Perché leggere i contemporanei (per scrivere)

di Valentina Durante

(dal retroBottega di aprile 2025 – per iscriverti, clicca qui)

Il titolo è furbetto: ricalca quello di un famosissimo articolo di Italo Calvino – Perché leggere i classici – comparso su «L’Espresso» il 28 giugno 1981 e ripubblicato dieci anni più tardi in apertura all’omonima raccolta postuma di saggi. È furbetto e forse anche incongruo dato che i contemporanei – e per quanto alcuni per posa lo neghino – in fondo li leggiamo tutti: e se non per piacere, almeno per farci un’idea su quello che gira. Qui, però, la disanima che in Calvino maschera un’esortazione (Essù, leggiamoli questi benedetti classici!) è rivolta specificatamente a chi scrive e non riguarda tanto una lettura da lettori, fatta per puro e disinteressato godimento («Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest’aria prima di morire”» così Calvino citando Cioran a chiusura e a summa dell’articolo), ma una lettura – passatemi il termine – strumentale, che fa uso dei libri come si farebbe uso di un qualsiasi strumento di lavoro. E strumento per cosa? Ma per capire com’è fatto un testo, per studiare le soluzioni adottate dagli altri autori in reazione a specifici problemi compositivi e progettuali, per rendere la scrittura altrui parametro, sorgente e pungolo per la scrittura propria. In breve, leggere i contemporanei allo stesso modo in cui si leggono i classici. Perché farlo?

1. Per leggere con maggior profitto i classici stessi

Per quanto i classici ci appaiano e spesso ci vengano presentati come opere che trascendono i tempi, non soltanto la loro natura, ma anche la loro ricezione è storicamente e culturalmente determinata. Calvino ha ragione: «Un classico non ha mai finito di dire quel che ha da dire» ma è il contemporaneo – ossia ciò che al classico è posteriore – che ne ricrea i significati e talvolta persino la forma. Vediamolo con un esempio: esiste un classico più classico (dunque a-temporale, dunque auto-evidente, dunque incontestabile e incorruttibile) della Gioconda? Eppure, il mito di Monna Lisa si consolida in un momento ben preciso: alla fine dell’Ottocento, quando Walter Pater (in: The Renaissance – Studies in Art and Poetry; the 1893 text) interpreta la donna rappresentata da Leonardo sulla scorta del modello femminile della famme fatale, irresistibile quanto peccaminosa fonte di perdizione che tanto suggestionava scrittori e artisti (maschi, of course) dell’epoca. Pater vede nella Gioconda «l’animalismo della Grecia, la lussuria di Roma, il misticismo del Medio Evo con la sua ambizione spirituale e i suoi amori ideali, il ritorno del mondo pagano, i peccati dei Borgia»; la tratteggia come creatura «più vetusta delle rocce tra le quali siede; come il vampiro, fu più volte morta ed ha appreso i segreti della tomba». Questa – va da sé – non è davvero la Monna Lisa di Leonardo. Questa, al limite, è la Nanà di Èmile Zola, la prostituta d’alto bordo che fa perdere la testa ai parigini, sintesi di estasi e traviamento. È – quella di Pater – una visione tipicamente fin de siècle in cui immutabilità del classico e spirito contemporaneo si saldano per comunicarsi con intensità nuova al pubblico del tempo e non solo: elaborando anche un paradigma per tutte le riletture successive, siano queste consonanti con l’interpretazione decadente prateriana oppure in dissacrante antitesi (una fra tutte: la Gioconda con i baffi di Marcel Duchamp). Dunque: tenersi a distanza sdegnosa dai contemporanei per rinchiudersi nella paradigmatica torre d’avorio dei classici, convinti che questo ci aiuterà a scrivere un’opera non destinata a passare (tanto quanto non passano – non periscono – le grandi opere della tradizione) significa rinunciare a capire i classici stessi, il cui presupposto è proprio quello di una continua, inesausta e perciò fertilissima suscettibilità alla reinvenzione.

