Scrivere con naturalezza

Com’è che talvolta la nostra voce ci suona male? O che abbiamo tutto in testa – storia, narratore, punto di vista, personaggi, persino un’idea di montaggio – ma la scrittura stenta a partire?

Ecco dieci possibili problemi che producono l’impasse (o, quando ci rileggiamo, una sensazione di fastidiosa stonatura) e qualche suggerimento per risolverli: non espedienti pronti all’uso, soluzioni infallibili o (Carver docet) trucchi «da quattro soldi» – quelli li lascio volentieri agli imbonitori –, ma, confido, spunti per avanzare nella scrittura con un pizzico di consapevolezza in più.

È un vizio frequente in chi scrive da poco tempo e cerca di darsi sicurezza: la convinzione che per fare della Letteratura (rigorosamente con la lettera maiuscola) occorra ostentare una lingua che sia riconoscibile subito e da chiunque come letteraria: infiorata cioè di preziosismi, aulicismi e arcaismi – oggi sempre più spesso anche di astrattismi e specialismi – e organizzata in una sintassi ambiziosamente ipotattica. Una lingua che si butta addosso l’abito della festa, col rischio che si veda che non è abituata e ci si muove male.

In realtà, la «bella scrittura» seduce volentieri anche gli intellettuali di grosso calibro: dominatori della pagina quali dovrebbero essere i critici, i teorici e gli studiosi della letteratura, i fini traduttori… Spesso colpevoli – scriveva Italo Calvino, che contro queste aberrazioni aveva scatenato, come ben si sa, una battaglia personale – di «un amore malposto per una lingua astratta e immobile» (Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori 2022).

Va detto che questa immobilità deriva, più che dai testi della tradizione letteraria, dall’italiano polveroso e ingessato di scolastica memoria dove le parole pare debbano sempre agghindarsi a prescindere. Il caso più citato è quello del verbo «andare» che diventa «recarsi» (ed è così citato che a volte mi vien da scrivere «recarsi» a bella posta, giusto per sentirmi un po’ punk; e infatti: «Così, quando venne il giorno, presi la moto e mi recai all’appuntamento»: Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini, Laterza 2010), ma – se vi va – nel suo Manuale di stilistica (Vallecchi 2024) Luigi Matt compone una brevissima ma ficcante lista.

Però attenzione: è altrettanto deleterio censurarsi se il gusto per il barocco ci appartiene; se lo abbiamo talmente coltivato e fatto nostro che lo sentiamo prossimo a quella sorgività che Andrea Zanzotto associava al dialetto. Scrive ad esempio Michele Mari, autore noto per le sue disinibite, consapevoli e perciò pacificate ricercatezze: «Da tempo la lingua letteraria è diventata in me una seconda natura anche molto sensuale, e quindi usandola non ho la sensazione di paludarmi o di raffreddare quello che sto dicendo. […] Certo non mi ritrovo in giudizi del tipo: Michele Mari è proprio bravo, si vede che mette un’attenzione certosina nella scelta delle parole. Mi fa anche un po’ arrabbiare perché a me la parola esce così, come un sospiro, e può essere la parola più rara del mondo ma non l’ho scelta, è lei che è arrivata nel pensiero insieme alla cosa» (in: Scuola di demoni. Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti, a cura di Carlo Mazza Galanti, minimum fax 2019).

«Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. Scrivi la frase più sincera che sai»: è un prelievo da Festa mobile di Ernest Hemingway; insieme alla metafora dell’iceberg, forse una delle sue citazioni più gettonate quando si parla di scrittura creativa, per la forza dell’idea che sembra suggerire: quella di una scrittura senza pose e senza filtri, una scrittura per l’appunto sincera. Sorta di «poetica della naïveté» scambiata per naïveté poetica – però messa a buon frutto. È anche un esempio di quanto sia rischioso pigliare frasi a sentimento dai romanzi decontestualizzandole, visto che Festa mobile è – programmaticamente – un testo di autofiction ante litteram, dove si crea fin dall’esergo un rapporto agonistico fra piano della «fantasia» e piano della «realtà».

