Essere Philip Roth

di Simone Salomoni

“Bisogna essere terribilmente ingenui per non capire che uno scrittore è un artista che mette in scena quello che sa fare al meglio – soprattutto quando indossa la maschera della prima persona singolare. Questa potrebbe essere la miglior maschera per un secondo io.

Alcuni (molti) fingono di essere più adorabili di quanto lo siano davvero e alcuni fingono di esserlo meno. È irrilevante. La letteratura non è un concorso di bellezza morale. Il suo potere scaturisce dall’autorità e dall’audacia con cui l’impersonificazione viene messa a segno; ciò che conta è la convinzione che suscita. La domanda da porsi sullo scrittore non è «perché si comporta così male?» ma «cosa ottiene indossando questa maschera?»”

Ogni tanto mi capita di spiegare che Philip Roth non è tanto uno dei miei scrittori preferiti quanto uno degli scrittori più utili se ci si vuole approcciare a un certo tipo di scrittura, a un certo tipo di letteratura. Roth, infatti, oltre a essere uno scrittore estremamente prolifico, autore di trenta romanzi, è forse l’autore che più di ogni altro ha sperimentato le diverse possibilità delle scritture che si muovono a partire dalla manomissione dei dati biografici dell’autore che le produce, attraverso l’invenzione di una serie di alter ego pseudoautobiografici – il più famoso dei quali è senza dubbio lo scrittore Nathan Zuckerman protagonista (ma non sempre narratore) di diversi romanzi di Roth – ma non solo. Fra il 1988 e il 1993, infatti, Roth alterna due libri di memorie (I fatti. Autobiografia di un romanziere, 1988 e Patrimonio. Una storia vera, 1991) – Wikipedia li cataloga così – a due libri spudoratamente autofinzionali (Inganno, 1990 e Operazione Shylock. Una confessione, 1993).

I fatti. Autobiografia di un romanziere si apre con una lettera di Roth a Zuckerman – nella quale, in sostanza, Roth afferma di sentire un desiderio di verità e di volere quindi scrivere un libro di fatti – e si chiude con la risposta di Zuckerman a Roth, risposta nella quale l’alter ego nega allo scrittore la possibilità di pubblicare il libro. Chiaro è che davanti a uno scrittore che afferma di volere essere sincero, ma poi scrive al proprio alter ego letterario, e ottiene risposta, il lettore qualche domanda se la pone. E la risposta di Roth non fa altro che affermare che il romanziere è per sua natura un bugiardo.

Due anni dopo Roth farà uscire quello che è il suo primo romanzo autofinzionale: Inganno. Si tratta di un libro costituito interamente da dialoghi fra uno scrittore ebreo chiamato Philip e una donna inglese di nome Maria (amante di Zuckerman nel bellissimo

romanzo La controvita). Dopo un centinaio di pagine, leggendo il penultimo dialogo, scopriamo che ciò che abbiamo letto altro non è che il materiale di studio di Roth personaggio e apprendiamo che l’amante è un’invenzione letteraria costruita così bene da ingannare persino la moglie di Roth, l’interlocutrice di questo penultimo dialogo. Lo scrittore sembra volere sottolineare la superiorità della creatura inventata sulla creatura reale. Ma non è finita. Con l’ultimo dialogo scopriamo di essere stati spettatori dell’ennesimo inganno di Roth e che l’amante (la Maria de La controvita) esiste realmente.

Sia ne I fatti (che, ricordiamo, doveva essere un’autobiografia), sia in Inganno il lettore, in diversa maniera, si trova di fronte al rovesciamento di quella che credeva la realtà, vede tradito il patto che lo legava allo scrittore.

In Operazione Shylock Roth si spinge oltre. Falsa completamente il principio di realtà su cui si regge la storia. Racconta un’avventura occorsa a un personaggio di nome Philip Roth, sfruttando i propri dati autobiografici. Dopodiché sottopone il suo vissuto a un’alterazione romanzesca tanto evidente da spiccare per improbabilità: il lettore si trova immerso in una spy story nella quale può dedurre la massiccia dose di fiction che sovverte la prefazione. Roth, nelle interviste successive all’uscita del libro, ha sempre confermato, con un certo tono canzonatorio, che tutto quello che ha raccontato nel libro è vero ed è successo, ma è evidente come il romanzo sia la più spudorata contraffazione di Roth; grazie al diaframma finzionale l’autore esprimi giudizi politici e storici che altrimenti non potrebbe esprimere; lo fa per bocca di Moishe Pipik, suo doppio, un doppio che nel corso del romanzo, spacciandosi per lo stesso Roth, dichiara che il conflitto israeliano palestinese verrà risolto quando Israele rinuncerà al suo stato e i cittadini si prepareranno a una nuova diaspora, una posizione che – se sostenuta apertamente – avrebbe portato Roth a rinnovare le polemiche con parte della comunità ebraica. Ma d’altro canto è lo stesso Roth a scrivere:

“Compromettere un “personaggio” non mi porta davvero dove voglio arrivare io. Quello che arroventa davvero la situazione è il compromettere me stesso. Rende l’accusa, come dire, più succosa, il fatto di infangare la mia persona”.

Pubblicato da bottegadinarrazione

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