di roba mezza in messo per tenerli distanti»: e, se c’è della malevolenza, in queta definizione c’è anche del genio. Tuttavia si può anche immaginare che il romanzo sia composto da un finale, da un luogo dove tutto deve arrivare, e dalle grandi manovre che l’intera narrazione fa perché effettivamente tutto, ma tutto insieme, ogni cosa nel medesimo istante, arrivi lì.

Dieci. Pensa a quanti romanzi hai letto, o quanti film hai visto, che avevano un «finale debole», come si usa dire. Prova a rileggerli, a riguardarli, con questa ipotesi in testa: che non sia nel finale, il problema, ma nell’inizio; che qualcosa sia stato sottratto alla storia, rubato – per prudenza, per paura, per pudore – agli occhi di chi legge o guarda, fin dall’inizio. Se ti concentrerai, scoprirai che spesso, se non sempre, il difetto dell’explicit sta nell’incipit. D’altra parte, una volta, tanto tempo fa, era nell’explicit che gli amanuensi fornivano i dati fondamentali del libro: il titolo, l’autore, il trascrittore, ciò che a noi oggi pare ovvio che venga posto sul frontespizio e sulla copertina. L’inizio e la fine si scambiano di posto, «sdipanando e addipanando un gomitolo e controgomitolo di orbite ellittiche in senso alternativo un paio di milioni di volte al secondo» come diceva, del fulmine impigliato al parafulmine, Carlo Emilio Gadda, nella Cognizione del dolore.

7 pensieri riguardo “Dieci sistemi sicuri per dare al tuo romanzo un finale con i fiocchi

  1. Grande, Giulio. Pirotecnico , illuminante ed entusiasmante ,come al solito

  2. Caro Giulio,
    questo è uno dei pochissimi articoli (se non addirittura l’unico) che ho stentato davvero a comprendere.
    Non so se sia dovuto alle innumerevoli citazioni o perché lontano dal tuo solito modo di esprimerti in con grande chiarezza o magari a causa dei miei limiti, tuttavia non ci ho capito un tubo…
    Metto in fila quindi qualche commento nella speranza d’intenderci un po’ di più.
    Uno. Non trovi che rivelare nel finale (perché solo nel finale…?) il “senso della storia” dipenda molto dal punto di vista? Dal modo in cui l’autore e/o il narratore hanno raccontato la storia? Una cosa è narrare in Prima Persona e altra cosa è affidarsi alla Terza Persona e a un gradiente quasi infinito di autore/narratore che emerge o se ne rimane nascosto (ma c’è…).
    Due. Chiaro
    Tre. Servirebbe qualche esempio più comprensibile. Non capisco il legame fra menzogna, paura (di che?) e tecnica (quale?).
    Quattro. Buio, perdonami.
    Cinque e sei. Chiaro
    Sette. Si lega al punto Tre: in sostanza che significa “ben fatto” in modo che sia una menzogna senza però usare la Tecnica e senza aver paura…?
    Otto. Chiaro. Certo ci vuole vero talento per arrivare a tanto. Ma questo esige la Scrittura, insieme a tante altre qualità, quindi non lamentiamoci.
    Nove. Chiaro.
    Dieci.Chiaro.

    In breve, credo si decisivo capire bene “chi” parla/narra nel romanzo, in modo da capire anche quali “licenze” può permettersi nel momento che si debba a un certo punto (ma potrebbe non essere l’explicit…) passare al “momento in cui l’immaginazione si allontana, allarga il suo punto di vista, da quella storia lì (lì, in quel momento lì, tra quei personaggi lì, ecc.)… e sale in alto, in alto, fino a contemplare tutto…”, non credi?

  3. Emmegisan: grazie, ho corretto.

    Delucasimoneluchini: la mia impressione è che tu abbia voluto leggere le mie note come se parlassero di tecnica del romanzo. Cosa che non intendevano essere (e, se hanno fallito nell’intento, mea culpa). Grazie.

  4. Ah, capisco. Non c’è problema, la colpa è mia che non sono abbastanza sagace e quindi mi sono rifugiato nella richiesta di un’umile spiegazione.

  5. Comunque, Duca. Sul punto Uno: il finale dipende certamente dal Narratore – inteso non come “personaggio che narra la storia”, ma nel modo che ho cercato di spiegare in questo articolo.

    Sul punto Quattro: se al finale si assegna la funzione di contenere “il sugo di tutta la storia” (come diceva Manzoni delle riflessioni conclusive di Renzo e Lucia), allora questo “sugo” consisterà nella collocazione di quella specifica storia dentro un’idea generale (eventualmente anche metafisica) del mondo. E infatti il “sugo”, per Manzoni, anzi per Renzo e Lucia, è: “Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Ovvero, una riflessione sostanzialmente teologica – che slega, o tenta di slegare, la presenza del male nel mondo sia dai comportamenti umani sia dalla volontà divina. Ovviamente non tutti i “sughi” sono presentati in maniera così esplicita.

    È mia convinzione, derivata dalle mie poche letture di romanzi, che l’abuso di tecnica narrativa conduca quasi sistematicamente a produrre narrazioni consolatorie, o quantomeno anestetizzanti. So che i narratori – quanti ne ho editati! – fanno ricorso alla tecnica, agli “espedienti tecnici”, quando vien meno loro l’immaginazione.

  6. Grazie davvero del chiarimento.
    La mia perplessità nasceva dal fatto che spesso affidare certi pensieri universali ai personaggi (che magari non posseggono tali visioni universali e tanto meno registro con cui lo esprimono…), potrebbe fare danni ancor peggiori. E quindi, tutto bene nel caso di un narratore cosiddetto Onnisciente (molto presente, dai..) come il Manzoni, ma spesso si vedono personaggi (magari in prima persona, e non solo alla fine…), cui un incauto narratore mette in bocca considerazioni che non dovrebbero appartenerli né per cultura e spesso neppure come registro…
    Detto in altre parole, diventa interessante capire come mettere il sugo in una storia cercando di non metterlo però in bocca o nella testa di chi quel sugo non può esprimerlo se non addirittura comprenderlo.

    Mi vado a leggere l’articolo!

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