Infatti: «Tutti dicono che Hemingway aveva un grande orecchio per il dialogo ed è vero. Ma nella vita reale la gente non parlava come nei racconti di Hemingway. Almeno, fino a quando non ha letto Hemingway!». A dirlo è Raymond Carver (in: «Compressione e controllo: Carver, la poesia e il racconto. Intervista a Raymond Carver» di L. McCaffery e S. Gregory, in R. Carver, Tutte le poesie, a cura di W. L. Stull, minimum fax 2021) ed è abbastanza ovvio che qui sta parlando di Hemingway tanto quanto sta parlando di sé, della propria scrittura.

Quando v’invitano a diffidare degli autori iperletterari o «troppo intelligenti» perché questa consapevolezza, questa intelligenza, sarebbero fattori che ostacolano una buona e sana prosa narrativa; quando sentite magnificare la forza di una scrittura un po’ grezza, un po’ coatta e fieramente ignorante, una scrittura che vorrebbe essere sorgiva e naturale – autentica –, diffidate a vostra volta. Spesso sono scritture che escono da un labor limae forsennato. O, se spontaneità davvero c’è, questa può riguardare al massimo le prime prove, quando si è artisticamente implumi e, com’è giusto, piuttosto inconsapevoli. Ma poi si continua a scrivere, e a scrivere, e a scrivere: e scrivendo la consapevolezza – piaccia o non piaccia – a un certo punto arriva, quand’anche fosse solo un prendere atto che la verginità delle prime volte è ormai perduta. Tocca allora rimboccarsi le maniche, lasciar da canto le pretese di scrivere con il cuore in mano, ricordarsi che ormai da decenni l’autenticità è diventata un mito adoperato per vendere merce – dunque compromesso con il mainstream in tutte le vie possibili –, e trovare il nostro personale e unico modo di dominare la forma.

Con ciò non si negano i momenti di grazia, le sessioni di lavoro in cui par che la scrittura venga fuori da sola e quasi a nostra insaputa, ma è più facile che sia la grazia di un corpo ben allenato (dalla tecnica, dalla retorica), la leggerezza di piuma del ballerino con le dita dei piedi fracassate dagli addestramenti.

Tutti cominciamo a scrivere calcando le orme di qualcun altro. Di più: tutti cominciamo a scrivere perché innamorati, mossi da un istinto passionale e possessivo verso i testi che abbiamo amati, e li abbiamo amati al punto da volercene appropriare attraverso l’impresa del loro rifacimento. C’è una pulsione erotica alla base dello scrivere – nessuno mi distoglierà mai dal pensarlo. Il che spiega perché diversi narratori e poeti affianchino allo scrivere un’attività di traduzione portata avanti anche solo per proprio conto: è un tentativo di prossimità, il palpare con le mani il corpo del testo a occhi chiusi (chiusi perché non potremo mai accedere compiutamente all’intenzione di chi lo ha scritto) per sentire e sapere com’è fatto. Nell’etimologia di sapere – latino: «sapĕre» – c’è un riferimento molto carnale al percepire sapore e odore: l’uomo saggio, l’uomo dotato di cognizione, il connoisseur, è colui che ha buon naso e gusto fino.

Accade ora che, obbedendo al richiamo esercitato da una forma altrui (una particolare andatura, un certo procedere per immagini, un’ingegnosa soluzione di montaggio…), nel mentre tentiamo di appropriarcene e di rifarla, piegandola alle necessità dei nostri contenuti, provochiamo in essa una trasformazione che – se abbiamo lavorato bene – ci conduce assai lontano dalla sorgente di partenza: che a quel punto diventa irriconoscibile, perfino – a distanza di un po’ di tempo – da noi stessi che l’abbiamo adoperata. Siamo partiti imitando e ci ritroviamo a destinazione con un lavoro che è distintamente nostro: originale.

