Una lezione del 1996

di giuliomozzi

[Con questo pezzo cominciava il Corso di scrittura a puntate che pubblicai nella rivista in rete Nautilus nel lontanissimo 1996. Ero un principiante, siate clementi. Un’altra puntata del corso si può leggere qui. gm]

Questo corso non ha molte ambizioni. Se vi fa piacere scrivere o raccontare storie, se pensate che possa essere un’attività divertente, se credete di avere un minimo di predisposizione, se pensate che educare il vostro talento naturale possa esservi utile: allora state qui. Sennò cliccate quello che vi pare e cambiate pagina.
Questo corso non ha carattere professionale. Un talento naturale per raccontare storie ce l’ha chiunque. Il fatto è che quasi tutti, quando raccontiamo storie, lo facciamo d’istinto. Non siamo consapevoli di quello che facciamo mentre raccontiamo una storia. Spesso organizziamo le cose nel modo giusto, ma non sappiamo che stiamo organizzando le cose nel modo giusto. Avete mai raccontato una barzelletta? Se sì, sapete benissimo che la battuta che fa ridere dev’essere in fondo. La parola-chiave deve essere l’ultima. Non c’è rimedio. A costo di fare una frase contorta, non potete anticipare.

Il dottore: Nonnina, le avevo detto di non fare le scale…
Vecchietta: Fa presto a dire lei, sono due mesi che vado su per le grondaie.

Non posso dire: “sono due mesi che mi arrampico per le grondaie”, perché il verbo arrampicarsi anticiperebbe la battuta finale, depotenziandola. Queste, come si diceva, sono cose che tutti sanno istintivamente. Ma non tutti ne hanno consaspevolezza.
Quindi lo scopo di questo corso, per definizione interattivo, è di spingere le persone che scrivono o vogliono scrivere storie a diventare più consapevoli di quello che fanno quando scrivere storie. Tutto qui.

Inutile dire che per consapevolezza intendiamo: sia la conoscenza di un certo numero di cose (abilità), sia anche un atteggiamento; al limite uno stato d’animo. Molte persone ritengono che per scrivere occorra essere in uno stato d’animo eccitato. Ci si sente dire spesso: “Io scrivo quando sono triste, allegro, innamorato, piantato, preso nel gorgo della solitudine e dell’alcol ecc.”. Queste sono opinioni abbastanza false. Un buon lavoro di scrittura richiede tempo, applicazione, serenità o almeno lucidità. La consapevolezza non è uno stato alterato della coscienza: la consapevolezza è, se così si può dire, uno stato storico della coscienza. Un buon lavoro di scrittura è soprattutto un lavoro di riscrittura. Di solito le cose scritte “sull’onda dell’emozione” sono imprecise, sciatte e difficili da capire; oppure inutilmente barocche e fastidiose. E’ dell’emozione che dobbiamo parlare, senza dubbio: tuttavia siamo noi che dobbiamo parlare dell’emozione, e non l’emozione che deve parlare attraverso di noi. Facciamo uno schemino:

Urlo —————————————————————–Mania

L’emozione pura si esprime attraverso quello che possiamo chiamare l’urlo: comunque un’azione non verbale. Alla persona amata che torna da un lungo viaggio non facciamo tanti discorsi: gli (o le) saltiamo addosso. Difronte alla disgrazia si piange, si grida, si batte la testa sul muro. La felicità (dicono) fa dormire benissimo.
Dalla parte opposta della linea c’è la mania. La mania è la parola assolutamente controllata, senza nulla che sfugga. Ad esempio, le istruzioni per l’uso di Word 6.0 (con il quale è stato scritto questo testo) sono un libro maniacale di 973 pagine nel quale non c’è una sola parola o una sola virgola che non sia (secondo gli autori) funzionale allo scopo: descrivere il funzionamento di Word 6.0. Nessuna frase cordiale, nessun aiuto, nemmeno una battutina scherzosa.
La nostra linea quindi rappresenta la classica opposizione tra caldo e freddo. Ora non diremo che in medio stat virtus, ossia che la scrittura ideale è tiepida; diciamo invece che la scrittura è un continuo andivenire lungo questa linea: a tratti è bollente, a tratti freddissima (e nei cattivi romanzi per lunghi tratti è effettivamente tanto tiepida quanto insulsa).
Il caldo e il freddo, l’emozione e il controllo devono imparare a convivere e a diventare ciascuno una risorsa per l’altro. Ci sono testi freddissimi che emozionano molto (si dice ad esempio: “è agghiacciante”), così come ci sono testi molto caldi che (gli scrittori lo sanno) sono costruiti a tavolino più o meno come si costruisce una nave in bottiglia.
Questa era una specie di premessa o una presa di posizione (ma su questi argomenti si tornerà più che spesso); adesso cominciamo.

Si comincia dall’inizio, anzi dall’incipit

Si comincia dall’inizio, ovviamente. L’inizio di un racconto è forse la parte più importante del racconto stesso. Bisogna considerare le cose dal punto di vista di chi legge. Le prime frasi di un racconto (o di un romanzo) contengono una quantità di promesse; impostano un tono; rivelano le scelte linguistiche fondamentali. Sono quasi il DNA del racconto (o romanzo): in forma sintetica c’è tutto. Proviamo a leggere alcuni inizi (alcuni incipit, come tecnicamente si chiamano).