2. Perché il presente non è il passato

È tanto ovvio che a volte ce ne scordiamo. Così terrorizzati dallo stigma di essere o anche solo di apparire “alla moda”, dimentichiamo che – come dice Adorno – “a causa della propria dimensione artigianale tutta l’arte ha qualcosa del cieco fare”. Tutta l’arte – e dunque anche la scrittura in quanto arte – possiede cioè un nocciolo di verità che aspira all’eterno e al sovrastorico ma la sua polpa, la materia e la qualità di superficie è sempre protesa all’oggi: soggiace alle tecniche, ai modi, ai generi, agli stili e sì: diciamolo, anche alle mode del contemporaneo. Vietarsi di approfondire questo fare che è cieco e caduco e perciò stesso imprescindibile (come si può parlare dell’uomo e della sua caducità se non affondando le mani nella palta della caducità stessa?); tenersi distanti dal contemporaneo significa allontanarsi dalle sorgenti del fare stesso, e questo i grandi autori lo sanno benissimo: “Grandi artisti da Baudelaire in poi sono stati in combutta con la moda; laddove l’hanno denunciata sono stati smentiti dagli impulsi del loro stesso lavoro. […] Anche artisti come Richard Strauss, forse persino Monet, hanno perso in qualità quando, apparentemente contenti di loro stessi e di quel che avevano conseguito, hanno perso la capacità dello slancio storico e del far propri materiali più progrediti.”

3. Perché il presente non è il passato

Sì, again. Non lo è perché questo specifico presente – quello in cui viviamo dalla fine degli anni Settanta a oggi – è diverso sia dal presente a suo tempo vissuto dai Romantici (dunque il secolo in cui il genere romanzo ha raggiunto la sua conformazione più tipica), sia dal presente vissuto dai Modernisti (i quali – leggi Proust, Joyce, Kafka, Woolf, Mann ecc. – hanno composto opere-caposaldo con le quali ci confrontiamo utilmente anche oggi); è diverso – profondamente diverso – perché è cambiato il modo con cui ci si accosta a quel che è venuto prima. Per noi contemporanei cresciuti a pane e postmoderno, il passato è un immenso luna park. Ancora meglio: una cassetta degli attrezzi ben fornita contenente tecniche, generi, forme, motivi, temi e stili da usare liberamente e disinibitamente. Tutto è diventato lecito perché negli ultimi cinquant’anni è caduto quel “canone del proibito” o “dell’interdetto” (di nuovo chiamiamo in causa Adorno) con il quale si poneva un veto sulla possibilità di fare arte allo stesso modo delle generazioni precedenti, la normatività del «Il faut être absolument moderne», «bisogna essere assolutamente moderni», di Rimbaud, frase eletta a mantra dalle avanguardie (ed è questo semmai a contare, più che il conio rimbaudiano vero e proprio) in cui si dava per scontato che generi, tecniche, stili ecc. con il trascorrere del tempo appassissero come piante in inverno diventando forme non più servibili. “Non è possibile scrivere come vent’anni fa” decretava Alain Robbe-Grillet: ma si era negli anni Sessanta, ancora preda del furor sperimentalista. Oggi non lo siamo più. Oggi quel furor lo abbiamo superato o rassegnatamente placato e sappiamo che ci è dato di scrivere (anche) come venti, trenta, cinquanta, cento, duecento anni fa (è sotto gli occhi di tutti la persistente fortuna del romanzo storico che riprende Morante e perciò le strutture ottocentesche), e di poterlo fare in modo originale perché questo è il nostro modo di essere contemporanei. Dunque sì: dobbiamo leggere e studiare i contemporanei e il loro rapporto con la storia della letteratura per poterci inventare una nostra maniera di stare nella tradizione.