Questo non è più imitare, ma fare nostro in modo perfetto e compiuto. In altre parole, rubare: «I poeti immaturi imitano; i maturi rubano; i cattivi poeti svisano ciò che prendono e i buoni lo trasformano in qualcosa di migliore o almeno di diverso. Il buon poeta salda il suo furto in un complesso di sensi che è unico, interamente diverso da ciò da cui fu avulso; il cattivo lo getta in qualcosa che non ha coesione. Un buon poeta prenderà di solito a prestito da autori remoti nel tempo, o alieni di lingua o diversi d’interesse» (T.S. Eliot, Il bosco sacro, Bompiani 2010).

Un consiglio: se quando scrivete avete l’abitudine di appoggiarvi molto a ciò che leggete, se sentite l’esigenza di sintonizzarvi con le voci altrui per far sì che la vostra vi parli abbastanza forte da permettervi di partire, fatelo senza problemi: è uno dei modi migliori di creare, forse il più naturale. Però, una volta arrivati alla fine della prima stesura, impegnatevi a tenere fermo il testo per un po’ – qualche settimana, qualche mese – prima di buttarvi a capofitto nella revisione. Solo prendendo la necessaria distanza dallo scritto – dimenticandovene – riuscirete a intervenire con mano ferma su quanto prodotto per liberarlo dalle influenze più evidenti delle voci altrui: vi sono servite da guida e senza di loro forse non sareste andati da nessuna parte, ma ora è giunto il momento di camminare da soli. E magari – sperabilmente – di fungere da guida a vostra volta per le scritture altrui.

Se l’imitazione è la prima forma di erotismo inventivo, c’è una voce da non imitare mai ma proprio mai: ed è la nostra. Quando tiriamo per così dire i remi in barca ripiegando nella ripetitività familiare e stanca, nell’automatismo del ben fatto.

Scrive Cesare Pavese nel Mestiere di vivere (8 novembre 1938): «Non si può conoscere il proprio stile, e usarlo. Si usa sempre uno stile preesistente, ma in un modo istintivo che ne plasma un altro attuale. Lo stile presente si conosce solo quando è passato e definitivo e si torna a scorrerlo interpretandolo, cioè chiarendosi come è fatto. Ciò che stiamo scrivendo è sempre cieco. Se ci viene bene (se cioè dopo, ritornandoci, lo stimeremo riuscito) non possiamo per il momento sapere. Semplicemente lo viviamo e va da sé che le astuzie, gli accorgimenti che vi spendiamo, sono un altro stile composto in precedenza, estraneo alla sostanza di quello attuale. Scrivere è consumare i cattivi stili adoperandoli. […] Dunque non c’è tecnica? C’è, ma il nuovo frutto che conta è sempre un passo avanti sulla tecnica che conoscevamo e la sua polpa è quella che ci nasce via via sotto la penna a nostra insaputa».

La voce non è un’espressione statica: non può, perché siamo noi – esseri umani prima ancora che scrittori – a non vivere staticamente. A ogni nuovo progetto narrativo siamo costretti ad accollarci una certa quantità di rischio: non potremo mai essere sicuri che riuscirà, e poco conta se ci sentiamo corazzati da anni e anni di esperienza, e da una tecnica ormai consolidata. Se non accettiamo di rischiare, di prescindere almeno un po’ da questa tecnica che adoperiamo ora come baluardo, ora come sedativo, nella peggiore delle ipotesi ci aspetta il fallimento; nella migliore la maniera.

La voce non funziona? In verità, e soprattutto se non siamo più alle prime armi, è forse più una specie di noia quella che ci prende di fronte alla pagina, una sorta di stanchezza che rende il nostro procedere faticoso se non impossibile. Tutto ci sembra già visto, già tentato, già detto – ormai usurato. Pavese dice: non lo sembra, è. Fa parte del gioco artistico. È il renderci noto del nostro stesso mistero che ci impone di crearne uno nuovo, di inventare una forma diversa.

