Salvami

di Giulio Capone

[Giulio Capone ha frequentato il corso della Bottega di narrazione
Il perturbante, condotto da Giorgia Tribuiani.
Questo racconto è stato scritto nell’ambito di quel corso.
La prossima edizione del corso Il perturbante inizia il 26 gennaio 2022].

1.

La mia è una famiglia normale, banale, borghese, dove nulla può accadere che non sia già stato prestabilito, organizzato, meditato, soppesato.

Abitiamo in fondo alla strada del panificio, al numero 2, davanti alla grande casa rossa, quella in cui non vi abita più nessuno.

Mi hanno detto che sono tutti morti, per questo la casa rossa è vuota e sembra perennemente dormire; i suoi occhi di vetro sono chiusi e la sua bocca di legno sprangata. In realtà a me non importa poi molto, mi basta sapere che il suo giardino sia a mia disposizione per le passeggiate. In questo periodo dell’anno le due enormi betulle si spogliano e le mie scarpe affondano nel tappeto di piccole foglie gialle puntinate di marrone che sembrano lembi frastagliati di pelle velata, le cui venature scure risaltano come sangue rappreso.

Adoro l’autunno.

È la stagione di Halloween – non che qui da noi lo si festeggi, ci si chiude in casa ai primi freddi che si fanno sentire, il vento torna a spazzare l’aria e si infila sotto le porte, tra le fessure delle finestre, nei camini, sotto le gonne, nei cappotti e poi, guardatevi attorno, tutto muore.

Amo guardare le foglie che cadono.

Quando le calpesto nel giardino della grande casa rossa sento il loro scricchiolio sotto le suole, ascolto il loro fruscio che scorre tra i miei piedi, annuso il loro odore. Che odore ha una foglia morta? Muffa. Sa di muffa. Muffa mista a legno. Muffa mista a legno e cuoio. Mi ci sono rotolato tante volte, per questo lo so.

Sono un collezionista.

Ho sentito parlare di collezioni assurde, un tale collezionava sacchetti per raccogliere il vomito delle compagnie aeree del mondo. Vuoti – spero. Un altro collezionava capelli che raccoglieva nella prima carrozza delle metropolitane delle città che visitava. Segni del passaggio dell’umanità in un unico punto – diceva. Lasciti senza identità di persone rinchiuse in una caliginosa ferrovia sotterranea – dico io –, tanto vale collezionare anonimi sassi.

Sassi, quelli sì che mi piacciono.

Raccontano storie antiche e sono coperti della polvere dei loro viaggi, più sono tondi e più hanno rotolato lasciando sottili parti di sé sui sassi che hanno incontrato. Si nascondono e fanno capolino solo quando sono pronti a narrare la loro vita. Io non colleziono sassi. Io colleziono oggetti gemelli. Sì, intendo quelle cose che nascono vicine, assieme, a pochi secondi l’una dall’altra e che, per uno scherzo dell’uomo o della natura, sembrano vivere in simbiosi. Per tutta la vita, finché morte non le separi.

Non è facile trovare dei pezzi da aggiungere alla mia collezione. Tempo fa ho trovato due libri con la copertina in similpelle, stesso titolo, stesso autore, che si erano incollati tra di loro. Il destino li aveva resi gemelli. Li ho comprati immediatamente e li ho aggiunti agli altri.

Ho anche due foglie gemelle, le ho trovate nel giardino della grande casa rossa. Se ne stavano nascoste sotto le altre, in un mucchio raccolto nell’angolo in fondo tra il garage e il muro. È noto che le foglie non amano farsi raccogliere. Solo i bambini possono farlo, per essere attaccate a qualche pagina di quaderno. Alle foglie devi dedicare poesie e lasciarle andare.

Scrivo haiku.

In tre versi, poche sillabe, condenso quello che ho da dire. Perché scrivere lunghe poesie se nessuno le ricorda? Bastano poche parole e lasciare che il lettore continui a fantasticare.

Raccolgo oggetti identici perché la collezione la condivido con mio fratello. Lui e io siamo gemelli. Lo chiamo Idem.