I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco, mi rigettasse. Io sono nato il 12 marzo 1919 ad Avignone, in Francia; ma sono italiano e di genitori italiani, padre piemontese e madre veneta, nata nella campagna fra Padova e Treviso, in luoghi assai belli, ella mi ha sempre detto, che io non conosco. Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i miei mali sono arrivati a un punto tale che non posso fare a meno di denunciarli. Scrivo, stando a casa mia, a Candia, nel Canavese, in provincia di Torino. Questa casa è fuori del paese, verso il piccolo lago di Candia; ma un poco spostata a sinistra, tra pese e lago, verso la collina; è una casa di campagna con un poco di orto, la sua loggia di mattoni rossi, il fienile e la stalla abbandonati, dove vivono in disordine alcune galline, due galli e una famiglia di conigli, quasi selvatici. Io non curo la terra né gli animali da cortile, perché sono un operaio di una fabbrica in città; di una fabbrica grande più della stessa città.
(Paolo Volponi, Memoriale)

Quante cose apprendiamo da questo incipit? Innanzitutto le coordinate spaziotemporali: sappiamo dove siamo e che siamo nel primo dopoguerra. Poi apprendiamo una quantità di cose materiali sul personaggio narratore: l’età, la condizione sociale piuttosto bassa (i genitori sono andati a lavorare in Francia), l’origine contadina, la prigionia o il lavoro forzato in Germania ecc. Ma apprendiamo anche, e fin dalle primissime parole, molte cose sul carattere del personaggio. L’espressione “i miei mali”, così indeterminata e onnicomprensiva, ci fa pensare subito a un personaggio mentalmente turbato. Così anche la dichiarazione: “io non curo la terra perché sono un operaio”, con il suo carattere di decisione eccessivamente radicale, di esagerata adesione al ruolo sociale di operaio, rafforza l’impressione. La frase: “una fabbrica grande più della stessa città” ci fa capire che il personaggio vive la fabbrica come luogo mitico e magico, e che quindi il suo senso di realtà fa acqua.
Si parla subito di rapporto con la terra. La terra materna (che a rigore materna non è, essendo lui nato ad Avignone) ha “quasi rigettato” il personaggio. D’altra parte la madre è nata in “luoghi assai belli”; la casa e il luogo sono descritti con una lingua materiale e amorosa. Qui sentiamo che c’è un contrasto, tanto più che questa terra bella e amata è il personaggio, nella frase sulla fabbrica, a rigettarla violentemente. Capiamo che questo sarà un contenuto importante della storia.
La lingua è apparentemente calma, con frasi ampie; è, si vede bene, non una lingua “parlata” ma una lingua volutamente alta e nobile benché molto semplice. Il personaggio narratore intende presentarsi meglio che può, e pertanto adotta questa lingua ineccepibile; con questa lingua si mette in una posizione di forza.
Infine, l’intenzione del testo. Apprendiamo che non stiamo per leggere una “storia” pura e semplice, ma una denuncia (notiamo, en passant, che la “denuncia” può essere considerata un genere letterario a parte). Quindi, in certo senso, non siamo esattamente noi i destinatari del testo: il vero destinatario (o i veri destinatari) è (sono) la persona (le persone) che ha (hanno) causato i “mali” del personaggio. Una pubblica denuncia non è pubblica se nessuno la legge; il compito che il personaggio ci assegna è di far diventare pubblica la denuncia con il solo atto di leggerla. Quindi troveremo non solo narrazione, ma anche argomentazione: il personaggio cercherà di tirarci dalla sua parte. Quindi, questo è importantissimo, noi dovremo cercare di leggere il testo anche con gli occhi dei nemici del personaggio: solo così potremo scoprire come veramente sono andate le cose.
Riassumendo: in questo incipit, non solo veniamo informati su alcuni dati materiali di partenza; non solo ci viene detto qualcosa di essenziale sul carattere del personaggio; non solo ci vengono presentati due temi fondamentali (terra madre/matrigna; campagna/fabbrica); ma anche veniamo istruiti su come dobbiamo leggere la storia. Questo è un incipit potentissimo (e Memoriale, tra parentesi, è uno dei romanzi più belli del secolo; è pubblicato nei Tascabili Einaudi).

Sul finire dell’estate di quell’anno eravamo in una casa in un villaggio che di là del fiume e della pianura guardava le montagne. Nel letto del fiume c’erano sassi e ciottoli, asciutti e bianchi sotto il sole, e l’acqua era limpida e guizzante e azzurra nei canali. Davanti alla casa passavano truppe e scendevano lungo la strada e la polvere che sollevavano copriva le foglie degli alberi. Anche i tronchi degli alberi erano polverosi e le foglie caddero presto quell’anno e si vedevano le truppe marciare lungo la strada e la polvere che si sollevava e le foglie che, mosse dal vento, cadevano e i soldati che marciavano e poi la strada nuda e bianca se non per le foglie.
(Hemingway, Addio alle armi)