La forma non è la semplice bella copia di un pensiero che vogliamo porgere al lettore, la forma è essa stessa pensiero, in un inverarsi a noi misterioso. Come la farfalla, essa ha vita breve. Il suo è un equilibrio precario e difficilissimo a realizzarsi: suggere dai fiori del presente per creare un futuro che, nell’istante stesso in cui viene immaginato, deperisce. Sta in questo continuo obbligo alla reinvenzione la grande fatica – e la grande bellezza – per chi scrive e continua a farlo.

Nel suo ormai autorevole saggio Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet 2011) il critico Daniele Giglioli evidenzia come la narrativa degli ultimi vent’anni si sia spesso costruita intorno al paradigma vittimario: «Io sono ciò che ho subito. E se non ho subito non sono nulla». Per queste narrazioni Giglioli adopera, evidenziandola già nel sottotitolo, l’etichetta di «scrittura dell’estremo»: una narrativa che, pur non riducendosi «a un repertorio tematico» o a «soluzioni stilistiche di oltranza espressiva», proprio in questi temi e in questi stili deputati all’oltraggio in fondo si sostanzia: «La sua predilezione per la violenza, per il sangue, per la morte […] Per il complotto, per il tradimento, per il segreto, per la paranoia».

Con una differenza rispetto alla ricerca del brutto e del grottesco che avevano contrassegnato il realismo ottocentesco di Courbet e Flaubert prima e il modernismo e le avanguardie poi: oggi «il segno aspira allo stesso statuto della cosa» e il disgustoso, il deviante, il folle, l’abbietto, pretendono di essere non più semplici oggetti di rappresentazione, ma agenti capaci di provocare «la stessa reazione che scaturirebbe dalla cosa rappresentata» perché «la crudeltà è garanzia di autenticità».

Eccoci di nuovo all’autenticità e alle sue seduzioni (ne abbiamo già parlato al punto 2). Nella cassetta degli attrezzi di una scrittura che è sempre più potentemente ripiegata sull’io, il racconto del trauma, e dunque la scrittura «dell’estremo» o «disturbante», sembrano essere diventati una scelta spesso quasi obbligata. L’«essere fuori scena» dell’oscenità in quanto immonda è stato annullato perché i codici espressivi di questa prosa estremizzata ed estremizzante possono (e ripeto: possono) essere ricompresi in un’architettura del senso che li rende in qualche misura consolatori; se vogliono insomma essere garanzia di autenticità, lo sono all’interno di un palinsesto in cui l’autenticità ci viene implicitamente prescritta poiché vendibile.

In sintesi: se le nostre scelte stilistiche abbracciano la scelta estremista assecondando un’urgenza che proviene dal nostro immaginario, facile che la voce ne esca solida, compatta e non gratuita. Ma se i codici «disturbanti» li adoperiamo passivamente, senza alcuna reinvenzione, e solo in virtù di una loro presunta qualità sovversiva – perché ci sembra che si distanzino dal mainstream, che ci diano una patina di letterarietà, un feeling con la nicchia – rischiamo di non dire nulla che in fondo già non si sappia, e di non mostrare nulla che in fondo non sia stato già visto. E di essere del tutto innocui.

Il bacino della nostra immaginazione non è infinito. Sono infinite le forme con cui possiamo sperimentare perché non c’è potenzialmente limite alla combinazione delle scelte stilistiche, ma il nostro immaginario, essendo una personale selezione del mondo combinata con un personale punto di vista sul mondo, si muove entro recinti limitati. Parafrasando il buon Manzoni: lo sguardo, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare.

Prendiamo Walter Siti: dato il suo indiscusso talento si sarebbe portati ad attribuirgli la capacità di scrivere veramente di tutto; scrittore, oltre che studioso e critico, non padroneggia forse egli la tecnica al massimo grado? Eppure Siti non ha problemi a confessare la sua incapacità, in quanto omosessuale, a creare personaggi femminili forti e credibili: «I personaggi di donne che funzionano nella mia scrittura sono sempre vecchie o menomate da una malattia, comunque devono essere infelici e irrisolte. Una donna nel pieno esercizio della sua femminilità è evidentemente per me un mondo inarrivabile, e non lo posso raccontare. La sento molto come una deprivazione, anche in termini creativi: essendo un romanziere, uno che ha bisogno di mettere le mani in pasta nella società, il fatto di escludere quasi metà della popolazione mondiale è un grosso limite. Penso di non avere il diritto di parlare delle donne, le conosco troppo poco» (nel già citato: Scuola di demoni).

