Scrivere con i sensi: l’esempio del narratore inattendibile in Memoriale di Paolo Volponi

di Valentina Durante

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Memoriale è l’opera con cui Paolo Volponi esordisce come narratore nel 1962 e uno dei testi paradigmatici di quella che è stata definita, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, «letteratura industriale» [1]. Come già Ottiero Ottieri (il quale inaugura il filone nel 1957 con Tempi stretti, anche se la critica si spinge ancora più indietro, al 1934 di Tre operai di Carlo Bernari), Volponi appartiene alla non certo nutrita schiera di letterati che conoscono la fabbrica dal di dentro, per quanto non direttamente come operai; sia lui che Ottieri lavoravano infatti alla Olivetti di Ivrea, assunti dallo stesso Adriano, considerato apertamente da Volponi uno dei suoi due maestri – l’altro era Pasolini.

Volponi entrò in Olivetti nel 1956: prima come collaboratore, poi come direttore dei servizi sociali, rivestendo quel ruolo dirigenziale (equivalente all’odierno Responsabile Risorse umane) fino al 1971. Lo spunto per Memoriale gli venne dall’esercizio del suo lavoro quotidiano: un giorno ricevette una lettera sgrammaticata e dolorosissima, di una pagina e mezza, nella quale un operaio tubercolotico e in preda a un evidente disturbo paranoide lamentava una presunta persecuzione a suo danno da parte dell’azienda.

Volponi non era nuovo alla scrittura, ma aveva fino ad allora composto e pubblicato solo poesie, e sempre con un certo scetticismo («Io non sono uno studioso. Non lo sono mai stato. Io sono uscito male dalle scuole. Se io ho scritto, ho scritto perché avevo da lamentarmi, ed esprimevo sofferenza». [2]). A «mettergli le dita sulla pagina» fu l’amico Pasolini, ma oltre che l’idea giusta e un incoraggiamento affettuoso a Volponi serviva anche la spinta di un’indignazione bastante, sulla scorta di quel che Pasolini stesso gli diceva: «Il problema è di avere l’ansia di scrivere, di possederne l’esigenza interna, il tema, la forza, l’indignazione» [3]. Tema, forza e indignazione derivarono proprio dalla lettera scritta da quel suo operaio, quasi un grido di aiuto senza principio né fine, il quale fornirà il modello per il protagonista-narratore di Memoriale Agostino Saluggia.

Ho voluto anteporre questa premessa perché Memoriale è un testo spesso consigliato nei manuali e nelle scuole di scrittura: certo per la sua bellezza e il suo valore letterario, ma anche perché mette in scena in maniera assai efficace il cosiddetto «narratore inattendibile»: un narratore, cioè, il cui livello di obiettività è parziale e/o compromesso – e per quanto qualunque narratore in prima persona possa venire tacciato ipso facto di parzialità. Nel caso del narratore di Memoriale, però (ed è questo a rendere l’opera emblematica), la compromissione riguarda non solo il grado di oggettività o veridicità di chi narra (il quale forse ci sta mentendo, o non ci sta dicendo completamente il vero), ma anche il suo stesso senso di realtà: a parlare è, in buona sostanza, qualcuno che non ci sta molto con la testa.

Ora: enfatizzare la sola inaffidabilità di Saluggia astraendola dal contesto – non tanto l’occasione-lettera in sé, quanto un dato momento storico in cui, nel nostro paese, si verifica il faticoso passaggio da economia agricola a economia industriale e da mentalità arcaico-contadina a mentalità moderna – non ci permette di apprezzare completamente l’operazione condotta da Volponi nel testo: un itinerario di ricerca, scoperta e denudamento della realtà (dei diversi piani di cui si compone la realtà) attraverso non tanto la mente disturbata di Saluggia, quanto la relazione fra il suo corpo, i suoi sensi e l’ambiente in trasformazione di cui sono costretti a fare esperienza.

Ma andiamo per ordine.

Albino Saluggia è un reduce dai campi di prigionia in Germania. Egli ci appare sulle prime una persona di tutto buon senso: inizia il suo racconto con un’autobiografia succinta ma precisa, disponendo in ordine fatti, nomi, luoghi e riferimenti temporali (siamo nel 1945, nella zona del Canavese, anche se le coordinate precise dell’azienda ci vengono taciute), secondo una narrazione apparentemente naturalistica che conferisce subito un carattere di plausibilità al discorso:

«I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco, mi rigettasse. Io sono nato il 12 marzo 1919 ad Avignone, in Francia; ma sono italiano e di genitori italiani, padre piemontese e madre veneta, nata dalla campagna fra Padova e Treviso, in luoghi assai belli, ella mi ha sempre detto, che io non conosco» (p. 3 – cito dall’edizione Einaudi, 2015).