4. Perché il presente è anche il passato

E lo è non solo perché (vedi sopra) ne facciamo spudoratamente uso. Il presente è passato e il passato continua a essere (infestare il?) presente perché noi – contemporanei e ipertecnologici e ormai virtualizzati – pure seguitiamo a sguazzare nel brodo di coltura di quel Romanticismo che Isaiah Berlin ha definito “il maggior mutamento singolo verificatosi nella storia dell’Occidente” (per chi vuole approfondire: Fuga dal Romanticismo); superiore – a quanto pare – anche allo stesso Internet grazie al quale pure questo articolo sta viaggiando (e non sono forse eroi romantici Steve Jobs, Bill Gates e i vari pirati della Silicon Valley?) Non è mica un fattore da poco. Significa che siamo qui ma siamo anche lì, e che nel nostro essere lì siamo individui convinti che una vita in tutto o parzialmente dedicata all’arte (alla scrittura) come espressione di sé e della propria unicità sia una vita senza dubbio ben spesa, ricca di senso. Mai, prima del Romanticismo, era accaduto che un simile pensiero si diffondesse con tanta virulenza. Mai, prima del Romanticismo, una civiltà umana aveva destinato una tale ammirazione agli artisti e alle persone creative in genere. Noi siamo ancora lì, ma lo siamo a distanza di più di duecent’anni rispetto al tempo in cui tale idea è stata maturata, dunque con modi e forme schiettamente contemporanei. La contemporaneità è una tensione fra un paradiso perduto ma continuamente vagheggiato – il mito dell’artista come intellettuale e vate, con una forte proiezione avanguardista – e la terrestrità di un presente costretto spesso ad accontentarsi della minutaglia pratica per quanto dallo scintillio virtualissimo – hai aggiornato le stories con l’uscita del libro, il blurb, la rece, la promo della prossima presentazione?). Autofiction, non fiction, scrittura dell’estremo e narrazione del trauma sono alcune delle forme della narrativa contemporanea originate da questa tensione: giova conoscerle, e non meno giova conoscerne il retroterra.

5. Per fare esercizio di coerenza (o di umiltà)

Se pensiamo che i contemporanei scrivano robaccia, che siano prezzolati lavoratori nella vigna del mercato e che quanto viene smerciato in libreria o nei più deprecabili canali online sia buono al massimo per ingannare il tempo ma in nessun caso può essere utile allo studio (dato che si studia tassativamente sui classici), noi, scriventi che aspiriamo a comporre e pubblicare un’opera che va da sé verrà diffusa nei circuiti suddetti, esattamente come andremmo a posizionarci? Come gli autori di quella stessa robaccia che noi per primi stigmatizziamo reputandola indegna, oppure come gli unici in grado di staccarsi dalla meschina qualità di tutto il resto?

6. Per addestrare la nostra autonomia di giudizio

Beh: facile leggere i classici. Facile, cioè, addentrarsi in un testo di complessità magari estrema ma con la certezza che ci stiamo confrontando con una – bollino di garanzia – Grande Opera: una di quelle che si leggono e si rileggono; che si impongono come indimenticabili mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale; che recano tracce di altre Grandi Opere precedenti essendo a loro volta dispensatrici di tracce; che provocano la critica ma allo stesso tempo se la scrollano di dosso; che le si conosce a memoria o magari solo per sentito dire, ma che pur quando straconosciute le si ritrova a ogni lettura nuove, inaspettate, inedite e che pur leggendole la prima volta dopo averle sentite citare a iosa le si scopre e con gradevole sorpresa comunque nuove, inaspettate, inedite; che ci aiutano a definirci in rapporto a loro oppure in contrasto, che amiamo fino all’ossessione (senza mai sentirci folli: sono classici!), o che odiamo nella stessa maniera viscerale (anche qui, senza tema di follia: sono classici! dunque ineludibili a prescindere; anche quando, o soprattutto quando, oggetto di passioni divergenti); che sono infine depositarie del nostro sommo piacere e del nostro sommo diritto all’inutilità, la nostra aria di flauto mandata a mente prima di ingollare un buon bicchiere di cicuta. Ma proviamo a fare tutto ciò con i contemporanei: opere che ancora non hanno beneficiato di una consacrazione (se mai l’otterranno), che non sono entrate stabilmente nel canone (che ancora non c’è, e se anche c’è non è stabile), che non possono vantare una ricca e incontestabile bibliografia critica e la sicurezza di un giudizio già elaborato e sedimentato da parte della koiné. Sono semplicemente loro: le opere. E ci siamo noi, che dobbiamo attraversarle senza uno straccio di mappa o cascarci dentro senza paracadute, esercitando la nostra piena libertà di giudizio nel decretarne l’eventuale rilevanza (o il contrario). Leggere i contemporanei come se fossero classici ci allena al senso di responsabilità e alla tolleranza del rischio che servono (anche) per dirsi autori.