A un certo punto dobbiamo arrenderci all’evidenza: continuiamo a scrivere, nel farlo la nostra tecnica si irrobustisce, la lingua si affina, monta la nostra ambizione di poter raccontare qualunque cosa, eppure ci rendiamo conto di fallire perché, per quanto ci sforziamo, sentiamo di essere credibili soltanto dietro a certe maschere. Le altre risaltano sulla pagina nel loro essere personalità d’accatto, finzioni così poco finte – giacché scontano le debolezze di una immaginazione di seconda mano – da non riuscire a sembrare vere. Se la scrittura è specchio rivelatore, la sua veridicità (e perciò terribilità) sta proprio in questo: nel suo farci vedere riflessi non in ciò che immaginiamo, ma in ciò che non riusciremo mai a immaginare. Scrivendo ci definiamo per sottrazione e per esclusione, nell’incapacità di trovare nella nostra mente, nella nostra vita, nel nostro essere, la materia adatta a comporre davvero ogni tipo di storia – e dobbiamo accettarlo.

Ogni epoca storica ha i suoi generi, i suoi temi, le sue scelte stilistiche e anche i suoi personaggi prediletti: pensiamo solo alla frequenza con cui compare la prostituta o la donna del demi-monde nel romanzo dell’Ottocento, o l’inetto in quello del primo Novecento. Riconoscere e prendere atto della tendenza che va per la maggiore – esserne consapevoli – è però ben diverso dall’assoggettarvisi supinamente.

Attenzione: intendo questo assoggettamento in senso biunivoco, sia come adozione che come respingimento a prescindere.

È un dato di fatto che oggi, nella narrativa letteraria, quella titolata ad accedere ai premi più blasonati, tendano a imporsi narrazioni di cose vere raccontate da una prima persona con funzione autenticante. Un io testimoniale: è accaduto perché mi è accaduto, è vero (di nuovo: autentico) perché io vi ho assistito. Questo ha dato la stura, si dice, a un’invasione di memoir, autofinzioni e narrazioni non di rado vittimistiche incentrate sul trauma (ne abbiamo parlato), o in alternativa di biofiction (biografie finzionali) in cui l’autore parla d’altro per parlare di sé (ma non è sempre stato così? «Lettore, sono io stesso la materia del mio libro» scriveva Michel de Montaigne nella premessa ai suoi Saggi).

Questa coazione all’io e alla realtà che si traduce in un piccolo trend editoriale (sì: piccolo; perché le centinaia di migliaia di copie circolano in zona saghe familiari, romantasy e giallo/noir/thriller pigliatutto) va presa da chi scrive per quello che è: un’opzione fra le molte disponibili. Eventualmente, una delle tante regole che il gusto contemporaneo impone, e che c’impone di sfidarla.

Scrivere di sé vedendosi automaticamente destinati al successo poiché sotto la tutela di un ipotetico mainstream è illusorio. Impedirsi di farlo perché da questa ipotetica tutela ci si sente artisticamente dimidiati in quanto «scrittori alla moda», be’, è autolesionistico. In entrambi i casi a risentirne sarà la voce che sembrerà fatalmente quella di un altro; in una delle nostre imitazioni peggiori, per giunta, perché motivate non da desiderio, ma da semplice calcolo.

Rifiutarsi di essere succubi del contemporaneo non significa legittimarsi a esserne inconsapevoli.

Viviamo nel 2025 (ormai agli sgoccioli): possiamo anche collocarci spiritualmente nella celletta di un monastero benedettino nel Basso Medioevo (dove probabilmente si sentiva Umberto Eco), ma il tempo in cui la nostra scrittura si forma e agisce è quello presente.