Man mano che si procede nella lettura, ci si rende però conto che Saluggia è affetto da delirio persecutorio; già di suo dotato di un equilibrio psichico periclitante e prossimo alla nevrosi (il rapporto con la madre è una simbiosi edipica contrastata, che transita dalla dipendenza a fantasie di violenza e successiva espiazione), una volta entrato come operaio nella fabbrica, egli si convince che i superiori vogliono farlo credere malato di tubercolosi – cosa che in effetti è – al solo scopo di tormentarlo.

Di solito lo scandaglio di Memoriale a fini didattici si sofferma qui, sulla notazione del ribaltamento: se all’inizio il lettore è solidale con Saluggia credendo “i suoi mali” reali, via via che la narrazione si fa scopertamente delirante aumenta la credibilità di quanti – colleghi, dirigenti, medici, ecc. – sono costretti a prendere atto della sua insania. Con un cortocircuito: se è vero che il Saluggia che ci congeda alla fine è un soggetto francamente psicotico nonché marginalizzato, è altrettanto vero che le sue riflessioni sulla fabbrica e sul lavoro disumanizzante che essa impone sono tremendamente condivisibili.

Adoperare un romanzo come se fosse un manuale significa andare oltre quel che l’autore fa (in questo caso il ribaltamento sano-malato, credibile-inaffidabile) per domandarsi piuttosto come lo fa, perché spesso è proprio da quel «come» che si produce la verità del testo.

Saluggia è, come già detto, un reduce di guerra. Qual è il suo desiderio, il suo obiettivo all’inizio della storia? Di rientrare nella società civile. Di reintegrarsi. Il lavoro è – e lui ne conviene – lo strumento principe per essere accolto di diritto nella comunità dei cittadini sani, funzionanti e funzionali («L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro» – primo articolo della Costituzione), tant’è che il primo impatto con la fabbrica non è di per sé negativo, e non è neppure di acceso contrasto con la realtà agreste.

In questa parte iniziale, notiamo l’accentuazione della sensorialità uditiva nelle descrizioni. Saluggia il mondo in prima istanza lo ode, e il mondo crea per lui una sorta di costante e variegata armonia.

Il suono ha in sé una caratteristica: non lo si può eludere; possiamo voltare lo sguardo, ma non possiamo voltare le orecchie da un’altra parte.

«Scrivo del rumore, perché la prima volta che uno entra nella fabbrica il rumore è la cosa più importante, e più che guardare uno sta a sentire e sta a sentire senza volontà quel gran rumore che cade addosso come una doccia» (p. 38).

In questa restituzione uditiva del mondo, emerge una concezione per così dire animista, in cui un’essenza spirituale imprime di sé tutto il creato – macchine comprese – e dove tutto è potenzialmente in armonia, in equilibrio e in comunione con tutto. È il primo piano di realtà – o meglio di falsa, apparente realtà (tanto quanto falsa e apparente è la salute mentale di Saluggia) – del quale facciamo esperienza nel testo.

La comunione attraverso il rumore è resa perfettamente nella scena in cui Saluggia guarda due escavatrici che lavorano all’unisono come fossero due creature; sono due macchine – la fabbrica è dominata dalle macchine ed è macchina essa stessa –, ma sono anche due corpi, due esseri umani coinvolti in una danza:

«Io mi sentivo completamente libero: libero e senza corpo come il rumore e quella mattina. Mentre il motore della prima andava al minimo, l’altra guardò indietro lasciando riposare la pala. Capì subito; voltò e si diresse verso la compagna. Si avvicinò con il suo corpo giallo a quello dell’altra. Quando furono insieme sospesero per un momento ogni rumore. Poi una, la prima, cominciò a strepitare regolarmente, quasi cantando; l’altra la seguì più piano. I rumori aumentarono insieme e le due macchine si abbracciarono, sempre più strette. Capii che l’una aiutava l’altra e che insieme facevano forza nella stessa direzione. Con la sua pala, una spingeva l’altra sotto il sedere e la rincalzava al fianco. Finalmente furono libere, si voltarono le spalle e ripresero il loro lavoro» (p. 80).