Qui è tutto molto più indeterminato; non sappiamo ancora niente della vicenda, dell’esatta situazione eccetera. Tuttavia apprendiamo subito che, benché in prima persona, ci troviamo difronte a una storia “pura” (non una denuncia ecc.). Ma soprattutto veniamo immediatamente presi dal ritmo della prosa: pochissime virgole, molte “e”, un ritmo breve e veloce. Capiamo subito che il senso principale del personaggio narratore è la vista. E capiamo anche che, nonostante l’apparente estremo realismo visivo, siamo a due passi dalla visionarietà. L’ultima frase riprende alcuni elementi delle frasi precedenti e li fa, per così dire, girare vorticosamente; per poi ripresentarci l’immagine della “strada nuda e bianca”. Percepiamo subito la somiglianza tra questo procedimento e una struttura musicale (ad es. un crescendo nel quale si accumulano diversi strumenti a canone e per imitazione; che si interrompe di colpo lasciando il posto ad un accordo immobile, di note tenute). Quindi capiamo subito di aver che fare con un testo attentissimo ai valori ritmici e musicali, oltre che alla visibilità delle cose; in sostanza, un testo che sarà un esercizio di stile da cima a fondo (come in effetti è Addio alle armi, Oscar Mondadori). Quello che noi dobbiamo fare, come lettori, è lasciarci prendere e coinvolgere (Volponi, al contrario, mettendo in scena un personaggio narratore inattendibile ma che vuole convincerci di qualcosa, sollecita nel lettore un atteggiamento critico).

Gli altri esseri umani li trovai nella direzione opposta, in quanto non andai più all’odiato ginnasio, ma, ciò che fu la mia salvezza, a fare l’apprendista, cioè al mattino presto, contro ogni ragionevolezza, non andai più con il figlio del consigliere governativo lungo la Reichenhaller Strasse verso il centro della città, ma andai lungo la Rudolf-Biebl-Strasse verso la periferia con il garzone del fabbro che abitava nella casa accanto, e non passai più attraverso i giardini incolti e davanti alle artistiche ville per andare all’Alta scuola della borghesia e della piccola borghesia, ma passai davanti all’istituto dei ciechi e a quello dei sordomuti e sopra il terrapieno della ferrovia e attraverso i giardini al margine della città e accanto alle staccionate del campo sportivo vicino al manicomio di Lehen per andare all’Alta scuola dei reietti e dei poveri, all’Alta scuola dei pazzi e di quelli che sono dichiarati pazzi, nel quartiere di Scherzhauserfeld, in quello che è per antonomasia il quartiere degli orrori della città, fonte di quasi tutti i processi giudiziari di Salisburgo e nella cantina adibita a negozio di generi alimentari di Karl Podlaha, il quale era un essere umano distrutto e un sensibile temperamento viennese che sarebbe voluto diventare un musicista e invece era sempre rimasto un piccolo bottegaio.
(Thomas Bernhard, La cantina)

Anche questo incipit ci dice che del libro che leggeremo saranno importanti i valori ritmici e musicali, la sintassi, le virgole ecc.; anche qui abbiamo la precisa sensazione di aver che fare con una percezione alterata (ci viene anche detto: “contro ogni ragionevolezza”); solo che qui né ci viene chiesto (come nel primo esempio) di condividere o non condividere, né ci viene chiesto di lasciarci coinvolgere: questa lingua così strana ci rifiuta, è evidente. Mentre questa lingua ci invade noi sentiamo di doverci difendere. E’ innegabile un senso di disagio, o almeno di spiazzamento.
Abbiamo alcuni dati materiali: apprendiamo che il personaggio, figlio di famiglia borghese, pianta la scuola per andare a lavorare in un negozio di generi alimentari; e fa questo per odio e per irrisione verso la condizione borghese, senza tuttavia mostrare nessun sentimento positivo verso “gli altri esseri umani” che si incontrano “nella direzione opposta”. Quindi abbiamo la sensazione di un’estrema acutezza dello sguardo: non uno sguardo visivo, come quello di Hemingway, ma uno sguardo che vede l’essenza delle cose (uno sguardo ontologico?). Ci chiediamo quindi: ce la farà, il giovanottino borghese, ad affrontare la direzione opposta? E abbiamo subito la sensazione che possa farcela, così come abbiamo la sensazione che farcela o non farcela non abbia molta importanza, tanto sia la vita borghese sia la vita “nella direzione opposta” è orripilante. Con questo, abbiamo tutto il contenuto ideologico del libro. Non sappiamo molto sulla vicenda futura, ma nei libri di Bernhard la vicenda non è la sostanza.

Quattro incipit da proseguire

A questo punto, passiamo dalle parole ai fatti. Qui di seguito diamo quattro incipit (facili) di racconti. Invitiamo i lettori a tentare di proseguirne uno o due. La procedura più semplice è quella delle domande. Una volta letto l’incipit, domandiamoci: che informazioni mi dà questo incipit sull’ambiente, il tempo, l’ora del giorno, il numero dei personaggi, i loro caratteri, la situazione in corso ecc.? E poi domandiamoci: come è fatta la lingua di questo incipit, che tipo di frase adopera, che lessico, come mette le virgole, qual è il suo ritmo, è veloce o lenta ecc.? E infine domandiamoci: come si propone questo testo al lettore, quale atteggiamento provoca o richiede, a quale genere letterario appartiene, in quale modo va letto ecc.?
Una volta che avremo risposto (almeno approssimativamente) a queste domande, possiamo tornare all’incipit e, in tutta libertà, immaginare come prosegue la storia. Vi invitiamo a mandarci le vostre prosecuzioni. Le più interessanti (non è detto che saranno anche le più belle: un testo orribile può essere didatticamente interessante) saranno pubblicate e commentate nel prossimo Nautilus. (Comunque pubblicheremo tutti i testi ben fatti.)

