Precipitando a velocità accademica i fotoni rimbalzavano con coerenza…

di Cosimo Lupo

[Cosimo Lupo ha scritto, un po’ durante e un po’ dopo aver frequentato la Bottega di narrazione, un romanzo il cui misteriosissimo titolo è: “ADA39” (e, no, non è il nome di un agente segreto). Ve ne propongo sei estratti, ciascuno in due versioni: il testo scritto e il testo letto. E’ il genere di romanzo che, oggi come oggi, gli editori faticano parecchio a pubblicare (ma, se qualcuno si incuriosisse, si faccia avanti). A me sembra che sia piuttosto bello; e anche divertente; e anche, quando occorre, commovente. Buona lettura, buon ascolto. gm]

[Leggi o ascolta il primo e il secondo estratto].

Da ADA39

2.6.3

[classe: il PADRE, 1996]

Precipitando a velocità accademica i fotoni rimbalzavano con coerenza, né troppa né poca, sulle polisuperfici booleane, distribuendo nello spazio una gibigianna pacatamente conforme, nient’altro, all’algoritmo della turbolenza; dopo ogni impatto, si conservavano fedeli alla legge naturale, senza imbarazzi né superficialità. Le cromature del tostapane, ecco un dettaglio, le assalivano in gruppi a trama rada sulle curvature della scocca, dilatandosi (dilatandosi molto) e muovendosi in rapida accelerazione così da produrre un biancore allucinante
– ahi!
centrando a volte, accecandole, pupille poco rapide ad effettuare la miosi.
Ceramiche: le tazze variopinte e varioscritte che mia madre amava acquistare ed esporre, allineate, su mensole esatte – ci sono troppi colori? Ne tolgo uno? – o conformi, ed erano allora di mio padre, ad una palette cromatica selezionata da Le Corbusier, si opponevano ai fasci di luce concentrandoli, concentrandoli molto, in un puntino, appena, di materia bianchissima, in contrasto con la tinta di pertinenza di ciascuna.
Diversa sorte avevano quei raggi che incontrando l’ordito spesso delle tovagliette all’americana ne venivano assorbiti, come in quell’opera di Anish Kapoor dove un buco quadro, ingegnosamente tinteggiato sulle pareti interne, illude l’occhio il quale, solo per ciò, lo legge come un panno disteso; ma un pezzo di stoffa che si comporta come un buco è meno perverso di un buco che si finge (o si crede il che è lo stesso) tappeto.
O ancora: sulle ante dei mobili pensili, i microsolchi lineari che le impiallacciature in laminato offrivano sfusi, venivano amplificati dagli sfavillìi, al punto che l’occhio allenato avrebbe potuto riconoscerne la partitura incisa e il polpastrello comunicare alla corteccia uditiva la natura dell’esecuzione musicale.
Il polimero trasparente neutro di quattro sedie, in controtendenza, rifrangeva le onde luminose deviandole appena: lasciarsi penetrare a piacere va bene, ma meglio applicare sempre la legge di Snell.
Su una di queste sedie respiravo controllato, traguardando il muro rivolto a sud attraverso le microirregolarità d’uso del bordotavolo rosso scuro. Il quale tavolo, dal piano color corda, formava una t maiuscola sans serif con il bancone peninsulare parallelo al blocco cucina. Davanti a me si apriva una portafinestra, che in caso di sole invitava a meriggiare, o, dopo pranzo, a digerire [1], sulla veranda neoclassica.
L’architetto che propose ed ottenne la finitura a buccia d’arancia sulle pareti bianche, i gusti sono gusti ed il bello è soggettivo, godeva ancora di molta stima presso le onde luminose che giocavano ai riverberi
– merda!
meno, presso i filati che vi s’impigliavano sfibrandosi.
Il respiro ampio sollecitava l’olfatto, che quella mattina decodificava il veicolato della perturbazione che sfilava dai battenti alle mie spalle: semidisperse prime fioriture di alberi da frutto, spore già accoppiate a muschi giovani, memorie di resine da corteccia.
Lo sbuffo della gallina prataiola
– è timidissima, difficile sentirla
fu interrotto dal battito in decelerazione del motore di un furgone
– è il convertitore di coppia, va revisionato – aveva detto lo zio Dorando rientrando dal suo allenamento, e da quel momento seppi che esisteva tra le cose una cosa che si chiamava convertitore di coppia e che se non funzionava generava un rumore cavernoso. Lo zio provò il piacere di usare l’esperienza accumulata in trentamilaottocentoquaranta giorni di vita (comunque gli piaceva fingersi esperto, di qualunque cosa [2]).
Movimentai la colonna vertebrale che da esse bonnie bold si fece i arial bold e mi rivolsi a mia madre
– Esiste una cosa che si chiama convertitore di coppia. Con il tempo, si rompe.
Il rumore esterno continuò. Portai il peso sul piede destro ed aiutandomi con entrambe le braccia (le dita rosa delle mani stringevano il bordo porpora del tavolo) mi sollevai, lasciando che il poplite spostasse la sedia spingendone la cintura anteriore lontano dalla gamba. Eseguii una torsione verso sinistra, portando il piede destro in avanti di una mattonella [3] chiudendo il bacino al lato lungo del tavolo, per poi liberarmi nello spazio calpestabile incorridoiato tra il lato corto e il bancone. Mi diressi verso la porta tracciando una elle maiuscola sans; la raggiunsi, allungai la mano sinistra (non sono mancino, no, e tuttavia allungai la sinistra, è normale, era più vicina) raggiungendo i fili di plastica della tendina antimosche. Spostai un terzo scarso delle fettucce torte che ondeggiavano appese al traverso (tutto sommato si offrivano morbide e scivolose) e mi ci immersi, spingendo leggermente il quadricipite vasto intermedio per affrontare il passaggio sul basso gradino sottoporta – in caso di nubifragio trattiene l’acqua che s’accumula sul lastrico solare –; occupai la terrazza incalcinata calpestandone le piastrelle di ceramica lucida; scivolosa. Il rumore cessò. Mi appoggiai alla balaustrata, bianca bianca, pesante ma leggera sulla teoria di colonnine, larga. Guardai. Contrassi i muscoli perioculari allargando un po’ le narici, tesi gli angoli delle labbra verso il basso, non tanto ma li tesi. Qualcuno aveva parcheggiato un furgone in giardino, appena dentro il cancello. E, a scriverla tutta, bloccava pure il passaggio verso il retro della casa, dove sostava l’automobile di famiglia [4];
– non può stare qui, blocca il passaggio!
Mio fratello uscì dall’abitacolo e io ne seguii i movimenti muovendo i due bulbi oculari all’unisono, quasi. Poi parlai (spingendo il diaframma e atteggiando la cavità orale come se contenesse un uovo integro):
– E quello?
– Un’occasione! È pure camperato.
– Eh?
Ci guardammo. Salì i diciassette gradini di marmo bianco, consumati crepati e ingialliti al centro, senza mai distogliere lo sguardo dalle mie pupille. Quando mi raggiunse mi abbracciò.

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[1] Eh, le faccende nutritive.
[2] Anche del Festival di San Remo.
[3] Ma fu terribile: calpestai una fuga.
[4] Che era gialla.