Qui Saluggia riesce ancora a pensare a sé stesso e ai suoi mali «con estrema dolcezza e con grande compatimento»; la sua relazione con il mondo, il quale è umano e meccanico e, trattandosi di fabbrica, meccanico attraverso gli uomini e umano attraverso le macchine, è all’apparenza integrata e poco conflittuale: Saluggia sa che verso quel mondo egli può ancora nutrire fiducia.

Quando questa s’incrina e l’integrazione comincia a sfaldarsi, Volponi agisce di nuovo movimentando il suono. Saluggia continua a mostrare una sensibilità spiccata per i rumori – ambientali e meccanici –, ma anche per le voci umane; ed è proprio quando si tratta di voci umane (ci troviamo ora nel sanatorio per tubercolotici dove Saluggia ha accettato di farsi ricoverare) che subentra il negativo, il marcio, il malato e l’osceno: il rumoraccio:

«Attraverso le canne del rubinetto correvano spesso dei rumoracci e sembrava che i malati si mettessero sempre a soffrire sul lavandino. Giungevano voci dolorose, scrosci, gorgoglii, tutta una rete di comunicazioni oscene, da essere di sicuro quelle dei malati. Dal corridoio veniva solo il rumore di qualche passo e le voci delle donne della pulizia. Dalla finestra invece venivano molte voci, anche queste femminili e anche chiacchierate normali, con toni più alti e risate» (p. 86).

È qui evidente l’assimilazione fra l’esperienza della prigionia di guerra e un nuovo universo concentrazionario: che non è ancora quello della fabbrica tout court, ma quello del sanatorio nel quale gli uomini che nella fabbrica governano – i medici, i dirigenti – lo hanno costretto a rinchiudersi per impedirgli di lavorare.

Una volta dimesso, il falso equilibrio iniziale si sfascia. Saluggia comincia a sentirsi perseguitato da una «malattia che non ha voluto» e che gli è stata «gettata sulle spalle da altri», e in lui prende forza il sospetto di malevolenza e manipolazione, raggiro e tormento. Eppure, ripeto, il nemico sono ancora gli uomini, non la fabbrica meccanizzata in sé. La fabbrica è ancora l’integrazione, il lavoro è ancora la vita. I rumori meccanici sono amici, koiné; sono le voci, semmai, a darsi come violenza: le parole e i discorsi:

«Ecco, pensai, ecco che ricominciano con i controlli; ecco che uno mi manda dall’altro; ecco che mi rifanno i discorsi mettendo ciascuno una parola, una parola sempre più cattiva, sempre più cattiva, fino alla fine. […] Cessò il rumore della fabbrica e cominciò quello delle voci, dai corridoi e dalle officine» (p. 111).

È proprio nel montare del delirio, quando Saluggia ha ormai e inequivocabilmente perduto il senso di realtà (è convinto che i medici stiano falsificando i risultati dei suoi esami per dichiararlo ancora malato e impedirgli di lavorare), che egli inizia a scorgere la consistenza di una verità: la malattia degli uomini nasce dalla loro assimilazione alle macchine; dal fatto che, per integrarsi in fabbrica, siano costretti a divenire come macchine:

«L’importante è che le fabbriche, così come sono fatte oggi, annullano piano piano per tutti quelli che vi sono il sentimento di essere su questa terra, da solo e insieme agli altri e a tutte le cose della terra. Così si dimentica qual è il destino degli uomini e subentra un orgoglio sempre più profondo per l’organizzazione nella quale si è, per le macchine e per tutto l’ingranaggio che riesce a fare cose mai viste pensate da un uomo. […] Ci si può spingere a pensare a un uomo non più fatto a somiglianza di Dio, nella sua terra; ma più somigliante legato alle macchine, addirittura a una razza diversa» (pp. 141-142).