1. NELL’UFFICIO POSTALE

L’uomo ringraziò.
– Si figuri, disse Rita. Non è niente.
– Non è così facile trovare una persona gentile, disse l’uomo.
– Sa, disse Rita, tante volte è la fatica.
– Mi rendo conto, disse l’uomo.
– Lei si immagina con quanti utenti abbiamo che fare ogni giorno, disse Rita.
– Mi immagino, disse l’uomo.
– Non sembra, disse Rita, ma è un lavoro faticoso.
L’uomo si voltò. Non c’era nessuno dietro di lui. L’ufficio era quasi deserto. Una signora anziana aveva ritirato la pensione, due sportelli più in là, e stava ricontando lentamente i soldi. Borbottava tra sé.
– Sa, disse Rita abbassando la voce.
L’uomo avvicinò il viso al divisorio trasparente.
– A volte, disse piano Rita annuendo verso la signora anziana, ci tocca fare anche le assistenti sociali.
– Mi immagino, disse l’uomo ridendo.
La signora anziana aveva finito di ricontare i suoi soldi. Cominciò a camminare verso la porta strascicando i piedi e borbottando. Entrò una ragazza con un fascio di raccomandate.
– La lascio al suo lavoro, disse l’uomo.
– A rivederla, disse Rita.
Nell’uscire l’uomo aspettò la signora anziana e le tenne aperta la porta. La signora non lo ringraziò nemmeno. Uscì sempre borbottando, il fascetto di banconote stretto in mano.
La ragazza posò il fascio di raccomandate sul ripiano dello sportello di Rita e cominciò a passargliele. Rita prese la prima raccomandata, la soppesò in mano, infilò il modulo grigio nell’affrancatrice, schiacciò 3.850 lire.
Fuori si sentì gridare.

2. LA CASA DI MICHELE

Michele abitava in una casa troppo grande per lui. La avevano abitata, in altri anni, sconosciuti parenti. Michele la aveva ereditata con tutto dentro, strapiena di mobili e cose. Volentieri aveva lasciato l’appartamento d’affitto per occuparla. All’inizio ne aveva usate solo poche stanze, cucina bagno camera da letto: come intimorito. Poi aveva cominciato ad esplorare. Tornava dall’ufficio alle cinque e mezza, sceglieva un mobile, lo apriva, lo svuotava, apriva tutte le scatole e scatolette, scuoteva i vestiti appesi, frugava le tasche. Trovò in un cassetto un album di fotografie in bianco e nero. Lo sfogliò e risfogliò. Poi staccò le fotografie e le appese tutte, con il nastro biadesivo, alla parete più libera del salotto. Così poteva vederle tutte insieme. Dalla parete nessuna faccia conosciuta lo guardava.

3. MORTE DI RICHESSE

Siete i benvenuti, signori. Speravo proprio che veniste. Ecco, entrate. Fate piano, per favore. Se volete togliervi i mantelli, prego. Un attimo, li porto di là. Ecco. Forse c’è qualcuno che non conoscete ma, chiedo scusa, preferisco non fare presentazioni. E’ meglio se non c’è rumore di sedie e di conversazione. Tutti siete qui per la stessa ragione, mi pare che questo basti. Ecco, da questa parte. Richesse è nella sua stanza ma non posso farvi entrare adesso, ci sono i medici. Credo che non staranno dentro a lungo. Hanno finito il loro lavoro e non servono più. Hanno fatto quello che potevano, credo. Ecco, sedete pure qui. D’altra parte Richesse aveva detto subito che non sarebbe servito. Ma voi sapete com’è fatto Richesse, ha voluto fare tutto come si conviene. Ha lasciato che lo visitassero, che lo palpassero, che lo auscultassero, che gli facessero tutto. Ha preso le medicine e ha fatto gli impacchi, come fosse stato davvero convinto che gli sarebbero serviti. L’ho perfino sentito dire a uno di loro che dopo gli impacchi si sentiva meglio. Naturalmente non è vero.

4. IL TELEFONO, LA TUA VOCE

Sei alla stazione di Bologna. Sei sola. Hai a tracolla da una parte la borsone con dentro tutto: i vestiti, la sveglia, i libri, i quaderni di appunti. Dall’altra parte hai la valigetta di pelle che ti fa da borsetta. Hai addosso il cappotto nero. Sull’intercity da Firenze c’era troppo caldo. Sei sudata sotto i vestiti. All’aperto sotto le pensiline è freddo. L’espresso per Venezia è tra ventidue minuti. Devi scendere a Monselice, tornare a casa. Di mercoledì. Sei scappata dall’appartamento in fretta. Dovrai trovare qualcosa per spiegare a casa. Hai storia moderna tra diciassette giorni. Se dirai che devi solo stare in pace forse non diranno niente. Devo solo stare in pace per studiare, non ci sono più lezioni. Prova a dirlo. Fai la faccia. Mamma, sono tornata a casa per studiare meglio. Devo solo stare in pace. Coccolami, preparami da mangiare, lasciami dormire. Passerò l’esame. Forse dovresti telefonare. Mancano ventuno minuti, puoi telefonare. Chi ne ha voglia. La scheda ce l’hai.

