Essere abitati da una storia: Poco a me stesso di Alessandro Zaccuri

di Edoardo Zambelli

(dal retroBottega di settembre 2024 – per iscriverti, clicca qui)

«Non riesco più a ritrovare il quaderno nel quale per la prima volta, alla metà degli anni Novanta, ho provato a immaginare la storia di Evaristo Tirinnanzi. Già allora il personaggio si chiamava così, ed era il figlio che Giulia Beccaria aveva sì partorito a Milano il 7 marzo 1785, ma che nella mia ipotesi di racconto non aveva riconosciuto come legittimo».

Così scrive Alessandro Zaccuri nella nota finale al suo Poco a me stesso, romanzo pubblicato dall’editore Marsilio nel gennaio del 2022. L’Evaristo Tirinnanzi di cui si dice altri non è che Alessandro Manzoni. Non Manzoni come è stato, però, ma Manzoni come avrebbe potuto essere se sua madre, Giulia Beccaria, non l’avesse riconosciuto come figlio suo. Il romanzo – di cui, è bene dirlo, il Tirinnanzi non è protagonista – racconta dell’arrivo a palazzo Beccaria del barone di Cerclefleury, supposto discepolo di Anton Mesmer, e del trambusto che questo arrivo porta in chi il palazzo lo abita e lo frequenta. Della trama non serve dire altro, il romanzo (splendido) è lì, chi ha voglia può leggerlo e scoprirne segreti e meraviglie.

Quel che è interessante rilevare, tornando alla citazione in apertura, è la datazione – vaga, certo, ma comunque lontana – del primo manifestarsi del personaggio di Evaristo Tirinnanzi nell’immaginazione dell’autore: metà anni Novanta. Ciò vuol dire che dall’idea iniziale al romanzo compiuto sono passati almeno venticinque anni, anno più anno meno. Anni spesi a cercare di dar risposta a una domanda: se non avesse avuto la vita che avuto, chi sarebbe stato Alessandro Manzoni? La riposta dell’autore, fin dal principio, è: sarebbe stato Evaristo Tirinnanzi.

Un personaggio è sicuramente un buon punto di partenza. Anzi, è un punto di partenza, buono o no non importa. Quel che importa, invece, è che un personaggio non basta a fare un romanzo.

Più avanti nella nota, Zaccuri scrive:

«Per un quarto di secolo – mentre diventavo padre e i miei figli diventavano adulti, mentre mio padre moriva e io scrivevo altri libri – il Manzoni mancato, questa fragile creatura del Tirinnanzi, mi ha tenuto compagnia in maniera a volte discreta, a volte più insistente, suggerendomi trame assai differenti tra loro».

Riducendo la questione all’osso: l’autore, una volta scelta l’idea da cui partire – ammesso che un’idea si possa scegliere e non si venga invece scelti da quell’idea – ha avuto esigenza di cucirgli intorno una trama (una sequenza di fatti tra loro concatenati) e di trovare una lingua per dirla. È significativo quel «suggerendomi trame assai differenti tra loro». Da una stessa intuizione, difatti, possono discendere un numero enorme di varianti. Per dirne una, probabilmente la più ovvia, Zaccuri avrebbe potuto scegliere di raccontare l’intera vita del Tirinnanzi, dalla nascita alla morte. Una sorta di biografia immaginaria. Ha scelto invece una trama che il Tirinnanzi lo comprende, ma senza farne il centro del racconto. Una trama che molto somiglia a certi romanzi d’avventura, ricchi di colpi di scena, di segreti, di depistaggi, di improvvisi rivolgimenti. E ha scelto «una lingua italiana intenzionalmente attardata su un versante settecentesco», parlata non solo dai personaggi, ma anche dal narratore onniscente che dalla vicenda entra ed esce, la ferma e la fa ripartire quando gli è più comodo (e quando all’autore è più utile che lo faccia).

Per far sì quindi che un’affascinante seppur vaga suggestione iniziale potesse ad un certo punto diventare un romanzo, l’autore ha dovuto operare tutta una serie di scelte tecniche: ha dovuto trovare una trama, una lingua, un narratore, scegliere da quale punto di vista raccontare i fatti, deciderne i tempi, il tono, i protagonisti e le comparse, gli spazi, i silenzi. Qui il discorso esce da Zaccuri e diventa più generale. La tecnica è ciò che permette a un autore di trasformare quello che in principio è solo possibilità in materia testuale. Il che non significa che la suggestione perda di fascino, che la creatività ceda alla fredda applicazione di regole. Significa semplicemente disporre di una mappa (la tecnica) che renda possibile l’esplorazione della propria idea e di arrivare a destinazione (il testo). Il modo in cui si decide di usare la mappa determina la destinazione, e non è raro che si vada a finire in luoghi inaspettati, che ci si perda e che il tragitto per ritrovare la strada non si riveli poi essere la vera destinazione. Quello di Alessandro Zaccuri è solo un esempio, fra tantissimi, di cosa significhi essere abitati da una storia, e di come questa “infestazione” possa arrivare alla produzione di un testo.

Da un punto di vista strettamente didattico non è possibile fornire indicazioni precise su come procedere. Il percorso di un’idea nella testa dell’autore può essere tortuoso e lento, oppure semplice e senza inciampi, molto ha a che fare con la singola persona, con il modo in cui la sua immaginazione funziona. La testimonianza di Zaccuri è particolarmente affascinante proprio perché mostra da quanto lontano nel tempo possa arrivare una storia, e di quanto lavoro occorra per far sì che la storia trovi la sua forma più giusta. E ci mostra, anche, quanto l’atto creativo sia una mistura di magia e consapevolezza, richiamo di fantasmi e presenza concreta.

Pubblicato da bottegadinarrazione

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