La confessione di Agostino Saluggia abbraccia un arco temporale che va dal 1945 al 1956. Sono gli anni in cui – e lo abbiamo detto – lo sviluppo industriale s’innesta con prepotenza in un Nord Italia ancora dominato da un modello economico e sociale per gran parte agricolo; gli anni dei principi tayloristi-fordisti che promuovono un’organizzazione scientifica del lavoro, con ritmi dettati dalle esigenze della catena di montaggio, sempre più rapidi e ripetitivi, e dell’introduzione del cottimo che spinge gli operai ad accelerarli quasi al limite della sopportazione fisica allo scopo di incrementare il salario; non ultimo, gli anni in cui, complice una robusta emigrazione interna dal Sud alle grandi città del Nord, l’operaio-massa sostituisce l’operaio specializzato: a chi lavora in catena si richiedono adesso non tanto delle abilità tecniche specifiche, quanto la capacità di sopportare lo stress e una certa imperturbabilità emozionale: la stessa che veniva richiesta al soldato in trincea.

Questa è la realtà, nel testo di Volponi: e come la registra il nostro Saluggia? Un Saluggia – ribadiamolo – ormai scopertamente folle, ma nascostamente lucidissimo. Volponi gliene fa prendere coscienza con il retrocedere del dato acustico a vantaggio di quello visivo.

Il guardare, a differenza del sentire, è sempre frutto di una scelta; è un atto di consapevolezza: Eva e Adamo scelgono di mangiare le mela, al che «si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi»; i discepoli di Emmaus scelgono di invitare alla loro mensa Gesù (che ancora non hanno riconosciuto), al che «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». Guardare può essere salvezza, o può essere dannazione; e forse (qui, dopotutto, Volponi ce lo suggerisce) è salvezza e dannazione allo stesso tempo.

Sembra che sulla fabbrica scenda una rivelazione divina – che Volponi chiama però «guasto»; o che il divino si palesi come epifania: sotto forma di tempesta, boato e fiamme ardenti:

«Eravamo ancora al lavoro e il temporale sembrava un guasto enorme della fabbrica, anche perché era saltata la corrente elettrica. Tutte le vetrate vibravano ed avevano preso un colore rosso di fuoco; all’interno un buio verde avvolgeva le macchine e i reparti. I lampi facevano risaltare i telai del soffitto, i cavi, gli ingranaggi. Il temporale ci faceva vedere il corpo orribile della fabbrica, indifferente, alto, costruito e in piedi non per noi.

Nessuno diceva niente, come se per la prima volta tutti fossimo capitati insieme, alla rinfusa, in quell’ambiente o per la prima volta ne capissimo, senza poter far niente, la mostruosità» (p. 144).

In chiusura di romanzo, il Saluggia piantagrane, inaffidabile, rivoltoso e demansionato in semplice piantone (prima di venire licenziato cordialmente) è un Saluggia che guarda:

«Da piantone ho imparato a guardar meglio la gente; la gente della fabbrica, i manovali blu sporco, le donne comuni dal grembiule nero, gli operai azzurri, i capi in borghese; il modo comune di sollevarsi appena fuori dalla porta, di guardarsi intorno, di camminare» (pp. 239-240).

Ricapitolando, abbiamo in Memoriale due archi di trasformazione paralleli e antitetici: uno dei fatti, e l’altro della verità a essi sottesa. Il primo ci mostra un narratore-protagonista che da attendibile si rivela il suo contrario, e che da sano di mente si rivela malato: nel corpo – la tubercolosi –, ma soprattutto nella psiche. Il secondo – l’arco di trasformazione della verità sottesa – parla invece di un Saluggia che vive dapprima nel desiderio di inclusione in un ambiente disumanizzante che ancora non percepisce come tale, e che con il proseguo della narrazione prende coscienza e visione del reale grado di disumanità dello stesso, fino a esprimere un aperto dissenso, per quanto a occhi altrui delirante.

Volponi ci descrive un’uscita dalla caverna, un Matrix ante litteram, e lo fa agendo chirurgicamente nelle percezioni sensoriali. Per mostrarci un’interiorità sconvolta tanto quanto lo è l’esteriorità – il mondo che cambia –, l’autore di Memoriale ci invita a diffidare delle memorie registrate dalla mente, per prestare fede all’illuminazione di quelle registrate attraverso il corpo: non è una trasfigurazione simbolica, quanto il recupero di un portato veridico per come solo la letteralità dei sensi, a volte, è in grado consegnarcelo.

[1] Si veda a tal proposito «Il Menabò di letteratura» n. 4, Einaudi,1961, e in particolare il contributo di Elio Vittorini Industria e letteratura

[3] Santovetti, Celli, Liberatori Prati, Conversazione con Paolo Volponi, «Carte Italiane», 1 (9), 1988.

[3] Ibidem.

Pubblicato da bottegadinarrazione

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