24 pensieri riguardo “Una lezione del 1996

  1. Appena ho un po’ di tempo vorrei dedicarmici. Nel mio blog sto pubblicando la parodia di un corso di scrittura creativa, seguito vari anni fa sulle colline laziali…

  2. ma “morte di richesse” non è un tuo racconto, giulio? (vado a memoria, facile che mi sbagli)

  3. (Prosecuzione, minima, di Barbara Buoso – allieva della Bottega 2012 – 2013)

    Vera la cerimonia di addio cui ci fece assistere. Richesse invitò sé stesso quale ospite d’onore all’eucarestia della sua fine. Voleva far dono loro delle sue spoglie umane. Si era ritirato, tra le pieghe della veste da giorno, come una lumaca frettolosa. Nessuna scia umida avrebbe deposto. Non eravamo più riusciti, da giorni, da quando le sue condizioni erano precipitate, a spogliarlo dagli abiti diurni. Lo avevamo segregato in un lurido matinee involatosi a sudario. Aveva messo in scena l’ultimo atto per dar spettacolo a chi era seduto fuori dalla sua porta. Oh, sciagurato scialacquatore di vite altrui: rideresti potessi alzarti nella tua odorante veste e adocchiare queste cornacchie accorse sul trespolo. A tendere l’orecchio per sentir esalare l’ultimo gemito. Il gemito che… sì, la vedo ora, c’è anche lei: lei che i tuoi gemiti li conosce bene è qui. Stenterebbe, se la facessi entrare, a riconoscerti, avvolto nelle esalazioni corporee finalmente libere di salire al cospetto anche del naso più nobile. Il naso che baciasti con ardore, immagino. Riesco a vedervi, nello stesso letto in cui ora mani senza desiderio ti girano e rigirano preparandoti alla cassa.

  4. (Prosecuzione di B – di Barbara Buoso – allieva della Bottega 2012 – 2013)

    Li aveva messi al muro, finalmente, i suoi parenti. Tutti assieme. In un solo botto: uno a uno, nessuno venne risparmiato. Lui, Michele, seppe di quella casa mentre stava, come un acrobata alle prime armi che ha la sicurezza di una rete sotto, cercando di scalciare via i pantaloni agitando la gamba sinistra come un nuotatore stordito che non ricorda più come si fa a galleggiare per incunearsi tra le natiche di Giovanni, l’uomo con cui scopava a quel tempo. Lo aveva visto nei film che, se sei preso dalla passione, devi agitarti scompostamente e non perdere di vista la faccia della persona che stai per scoparti. Lui, in quel caso, non aveva perso di vista il culo di Giovanni fino all’avviso, banale, emesso dal cellulare modello BlackBarry Curve 9330 nero che teneva sempre a portata di mano. Senza telefono, Michele, non poteva stare. Era ben riuscito a stare senza sua madre, suo padre e i suoi due fratelli da quando aveva dichiarato che gli piaceva l’uccello e non la passera. I suoi la presero male, erano stati sempre benvoluti e stimati in quel quartiere, le preferenze di Michele avrebbero certamente scombussolato la loro tranquilla esistenza. Suo padre capì che quel ragazzo gli avrebbe dato da pensare quando, la domenica mattina, invece di attrezzarsi con stivali e tuta da lavoro per lavare la macchina, si piazzava, in mezzo al cortiletto d’ingresso, in vestaglia rosa – aperta – e gomma dell’acqua in mano generando uno spruzzo d’acqua che non arrivava nemmeno al cofano della vettura. Il giornalaio, una domenica mattina, per guardarlo finì contro la siepe dei loro vicini di casa rovinando la recente potatura della siepe che non risultava più essere una linea orizzontale perfetta. Quella domenica suo padre gliene diede di santa ragione, dopo averlo costretto a infilarsi i vestiti da casa, perché in casa di deve stare vestiti e Michele maturò la convinzione che era giunto per lui il momento di cambiare città e, possibilmente, anche famiglia. Si ritrovò in un condominio dove il suo nome sul citofono a fatica si trovava tra le decine di altre vite tenute a bada da appiccichino di ogni misura, ordine e grado. Non fu così da imbecille da mandare a quel paese il lavoro che il padre gli aveva trovato per garantirgli una esistenza decorosa, fu però molto bravo a ottenere il trasferimento a poche fermate della Metro da dove andò ad abitare. Tanto, pensò, mio padre si guarderà bene dal dare spiegazioni circa il mio ‘trasferimento’ ad altra sede. Meglio così, pensò, potrà giocarsi la carta moglie, pargoli e cane d’ordinanza.