Amo mio fratello.

Per questo ogni volta che trovo oggetti gemelli li prendo, a lui do il primo che ho trovato, io tengo il secondo. Nel caso delle foglie, però, non sapevo quale fosse la prima e quale la seconda. Ho dovuto inventare una scusa. A dire il vero lui non può rendersene conto, la sua mente è un guazzabuglio di pensieri, folle – è il termine che usa la gente –, sopra le righe – dico io. Essere folli, a volte è una fortuna.

Mia madre odia mio fratello.

Lei non vuole nemmeno che io lo nomini, ci fu una volta in cui le dissi della mia intenzione di portare Idem fuori con me, avrei voluto fargli provare le sensazioni che provano tutti quando si sta all’aria aperta. Lei ha urlato, si è disperata e ha pianto per oltre mezzora. Lo odia, lo rinnega. Preferisce passare le sue giornate noiose, grette, insulse a pulire casa, preparare il pranzo, la cena, e aspettare che mio padre rientri dal lavoro. Ma mio padre non la ama.

Mio padre non ama nessuno.

Rientro a casa, la mia passeggiata mi ha tenuto fuori a sufficienza.

Saluto mia madre e salgo i gradini pari di legno scuro, ricoperti in parte da moquette verde, che portano alla mia stanza. Quelli dispari li sale Idem.

Ci vuole sempre un po’ per ambientare gli occhi dalla luce che c’è fuori al buio che impera dentro la mia casa. I colori marrone e verde scuro la fanno da padrone, solo le pareti sono chiare, bianco sporco. Le luci che pendono dal soffitto sono fioche, per risparmiare elettricità mio padre ci obbliga alla cecità.

Tutto è molto piccolo, gli spazi sono stretti, soffocanti, privi di aria pulita. Per farla apparire più grande, in ogni singola stanza mia madre ha voluto inserire il proprio tocco e potete trovarvi, uno specchio, un vaso di fiori sempiterni in plastica, un quadro che ritrae scorci naturali.

Eccoti – dico a Idem. Mi aspetta sempre in camera quando arrivo.

Non ho trovato nulla fuori, è stata una passeggiata infruttuosa. Lui mi guarda negli occhi e fa spallucce.

Senti – continuo io – non puoi stare sempre qui, rinchiuso. Usciamo.

Come l’ultima volta? È tutto cambiato ora, lo sai.

Lo guardo in piedi di fronte a me, il volto rabbuiato, smarrito, scavato, gli occhi che mi fissano tristi, fissi, vuoti.

Lo so, – dico in tutta risposta – ma io e te siamo un tutt’uno.

E mi porti a mangiare il gelato, vero?

Certo, anche il gelato.

Lo zucchero elimina ogni assenza, angoscia, tristezza e Idem ne è ghiotto.

E poi cosa facciamo?

Non lo so, Idem, solo che non devi fare come l’ultima volta che sparisci appena siamo fuori.

E starò sempre con te?

Hai capito cosa ti ho detto? Non sparisci come l’ultima volta, vero? Di cosa hai paura?

E starò sempre con te?

Sì sì, sempre con me. Ma ora dimmi, di cosa hai paura?

Non so.

Sei con me, non devi temere nulla.

Non so.

Cosa non sai?

Non voglio che sia come l’ultima volta. Siamo stati lontani per giorni.

Come dimenticare? Era una giornata raggiante, il cielo terso di un azzurro intenso sembrava colorato con tratti marcati di pastello a olio. La primavera, come uno tsunami, aveva inondato tutto di colori, giallo, verde, rosso, arancione, viola, bianco. Dalla finestra aperta la leggera brezza prorompeva con la sua freschezza, le sue fragranze. I raggi del Sole sublimavano in calore diffuso e avvolgevano come lunghi tentacoli ogni forma animata e inanimata, conquistando zone all’ombra che, invece, conservava ancora il freddo della notte.