Prendiamo a esempio la descrizione. Le lunghissime, ricchissime e sensuose descrizioni di Balzac – magistrale quella di Madame Vauquer e della sua pensione in apertura a Papà Goriot – sono un’autentica festa anche per il lettore contemporaneo, ma non va dimenticato che, quando sono state composte, si rivolgevano a lettori dotati di un bagaglio visuale assai più ristretto del nostro. Al lettore ottocentesco di romanzi gli ambienti, le città, gli oggetti, i personaggi bisognava tratteggiarli con precisione e senza avarizia di particolari affinché si materializzassero davanti ai suoi occhi attraverso l’immaginazione. In quanto a noi, guardiamoci: viviamo in un tempo che ha alle spalle duecent’anni di fotografia, centotrenta di cinema, un secolo di televisione e una trentina d’anni di internet: il nostro corredo di immagini è sterminato. Nominate nel vostro testo una qualunque realtà: facile che il vostro lettore vi sia già stato esposto; se non di persona, almeno attraverso una qualunque riproduzione visiva. E quand’anche non fosse, Google sta lì, a portata di mano (per tacer delle intelligenze artificiali). Significa che dobbiamo abbandonare le descrizioni lunghe e minuziose? Giammai: oggi tutto è possibilità e tutto è scelta, ma di quel che stiamo scegliendo – e del perché lo stiamo scegliendo, del significato implicito che la nostra scelta si trascina dietro che è anche un significato storicamente e culturalmente determinato – dobbiamo renderci consapevoli.

Le descrizioni che duecento anni fa avevano uno scopo anche funzionale – essere uno dei primi strumenti dell’illusione realistica – oggi, venuta meno o ridimensionatasi alquanto quella necessità, vengono subito intercettate dal lettore come scelta espressiva. Man mano che s’inoltra in quegli indugi descrittivi, il lettore capisce che non è tanto la realtà che l’autore intende mostrargli, ma un qualcosa che sta sotto, che sta oltre, al di là. Questo qualcosa allora deve esserci, l’autore deve averlo immaginato: alla descrizione non basta più essere esaustiva e ben fatta, deve anche essere pregnante perché è diventata, nel corso del Novecento, la porta d’accesso per fare dell’altro.

La nostra voce ci chiede di stare putacaso nell’Ottocento, perché è di quel tempo che il nostro immaginario prevalentemente si nutre? Benissimo, stiamoci. Ma non come l’ultimo giapponese che ancora si nasconde nella giungla, ignaro che l’Ottocento è finito. Stiamoci come lo scrittore che lo adopera come una coordinata per la creazione del suo mondo unico e distintivo: astorico ma non antistorico.

Se c’è qualcosa che avvilisce la voce tanto da farla ammutolire o suonare fastidiosamente sbagliata è la pretesa di imporle compiti che non le competono. Quando, cioè, le assegniamo l’incombenza di esprimere ciò che pensiamo anziché permetterle di mostrarci quello che ancora non sappiamo e che la scrittura narrativa dovrebbe farci scoprire.

Spesso – nelle interviste, nelle presentazioni – l’autore viene interpellato alla stregua di un esperto o di un opinionista perché gli viene chiesto di esprimere un pensiero informato ed esaustivo sul tema che ha esplorato nel romanzo. La verità è che, nel suo romanzo, l’autore ha semplicemente (ma non semplicisticamente) esplorato una sua propria immaginazione attraverso la lingua; l’ha esplorata in lungo e in largo, per mesi se non per anni, documentandosi, magari, fino allo sfinimento e alle soglie dell’umana resistenza, ma la sua è una competenza visionaria – ossia creatrice di visioni – e si limita programmaticamente a quell’immaginazione lì e a nient’altro. Senza dubbio quell’immaginazione ha finito per enucleare anche un tema: ma questo, più che un punto di partenza (quando il tema si dà come tale, è raro che sia un buon inizio), è quasi un effetto collaterale, se non una scoperta per l’autore stesso: l’espressione di un personale, determinato punto di vista sul mondo e sull’uomo. Se l’immaginazione che sostanzia l’opera riesce a darsi come rivelazione di una scintilla di verità, è proprio nel suo essere aristotelicamente universale in quanto particolare, ossia legata a quella sua peculiare e specifica forma.