  5. accenno di prosecuzione per LA CASA DI MICHELE
    iniziato e mollato subito. poi ho letto lo scritto di Barbara e ho pensato ‘cavolo come immaginiamo cose diverse’! 🙂

    2. LA CASA DI MICHELE

    Michele abitava in una casa troppo grande per lui. La avevano abitata, in altri anni, sconosciuti parenti. Michele la aveva ereditata con tutto dentro, strapiena di mobili e cose. Volentieri aveva lasciato l’appartamento d’affitto per occuparla. All’inizio ne aveva usate solo poche stanze, cucina bagno camera da letto: come intimorito. Poi aveva cominciato ad esplorare. Tornava dall’ufficio alle cinque e mezza, sceglieva un mobile, lo apriva, lo svuotava, apriva tutte le scatole e scatolette, scuoteva i vestiti appesi, frugava le tasche. Trovò in un cassetto un album di fotografie in bianco e nero. Lo sfogliò e risfogliò. Poi staccò le fotografie e le appese tutte, con il nastro biadesivo, alla parete più libera del salotto. Così poteva vederle tutte insieme. Dalla parete nessuna faccia conosciuta lo guardava, erano divenute nel tempo simili ad una carta da parati ingiallita.

    Quella sera si sentiva inquieto. Avrebbe voluto compagnia, ma in palestra non aveva trovato nessuno da invitare a cena. Era rientrato un po’ più tardi del solito, verso le sette, aveva svuotato il borsone nella cesta della biancheria e ora sostava in piedi a fianco del tavolo rotondo in stile biedermeier che si trovava al centro del salotto. Sul tavolo teneva due vasi in cristallo con fiori secchi color lilla sui quali bivaccava uno strato di polvere percettibile solo in controluce, e un’ampia ciotola in bambù laccato che usava per le noci e le mandorle sgusciate. Le quattro sedie con lo schienale imbottito non erano invitanti, ma non si decideva mai a liberarsene. Si guardò intorno, sgranocchiò qualche mandorla e subito ebbe voglia di una birra ghiacciata. Faceva un caldo umido. Tornando dalla cucina si tolse le scarpe e azionò la pala per muovere un po’ l’aria nella stanza. Sdraiato sul divano osservava i muri e gli stucchi al soffitto. Tra una manciata di secondi e l’altra poteva avvertire un leggero alito di vento sfiorargli le guance accompagnato da un cigolio minimo che ritmava la rotazione della pala sul soffitto, mentre il calore che avvertiva sulla schiena, a contatto con il divano in pelle, iniziava a dargli fastidio. I velluti alle finestre si muovevano piano, e contribuivano a creare una penombra che sapeva d’estate. Michele sapeva che se li avesse toccati avrebbe sentito la potenza del sole che per tutto il pomeriggio ne aveva riscaldato la fibra attraverso i vetri. Di fronte al divano c’era un grande specchio al mercurio con cornice dorata e intagliata. Michele intravide la sua immagine riflessa, appoggiò la bottiglia di birra a terra e sedette sul divano. Si guardò allo specchio mentre si toglieva la camicia bianca. Tornò a sdraiarsi. Si accarezzava addome e pettorali con movimenti lenti della mano sinistra. Pensava che gli ultimi tre mesi di palestra avevano migliorato il suo fisico. Girò la testa verso destra puntando lo sguardo alle fotografie appese. Due occhi nerissimi su un volto di donna per la prima volta lo fissarono come vivi, fuoriusciti dalla carta da parati. Si alzò lentamente dal divano e si avvicinò alla parete delle fotografie. Staccò la foto della donna e la osservò da vicino. Era una foto molto consumata nei bordi, e il ritratto era inserito in un ovale bianco su fondo nero, con macchie oleose in basso a destra. Una faccia piena di rughe, con la bocca leggermente sprezzante, anonima per lui. Quello sguardo vivissimo lo spinse con il pensiero al suo ultimo viaggio a Lisbona. Ne conservava un ricordo molto intenso. Ma a chi gli chiedeva di raccontare le sue impressioni sulla città lui raccontava sempre la stessa storia.
    Nei corridoi della metropolitana, in piena notte, camminava davanti a lui una donna nera, vestita con pochi stracci. Improvvisamente quella donna aveva intonato un canto con una voce così potente che gli aveva messo i brividi, tanto forte da sembrare amplificata. Quella donna continuò il suo canto anche dopo essere salita sul treno ed essersi seduta. Michele le si era seduto davanti. Non c’era nessun’altra persona nello scompartimento. La donna aveva due occhi intensi, neri, il viso consumato dagli anni e bruciacchiato dal sole, sorrideva mentre cantava, ma guardava nel vuoto. Michele non capiva la sua lingua, avrebbe voluto conoscere il significato delle parole che uscivano da quella bocca, ma potè capire solo ‘Gerusalemme’.

  6. ho la testa vuota, barbara, non ci so stare seriamente. non annoto nulla, e quando scrivo la benzina finisce subito. c’est la vie, breve, breve 🙂 grazie del tuo commento, ciao

  7. hai lo spirito giusto: non starci seriamente infatti. breve breve va benissimo! (se la benzina finisce subito vuol dire che hai una macchina potente… o un guaio al serbatoio, più la prima penso io) 🙂

  8. Fece un passo indietro, e tornò a guardare la parete con le fotografie appese. In quel preciso istante, vide che ogni fotografia occupava un posto, che gli spazi tra una foto e l’altra erano definiti, che la colla sul dorso delle immagini ne arricciava i bordi, che il muro era muro, che l’intonaco ocra ospitava graffi e sbrecciature simili a lampi di luce bianca, che tutto era in ordine, e lui, poteva vederlo.
    Volle lasciare vuoto lo spazio riservato alla foto che aveva in mano. La guardò ancora una volta, distrattamente, poi la mise nel cassetto dello scrittoio lì accanto. La sua inquietudine, comandò un respiro lungo e profondo. Decise di uscire.