Dalla camera, abbiamo sceso le scale, lo vedevo con la coda dell’occhio a fianco a me e camminavamo con passo leggero per non farci sentire. Avevamo pianificato la nostra uscita per lungo tempo, tutto nei minimi particolari, anche il luogo di incontro nel caso ci fossimo persi; nel giardino della casa rossa. Sarebbe stato semplice, avrei aperto la porta di casa e Idem avrebbe dovuto seguirmi.

Lo avevo vicino a me, sentivo il respiro agitato e il battito del cuore accelerato, come il suono attutito di un pendolo impazzito. Le mani sudate sono scivolate sulla maniglia, facendo scattare repentinamente la serratura con uno schiocco. Per un attimo siamo rimasti in silenzio, i cuori si sono fermati, le orecchie tese a udire ogni minimo fruscio. Silenzio. La porta era ormai aperta, la lama di luce che vi filtrava tagliava in due il mio corpo, non restava che saltare fuori e fuggire. Così ho fatto, ho spalancato la porta e con un balzo ero fuori. Due passi. Fermo. Due passi ancora, mi sono voltato a guardare Idem. Non era più lì.

Vorticosamente mi sono guardato attorno per cercarlo, non c’era. Mi sono lanciato nel nostro squallido, povero e vuoto giardino, l’ho chiamato ad alta voce. Non mi importava più se avessero scoperto la nostra fuga, avrei dovuto trovare Idem, da solo non sarebbe sopravvissuto all’esterno.

Quella che mi sembrava una giornata perfetta si era trasformata in un incubo. Non vedevo più i colori della primavera, il bello era svanito, sfumature di grigio e profonde insenature nere ammantavano tutto ciò che mi circondava fino negli anfratti più profondi. Il gelo era sceso ovunque, sudore denso, vischioso, amaro, colava dalla mia fronte. Gli insetti, schegge impazzite per l’esplosione di colori e profumi primaverili, ora mi colpivano gli occhi, non riuscivo a vedere più nulla, mentre continuavo a correre e cercare Idem.

Lui non c’era, era scomparso nel nulla. Sentivo le urla di mia madre, il suo pianto isterico, il tonfo delle sue ginocchia sulle mattonelle in cotto che circondano la mia casa.

Sono andato al luogo di incontro, quello scelto nel caso ci fossimo persi. Il giardino della casa rossa ora era infinito, il suo perimetro si era allargato a dismisura, mi sentivo come uno scarafaggio in mezzo all’erba, una macchiolina nera che correva nell’orrore di non capire dove fosse, mi avvicinavo e gli occhi di vetro della casa mi guardavano. Ho urlato chiedendole se avesse visto Idem, ma la bocca di legno restava sprangata. Ho raccolto un sasso, le ho accecato un occhio mandandolo in frantumi. Le sono corso tutto attorno furioso, impaurito, senza fiato fino a cadere steso a terra, stremato e proprio lì dove mi trovavo, ho visto la finestra semiaperta della cantina. Idem doveva essere entrato lì. L’ho spalancata urlando il suo nome, ma lui non mi ha risposto.

Quando mi sono ripreso ero nel mio letto. Mia madre aveva messo a lutto l’intera casa, drappi neri, stoffe pesanti e scure, pendevano ovunque. La mia casa, così, sembrava ancora più piccola.

Era chiaro cosa fosse accaduto e ho sentito su me tutto il peso del mio gesto, di ciò che io avevo voluto. Sentivo come se mi avessero gettato in una cava mentre massi pesanti tonnellate, a uno a uno, gocciavano su di me e, inesorabili, mi ricoprivano, schiacciavano, annullavano.

Le ho chiesto cosa fosse successo e dove fosse Idem e, temendo la sua risposta, non l’ho ascoltata veramente.

Idem non c’era più e avrei dovuto farmene una ragione, come un mantra mia madre me lo ripeteva quasi fino a coprire le sue stesse parole ed essere l’eco di sé stessa. E mi ha fatto giurare che, per il mio bene, non avrei più pensato a lui.

Hai ragione, – continuo a parlare con Idem – non deve essere come l’ultima volta.