7. Per sperimentare la caducità

Si dice che niente sia utile quanto una visita alle bancarelle di libri usati per prendere atto della nostra probabile se non quasi certa impermanenza come autori. Prendere in mano copertine strinate e polverose scorrendo l’indice su nomi degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta può farci toccare letteralmente con mano la volatilità di un passato che non è poi così distante – quello dei nostri nonni e dei nostri genitori (parlo per me che sono prossima ai cinquanta). Eppure, proprio perché di loro si tratta – e non di noi –, a prodursi non è un reale senso di sgomento, quanto piuttosto una quieta forma di nostalgia; il vagheggiamento alato di tempi in cui la lettura era, almeno per le classi istruite, occasione di svago prediletta e la letteratura il principale strumento di formazione culturale e morale del singolo. Eh, sì: decisamente altri tempi. Il profumo della carta e dell’inchiostro, magari le rilegature con le pagine ancora incollate, scrittori di lustro trasformatisi in tanti Carneade, ma del resto, quanti decenni sono ormai trascorsi? Pare davvero un’altra epoca, che in fondo nemmeno ci tocca, non ci riguarda pienamente. Provate ora a prendere in mano romanzi o raccolte di racconti anche solo di dieci, venti, trent’anni fa. Giovani promesse poi eclissatesi, nomi al tempo acclamati e (si pensava) consolidati in un perenne posto al sole e che oggi, passando il famoso dito indice sopra la copertina o sullo schermo del telefono (il mercatino neppure occorre, ché oggi la caducità viaggia ancora meglio nelle lande spazzate dal vento del digitale), ti ritrovi a pensare: Ah, sì. Lui (lei). Che fine ha fatto, perché non se n’è più sentito parlare? È tremenda la percezione di quanto siamo tutti sospesi a un filo, o in bilico tra i fasti del qui-e-ora e il buio siderale di una quasi completa eradicazione. È tremendo ma salutare perché ci aiuta a mettere le cose in prospettiva. A renderci conto che, se anche non pubblichiamo subito, non importa. Se anche non pubblichiamo come vorremmo, non vendiamo quanto sperato o persino preventivato (grave errore! mai preventivare nulla), oppure manchiamo il podio, la classifica, la cinquina, la terna, la segnalazione e la nomination e il premio consolazione e i punti fedeltà con il borsone-palestra in omaggio, non importa, perché comunque siamo tutti, tutti (o quasi) destinati a passare. E dunque: barra dritta e ricordarsi di ciò che conta e del motivo per il quale stiamo facendo tutto questo, ossia la scrittura. Non c’è niente altro. Non deve importarci nient’altro. L’oblio di libri stampati giusto l’altro ieri – oblio contro il quale non possiamo fare niente, o se qualcosa in definitiva pochissimo – sta lì a ricordarcelo. E allora leggiamo (anche) i contemporanei, ché rinforzano il sistema immunitario – quando occorre.

Il corso «Scrivere nel contemporaneo» si propone di condurre una ricognizione delle forme narrative che si sono imposte nel panorama letterario italiano a partire dalla fine degli anni Settanta e fino ai giorni nostri. Non si tratta di un corso accademico di storia o di critica della letteratura, ma di una sintetica full immersion pensata per chi scrive – dunque con un orientamento quanto mai concreto e pragmatico – allo scopo di dare una buona occhiata a quel che siamo stati nel nostro passato più recente e che siamo per tanti aspetti anche adesso. Come si costruisce un dialogo che non suoni artefatto? Come si descrive un personaggio senza apparire didascalici? Quanto sintetizzare nei sommari e come gestire utilmente il montaggio? Cosa significa in un testo essere coerenti e che rapporto s’instaura fra realtà e realismo, tra fatto e fiction? Non esistono risposte univoche, perché in scrittura non esistono regole che un qualche autore non abbia in un certo punto del tempo violato, e con successo. Esistono però delle risposte contingenti e storicamente determinate, perché tutti, e a prescindere da eventuali e quanto mai legittime ambizioni di eternità, scriviamo nel tempo presente rivolgendoci a lettori che lo sono altrettanto; e descrivere un personaggio inondati come siamo da ogni sorta di sollecitazioni visive e attraverso ogni sorta di canale (di questo già si è detto), non può che richiedere modi e forme diverse da come si descriveva nel 1925 o nel 1825. O meglio: si può, ancora oggi, descrivere come si descriveva nel 1925 o nel 1825, ma l’intenzione e l’effetto saranno completamente differenti.

Consta di sei incontri da tre ore ciascuno (19-21), a distanza su Zoom, a partire da giovedì 8 maggio.

Per il dettaglio delle singole lezioni e le modalità di iscrizione: Scrivere nel contemporaneo.

Pubblicato da bottegadinarrazione

La Bottega di narrazione è un'iniziativa di Laurana Editore.