    (così al primo pensiero. se invece Michele riponesse quella foto al suo posto…ne guadagnerebbe in serenità?) vado a far la spesa, và

  9. Adoro quel “che tutto era in ordine, e lui, poteva vederlo” e “la sua inquietudine, comandò un respiro lungo e profondo. Decise di uscire”. Non penso proprio guadagnerebbe serenità, anzi. Aspettiamo Michele rientri.

  10. Partì in macchina senza avere una meta. Iniziò quasi subito a fare il suo gioco con le parole. Pronunciava ad alta voce un verbo all’infinito, e ci attaccava suoni o significati o ripetizioni che in quel momento gli venivano in mente. L’abilità per lui stava nel non lasciar passare più di tre secondi tra una parola e l’altra. Iniziò con negare, annegare. rinnegare, ma quasi subito infranse le regole del gioco per formare frasi, aumentando sempre più il tono della voce. “Negare, annegare, rinnegare. Nego di annegare. Io nego di annegare! Rinnego di negare! Annego, rinnegando!”. Ebbe una pausa e capì che aveva già esaurito la scorta di parole. Si accese una sigaretta e abbassò leggermente il finestrino alla sua sinistra. Con il gomito appoggiato alla portiera e la sigaretta fumante tra le dita continuava a guidare e passò al gibberish, sempre ad alta voce. “Negare, annegare, rinnegare. Deny, drown, disavow”. Gli uscì una nenia, parole perse nella memoria, in una lingua improbabile, ma con una sua melodia precisa, e ripetuta:
    de nisavòw / drodì-disavòw
    dodisavò-wdodeny-sadròw
    drow esady / nisà-wdodeny
    savò-dodì drodidì-sawò…
    Ogni volta che provava il gibberish gli usciva un canto, malinconico, gli occhi gli si inumidivano, si estraniava per qualche minuto e poi sprofondava in un silenzio compiaciuto, ci si riposava dentro, come tornato da un lunghissimo viaggio.

    (è sbucato qualche richiamo inaspettato all’inizio, ma giro in tondo e non succede nulla. per ora noia vince 1 a zero. barbara, non è che hai voglia di continuare un po’ il tuo? eddai, che così ti leggo pure io. saluti)

  11. Un beep-beep-beep insistente e frettoloso proveniente dallo stesso finestrino da cui usciva il fumo della sigaretta, dopo aver infranto l’equilibrio circolare perfetto del piccolo tizzone fattosi ormai cenere si era ormai sfatto in microscopiche particelle impalpabili, finì per accodarsi al suo savò-dodì drodidì-sawò distraendolo definitivamente da sé stesso.
    “Cazzo”. Sbroccò tra i denti gettando un’occhiataccia storta che ottenne l’unico risultato di mettere in bella evidenza le ormai numerose, e irreversibili rughe che di diramavano come un vetro rotto dall’angolo del suo occhio destro.
    Mettere la solita base sulla pelle non era servito a un granché, guarda qua come mi sta sfasciando la faccia cristo benedetto, pensò Michele.
    Lanciò quello che rimaneva della sigaretta, chiuse rapidamente il finestrino, mise la freccia a destra, accostò al ritmo tachicardico del segnalatore che gli cavò un’altra imprecazione.
    “Cazzo, n’altra volta la freccia, ma porca troia, ho appena fatto la revisione”. Ogni volta gli partiva un gibberish si rompeva sempre qualcosa, lo aveva imparato a su spese – care – ormai, era diventato per lui una sorta di ‘allarme’ interiore; solo che a volte interessava anche gli oggetti di sua pertinenza.
    Era un gioco, quello, non suo, come gli piaceva pensare, ma di lei, lo aveva inventato quella volta che erano andati a Barcellona in macchina portando con sé, oltre al materasso in lattice senza cui lei non poteva dormire, un materassi sfatto dalla consistenza di un’ostia preso all’Ikea appena andarono a vivere assieme, Lolò, il Coccker di Matilde.
    Che viaggio, quello, allucinante.
    Michele aveva spento il motore, abbandonando la testa sul poggiatesta che, ne era certo, aveva ancora l’odore dei suoi capelli anche se era trascorso un anno dall’ultima volta in cui lei poteva aver poggiato la sua testa lì.
    La cenere abbandonata sulla gamba sinistra a memoria della sigaretta; lui sfatto sul sedile a memoria dell’uomo che era stato con Matilde.
    Non era salito in macchina senza una meta.
    Una direzione ce l’aveva, ma forse non era quella che, tanto per cambiare, non aveva voglia di prendere.
    Doveva muoversi se voleva arrivare in tempo in chiesa, Ines avrebbe finito col dire quello che – alla fine – lui aveva il dubbio di essere “un uomo innamorato solo di sé stesso”.
    Che male c’era, pensò, ad andare in palestra ogni giorno.
    Che male ci può essere a voler tenere d’occhio il proprio corpo, attimo dopo attimo.
    A Ines, la madre di Matilde, quel Michele non era mai piaciuto, così vanitoso, pieno di sé, sempre attento alla propria immagine tanto da far pensare a tutti, all’inizio della loro storia, di essere gay tanto era fissato con la cura, a tratti maniacale, del proprio corpo.
    Lui qualche storiella rovescia l’aveva avuta, quando era ancora all’università e giocava nella squadra di pallanuoto, storielle a cui non aveva dato zero importanza, capita che quando giochi assieme, ti diverti, ridi, fai la doccia, parti per le trasferte e le ore non passano mai, ti diverti in un modo o nell’altro.
    Non era amore quello, pensava Michele, né storie, era solo sport. Sano sport.