La mia è come tutte le camere degli studenti, libri disposti in verticale sulla scrivania tenuti fermi da due reggilibri in metallo azzurro, due mozziconi di matite colorate utili a sottolineare, due palloni da basket sgonfi e dai colori sbiaditi, due mensole dove ripongo i pezzi della mia collezione, al muro qualche foto, un armadio coi miei vestiti, una cassettiera, un quadro la cui immagine dà sul giallo ocra, un vaso di fiori di plastica, due sedie che uso a mo’ di servo muto, due vecchi specchi con la cornice dorata.

2.

Le giornate sono più corte ora, fuori è buio e le luci gialle e vaporose dei lampioni disegnano coni nell’umidità del tardo pomeriggio, come gigantesche torce che, dall’alto, rischiarano i passi di coloro che si avventurano sotto di loro.

Ceniamo alla solita ora, ho il tempo per accendere il caminetto e chiacchierare con mia madre prima del rientro di mio padre.

Cosa vuoi che ti porti stasera? – chiedo a Idem

Non ho fame – mi risponde assorto nei suoi pensieri. Sono mesi che non mangia con noi.

Spero solo non ci sia brodo, è sempre difficile non farne cadere una parte – gli sorrido e raggiungo mia madre in cucina.

La nostra cucina è una stanza quadrata, il mobilio è vecchio, scheggiato in molti punti, usurato e gli stipi puzzano di stantio. Alle pareti sono appesi dei vecchi mestoli in alluminio, dei piatti del servizio di mia nonna, due calendari che ho comprato io. Nella parete opposta alla porta, una finestra lunga e stretta dà sul giardino, col buio che c’è all’esterno vedo riflessa mia madre, seduta vicino al tavolo, con la testa tra le mani.

Mamma – le dico.

Pietro, sei qui? – mi risponde alzando la testa

Sì – inizio a preparare la tavola.

Per stasera ho fatto la zuppa di lenticchie. Fa bene con questo freddo.

Buonissima – le parlo mentre allineo le posate accanto ai piatti e sistemo i due bicchieri per ognuno di noi. Ne porto una porzione anche a Idem – aggiungo.

Mia madre mi guarda, i suoi occhi sono velati da lacrime.

Perché piangi? – le chiedo.

Non piango più – si asciuga con le mani, ha la voce strozzata, continua a guardarmi.

Lo sai perché piange – mi volto di scatto e guardo Idem, è davanti alla porta.

Sai che non vogliono vederti qui, Idem – gli dico allarmato, guardo mia madre, poi Idem, poi ancora mia madre.

Ero stufo di starmene da solo – dice Idem.

Lo guardo, sono arrabbiato con lui, gli avevo detto di restare in camera. Sento il respiro di mia madre, le mie tempie che pulsano, vedo Idem che sta ritto davanti a me sorridermi come non aveva mai fatto.

Lo sai perché piange – mi ripete Idem, ha la bocca storta in una smorfia.

Per questo non dovevi venire qui – la mia mano destra si serra in un pugno stretto.

Inspiro profondamente.

Mamma, può restare? – la guardo e aspetto la sua reazione, le mie mani sono sudate, le mie gambe mi reggono appena.

Come vuoi – la risposta di mia madre con le mani che continuano ad asciugarsi le lacrime, mentre guarda il suo riflesso alla finestra, ma non quello di Idem.

Continuo ad apparecchiare la tavola, il profumo della zuppa di lenticchie ci avvolge e ci scalda.

Pochi attimi dopo sentiamo la porta di casa che si apre, mio padre è rientrato. Guardo mia madre, lei guarda me, si volta verso l’ingresso, sistema i capelli e si prepara ad accoglierlo sulla porta della cucina.

Ciao, bentornato.

Ciao – risponde laconico – come sei stata oggi?

Posa la valigetta portadocumenti di pelle consunta, sbilenca, sempre aperta. Si sfila il giaccone e si avvicina a mia madre. Ho dimenticato di accendere il fuoco, ora il caminetto è un buco nero, enorme, spaventoso, pronto a risucchiare ogni cosa che si avvicini.