Scrivere la storia di una madre e di una figlia, o di un demansionamento ingiustificato in ufficio, non significa farsi massimi esperti di genitorialità o di mobbing; si è esperti solo della propria visione, anzi, ci si rende esperti attraverso la propria visione e quando accade, per un autore – credetemi –, è già moltissimo. Io so di non sapere nulla più di quanto i miei stessi testi non dicano e di non saperlo dire meglio – o almeno diversamente – di come attraverso i miei testi l’ho detto. Se così non fosse, significherebbe che i miei testi hanno fallito, che quel che i miei testi fanno poteva essere fatto più efficacemente attraverso modi se non persino strumenti diversi: quando perdiamo nella forma, noi autori perdiamo su tutta la linea.

È qui che la voce rischia allora di sfasciarsi, e comunque non è neppure più un problema di voce, quanto piuttosto di necessità e di opportunità. Ha senso che questo mio testo esista? Ho aggiunto qualcosa, illuminato qualcosa, detto realmente qualcosa? Ne è valsa davvero la pena?

L’idea più deleteria quando ci accingiamo ad affrontare un nuovo progetto di scrittura è: o capolavoro, o niente. O la certezza di saper eguagliare i pesi massimi della Letteratura, oppure l’onestà di ridursi a silenzio perché provandoci, esponendoci, sfoderando l’ardire di imporre la nostra voce che certamente non potrà essere all’altezza, finiremo – così spesso la vulgata – per insozzare la fonte d’acqua ove si dissetano i Grandi Autori della mandria con pedigree certificato. Toglieremmo spazio, aria, luce, risorse, visibilità a chi veramente merita. Colpevoli di hybris, nuoceremmo alla Letteratura.

Nel suo saggio Il punto cieco (Guanda 2016) Javier Cercas ascrive i suoi romanzi a quel genere postmodernista che s’impernia su una indecidibilità: la domanda che regge il romanzo (chiamiamola «domanda drammaturgica principale» o «dispositivo drammatico») si presenta come irresolubile o identica alla risposta stessa – dunque come ricerca senza alcun esito che non sia l’atto del cercare in sé –, e il testo non è altro che la traduzione sensibile di questa impasse logica. Cercas porta come esempi e suoi precursori – pensate la tracotanza! – Don Chisciotte di Cervantes (capostipite del genere, o per esattezza della «svolta»), Moby-Dick di Melville e Il processo di Kafka: opere eterne e universali non perché impongono «un senso unico a uomini differenti», ma perché suggeriscono «sensi differenti a un uomo unico»: «È questo che, in gran parte grazie al loro punto cieco, [questi autori] hanno raggiunto i romanzi e i racconti di cui ho parlato; è questo che, con la massima umiltà (ma anche con la massima ambizione), aspirano a raggiungere i miei».

Secondo Cercas umiltà e ambizione non si escludono vicendevolmente; ma anzi guidano il viaggio camminando appaiate. Se l’umiltà ci deriva dal prendere coscienza della difficoltà della meta, l’ambizione ci impedisce di rattrappirci nella modestia.

Dunque fate parlare la vostra voce. Scrivete, fate quello che sapete fare: con onestà. Onestà significa sapersi dire: aspetta, non ancora, non funziona, aspettiamo. È prendersi del tempo ed esigere che anche gli altri te lo diano. Ma onestà è anche – una volta messo il punto alla fine – assumersi una responsabilità piena. Non ci vuole nulla ad accettare supinamente le lodi altrui, non si corre nessun rischio. Ma il riuscire a dirsi: sì, c’è, ci sono, questa è la mia voce, questa sono io e pur con tutte le mie manchevolezze –, è un pensiero che impone un rischio grande, e se si vuol scrivere questo rischio va corso senza farsi sconti.

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