  12. (Sto Michele non riesco a farmelo piacere… sarà tutta sta palestra che fa, bo!).

  13. barbara, mi hai fatto proprio ridere con la frase ‘ogni volta gli partiva un gibberish si rompeva qualcosa’ troppo ridere!!! ora, mi sembra di aver aprofittato fin troppo di questo spazio, e continuare qui non mi sembra cosa buona. ti invio sulla mail che ho letto cliccando sulla tua foto la parte su michele scritta da me che corrisponde più o meno a quest’ultima parte scritta da te. grazie per il privilegio che mi hai riservato, con questi scambi. un saluto. manu

  14. e pensa che io credevo di aver buttato giù una “frase” drammatica!! ahaha. grazie a te invece, spero invece che cambi idea!! ciao.

  15. Carissimo Giulio! E’ un vero piacere poterti scrivere, sai?!
    Tempo fa, ho seguito alcuni dei tuoi video sulla scrittura creativa… .
    Credo te lo abbiano già detto in tanti, comunque: SEI UN IDOLO!
    Dico sul serio.
    Dopo proseguo… arriva la pappa!
    Albytwitt

  16. Non posso lasciarmi scappare una simile occasione! Davvero. Mangio e ritorno… .
    Ciaoooo!

  17. Eccomi! La forchetta più lenta del web! Ah! Ah! Ah!
    Scherzi a parte… sei veramente bravo, dicevo.
    Alcuni video me li ricordo ancora; ciò che mi è rimasto più impresso, è la creatività con cui li hai girati.
    All’inizio, quando ho visto un uomo con un polipo in testa ho pensato male… . Poi, grazie al fatto che non ero (e non sono) in grado di chiudere un video, dopo un po’ di pazienza, ho iniziato ad immagazzinare parole e a capire. Era tutta creatività. Quel video dove apri il “libro magico” prendendolo dalla lavatrice è
    spettacolare!
    Se c’è una cosa (e ce ne sono tante, purtroppo) che non riesco a comprendere del tutto, è proprio il PC. Molte cose che lo riguardano sono, per me, un mistero. Eccotene una bella serie su un piatto d’argento: non mi sono mai iscritto a Twitter (se non da due giorni e non lo so tanto usare!), non ho un mio sito, non so come fare ad inserire i link “sulle parole”, né quelli classici (se così si possono definire) e tante altre cose… .
    Che figuraccia! Con 28 anni dovrei vergognarmi… !
    Fatto sta che un paio di giorni fa, tanto per mettermi alla prova, ho compilato l’iscrizione a Twitter e mi sono chiesto: “cosa ci sarà di utile in questo posto?”. Risposta: “Basta un po’ di fantasia!”.
    Due minuti dopo, stavo investendo tempo a cercare qualcosa di inerente la scrittura.
    Così, visto che da poco avevo cercato alcune cose sulla scrittura creativa (molto probabilmente, imbattendomi in questo stesso blog!), mi è venuto in mente il tuo nome. Inutile dire che non ti ho seguito; ti ho CORSO dietro!
    Ora, sai tutta la storia del più “incredibile, anacronistico e sfigato ragazzo del web!”. Ah! Ah! Ah!

    A parte questa parte di messaggio che lascia discutere sulla sua utilità, mi piacerebbe seguire i tuoi esercizi.
    Penso siano più costruttivi e creativi.
    E proprio per i tuoi video ed esercizi, sento di doverti ringraziare.
    Concludendo, ho voluto condividere questi pensieri non a caso, ma per fare una precisazione. .
    Ci tengo a dirti che tu stai facendo del bene. Probabilmente, non c’era bisogno che te lo dicessi, ma credo che, infondo, non ci sia nulla di male nel sentirselo dire. O sbaglio? (Poi me lo dirai…)
    Con i tuoi esercizi, proponi creatività a tutto spiano. E questa, a chi piace, a chi la rincorre costantemente per stamparsene un pezzo in mente da usare e ridonare, è un vero, tangibile regalo. Il più bello, forse. Te lo dice uno che ha un sacco da imparare e di strada da fare.

    Per questo ti ho scritto. Per imparare. Non siam mica qui a pettinare le… .

    Ora “scappo”. Mi prendo una pausa da questa “finestra virtuale” con cui, infondo, ho potuto condividere i miei pensieri in tutta tranquillità. Non è poi tanto male!
    Se solo avessi studiato quand’ era il momento!

    Spero di non esser stato troppo noioso o malinconico e di aver reso bene l’idea.

    Un salutone,
    Alby

    P.S Mi consiglieresti un bel libro vecchio o contemporaneo, romanzo o saggio da leggere, per favore?

    Ancora grazie.
    Ciaoooo!

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