Sono stata bene, ho fatto molte cose e per stasera ho fatto le lenticchie che ti piacciono tanto – quando mia madre è agitata parla tanto, è ancora sulla porta della cucina, per bloccarne l’accesso.

Mio padre la scosta di lato con delicata freddezza. Entra nella stanza e posa lo sguardo sulla tavola apparecchiata.

Quattro? – chiede lui.

Pensava volessimo cenare assieme – risponde mia madre e abbassa lo sguardo.

Solo a quel punto mio padre mi guarda.

La stanza si chiude attorno a me, gli angoli diventano via via più acuti, soffoco, i miei occhi sono sott’acqua, non vedo quasi nulla, mio padre vomita urla nei confronti di mia madre, verso di me. Scappo, faccio qualche passo e cado. Il vento si è infilato nel camino e urla anche lui, soffia sulla la cenere che mi finisce in faccia, un ululato grottesco, profondo, infinito penetra nel mio cervello, negli anfratti più reconditi.

Sento ovattate le urla di mia madre, gli schiaffi che si dà sul viso, il frastuono di un piatto che si frantuma in centinaia di schegge, mi rialzo, mi volto indietro, il buco nero del camino si è allargato, sta ingoiando inesorabile, vorace, insaziabile mio padre e mia madre e le schegge del piatto rotto e la zuppa di lenticchie. Tutto viene inglobato nell’oscurità e io riesco a correre e arrivare alle scale, in camera.

Idem mi sta aspettando.

Raccolgo le mie cose che infilo nei miei due zaini. Due maglie, due pantaloni, due berretti di lana.

Andiamo via – dico a Idem – corro, spalanco la porta e sono fuori.

Il freddo delle sere d’autunno è sempre accompagnato dal vento, i rami delle due betulle spoglie della grande casa rossa oscillano davanti a me. Lunghe dita affusolate, nodose, scheletriche, con movimenti ondosi, scricchiolii e schiocchi mi chiamano e indicano di avvicinarmi. Le foglie mi accompagnano con balli turbinosi, valzer i cui danzatori si sfiorano appena, i lampi di un temporale che si avvicina immortalano questi momenti come flash di enormi macchine fotografiche.

Arrivo alla grande casa rossa che mi osserva con l’unico occhio che le è rimasto, la finestra della cantina è ancora aperta; è spalancata come una bocca nera, infernale, pronta a ingoiare il proprio pasto.

Dentro – dico a Idem. In pochi secondi mi richiudo la finestra alle spalle.

È buio. Tremendamente buio. Sono nello stomaco della grande casa rossa, mi sta digerendo, sento l’odore di marcio addosso.

Idem, dove sei? – lo chiamo.

Mi muovo a tastoni, di tanto in tanto la luce di un lampo entra dalla finestra e rischiara per una frazione di secondo il luogo in cui mi trovo. Mobili vecchi sono accatastati a riempire quasi tutta la stanza, l’odore di legno ammuffito misto a carne putrefatta è nauseabondo. Lampo, un attimo di luce.

Alla mia sinistra un armadio con due gambe rotte si inginocchia verso me, alla mia destra una credenza apre il suo petto e mostra le sue interiora di cristallo, al posto del cuore due ciotole ricolme di piccoli oggetti fragili, trasparenti, abbracciati l’un l’altro.

Lampo.

Davanti a me due sedie in pelle sfondate e, accanto, una vecchia, polverosa, traballante specchiera mi riflette la luce sul volto.

Cieco, infilo le mani nella credenza ed estraggo gli oggetti dal cuore a forma di ciotole. Le tocco. Due statuine sono attaccate per una mano, due alberi spogli, due casette, ancora due statuine poco più grandi delle prime.

Lampo.

Lo schianto di un tuono fa vibrare tutto, quel leggero movimento ridona la vita agli oggetti che ho posato sulla credenza, come piccoli mostri di Frankenstein. Le statuine si muovono, le due che si tengono per mano indietreggiano, le due più grandi si avvicinano alle prime, i due alberi fanno oscillare i propri rami.

Idem, dove sei? – lo chiamo ancora. Non sento la sua risposta, sono attento a che non cadano le statuine più piccole.

Uno, due, cinque, cento, mille topi corrono per la stanza. Il trapestio di centinaia di migliaia di zampine ricopre qualsiasi altro rumore. Tremo.

Ancora un lampo.

Mi guardo attorno, giro su me stesso per cercare Idem, più volte, prima lento, poi via via più veloce fino a perdere l’equilibrio. Mi appoggio al petto aperto della credenza e colpisco le statuine.

Lampo.

Guardo, inerme, le due che si tengono per mano cadere inesorabili nella voragine che le attende.

Il vento furioso, violento, impetuoso, sbatte ritmicamente la finestra alle mie spalle come una campana a morto.

La luce di un altro lampo mi lascia qualche attimo per vedere la macabra e triste scena ai miei piedi. Una delle due statuine è andata in frantumi, l’altra, distesa sopra, la sta piangendo.

Idem.

Idem dove sei? – ora urlo a squarciagola.

Sono qui. – sento la sua voce.

Alzo la testa, un altro lampo ancora mi dona ancora un po’ di chiarore. Vedo Idem davanti a me, accanto alle sedie in pelle sfondate. Di nuovo buio.

Scusami, non volevo. – abbasso gli occhi e mi avvicino a lui a piccoli passi.

Lo hai fatto apposta. – mi dice lui.

Sai che non è così.

Io lo so.

Ho sempre cercato di starti vicino – scoppio a piangere.

Allora perché mi hai fatto cadere e rompere in mille pezzi?

Ho cercato di salvarti.

Ci hai spinti nella voragine.

È stato un incidente.

Avresti potuto prendermi.

Non ce l’ho fatta.

Perché non sei finito tu in mille pezzi?

Perché io ero l’altro.

L’altro chi?

L’altro.

La voce di Idem si fa incalzante, accusatoria, affettata.

Sei sempre stato l’altro. In tutto.

Siamo sempre stati un tutt’uno.

Chi sono io?

Sei Idem, mio fratello.

Mi avvicino al luogo dove il lampo mi ha permesso di vedere Idem.

Ho un nome, io.

Perché parli così?

Dimmi come mi chiamo.

Tremo, non avevo mai sentito Idem parlare a quel modo.

Perché fai così?

Dimmi come mi chiamo – urla.

Che importanza ha ora?

Dimmi come mi chiamo – urla ancora più forte.

Pietro.

Pietro sei tu.

Pietro sono io.

Un lampo illumina per l’ultima volta la cantina, vedo Idem a poche decine di centimetri da me con un ghigno che gli sfigura la faccia.

Attraverso la finestra il vento urla grida di dolore, suoni gutturali, cavernosi, che provengono dalle viscere della terra e nella terra tornano a infilarsi trascinando con sé le anime che riescono a strappare nel proprio peregrinare.

Idem è caduto nella voragine, Idem è morto, il vento trascinerà la sua anima nelle profondità del terreno.

Lancio un grido di paura, alzo il pugno stretto allo spasmo e colpisco Idem davanti a me.

Lo specchio si divide in miliardi di parti. Ansimo spasmodicamente, affamato di ossigeno, terrorizzato.

Devo uscire. Risalgo dalle viscere della grande casa rossa, rinasco, piango come un neonato, la pioggia mi bagna come liquido amniotico che mi pulisco dalla faccia.

Mia madre è davanti casa. Mi vede, mi chiama.

Pietro, Idem, entrate o vi ammalerete con questo tempo.

2 pensieri riguardo “Salvami

  1. “Abitiamo in fondo alla strada del panificio, al numero 2, davanti alla grande casa rossa, quella in cui non vi abita più nessuno.”
    Siete sicuri che quel “vi” sia giusto? Non è meglio eliminarlo e scrivere “quella in cui non abita più nessuno”?

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