[Sabato 16 febbraio 2019 le apprendiste e gli apprendisti della Bottega di narrazione – annualità 2017-2018 – si sono presentati al mondo dell’editoria. L’incontro, svoltosi presso la sede della Bottega a Milano, è stato assai partecipato e interessante. Pubblichiamo qui, uno alla volta, gli estratti dalle opere che sono state presentate. Chi volesse ricevere il fascicolo con tutti gli estratti può richiederlo scrivendo a bottegadinarrazione@gmail.com].
Gabriella De Fina è nata a Potenza nel 1958. Ha vissuto a Palermo e a Città del Messico e oggi vive a Torino. È laureata in Giurisprudenza. Per vent’anni ha fatto l’attrice (ha lavorato tra gli altri con Bob Wilson, Marco Baliani, Vincenzo Pirrotta, Roberto Guicciardini). È autrice di testi teatrali. Nel 2002 ha curato la drammaturgia dei «Viaggi Sentimentali» del Parco Letterario Tomasi di Lampedusa. Nel 2006, con l’atto unico Frontera, ha vinto la sezione Italia del premio «La scrittura della differenza – testi di drammaturghe dal Sud», pubblicato su Manifestolibri, 2006. Negli ultimi quindici anni si è dedicata alla traduzione di letteratura spagnola e ispanoamericana (ha tradotto per Mondadori, E/O, Donzelli, Raffaelli e ha fatto la revisora di traduzione per Einaudi); ha scritto testi di volumi fotografici e pubblicato reportage di viaggio su «Latitudes Travel Magazine». È autrice di No al pizzo, imprenditori siciliani in trincea (Thor editrice, 2008), ampiamente ripreso a puntate sulla rivista «Il Primo Amore». Durante «L’anno del romanzo», laboratorio di scrittura dell’associazione Nientetrucchi condotto da Giulio Mozzi e Carola Susani, ha scritto il suo primo romanzo, La cena, ancora inedito.
338-2661392, gabria@libero.it
La storia
Bianca e Micaela sono due malate di cancro. Si conoscono in ospedale, ma mentre Bianca risponde alle cure, Micaela sa che non ce la farà. Finita la chemio, Micaela invita Bianca a trascorrere una settimana nella sua casa nel bosco, l’arco di tempo in cui il romanzo si snoda. Lontane dai mariti, le due donne cercano di costruirsi uno spazio e un tempo propri, dove il loro quotidiano di malate, scandito dai farmaci e dai problemi fisici, as-suma una dimensione di normalità; intanto si raccontano, in quello spazio chiuso dal quale ogni tanto fuggono per immergersi in un bosco pieno di sorprese. Per giorni vanno avanti nell’illusione, vivono persino una notte d’amore. Ma Micaela sta morendo, e alla fine il grande inganno sfocia nel suo violento sfogo di accuse contro Bianca. Sembra tutto finito, ma una piccola luce si intravede nel finale, quando Micaela chiede a Bianca di consegnare alle nipoti la lettera-testamento che ha scritto per loro. Fin dall’inizio si accenna a una terza presenza silente e misteriosa, che a metà del testo scompare per ritornare a libro concluso: si tratta dell’autrice, che spiega di essere malata, e di come il cancro sia entrato nel suo immaginario costringendola a scrivere quella storia, inventata sì, ma intimamente anche sua.
* * *
Terzo giorno
Qua fuori è bellissimo. Scheletri arborei intrecciano le dita inguantate di nero sul cielo rosato. Mi pare di sentire il fruscio delle radici allacciate sottoterra, la vibrazione di un immenso, sensibile cervello, come se gli alberi insieme a noi fossero in attesa dell’evento.
Micaela si ferma sulla soglia.
«Bianca dal bagno mi ha gridato di uscire» dice con un sorrisino.
Fa qualche passo, guarda lontano.
Siamo quasi al tramonto: l’azzurro sulle spighe volge al blu, sembrano disegnate a china sullo sfondo color metallo picchiettato di rosa.
Entro in casa.
Bianca sta uscendo dal bagno come una ladra dal suo nascondiglio. Ha i capelli biondissimi, quasi bianchi, talmente in ordine che non sembrano neanche i suoi. Cammina in punta di piedi, abbracciata ai suoi vestiti smessi. Sale le scale avvolta nell’asciugamani.
Micaela la radio non l’ha trovata. Devo fare qualcosa, sembrano due adolescenti alla prima festa da ballo. Cerco su You Tube: Strange fruit, sangue sulle foglie e nelle radici; Billie Holiday è perfetta, malata di cirrosi, la voce sofferente. Chiamo Micaela, che sta aspettando fuori. Chiamo Bianca: anche lei è in attesa, abbigliata in cima alla scala. Attacco la canzone. Bianca scende lenta come una diva. Il vestito nero, lungo e attillato le fascia le forme, il seno preme sulla scollatura, i capelli biondo platino lisci sulle spalle, gli occhi neri cerchiati di matita, la bocca rossa come un frutto. Micaela è ipnotizzata dalla visione, una statua, il foulard intorno alla testa e un girocollo di onice da cui sboccia il lungo collo.
Bianca si appoggia alla spalliera del divano, sorride sicura di sé, cosciente di essere bella. Micaela le si avvicina silenziosa. Le prende la mano, la bacia, poi l’attira a sé e le cinge la vita. Bianca le mette una mano sulla spalla e così, vicine, le pupille a spillo di Bianca affondate nelle orbite grigie di Micaela, ballano un lento cheek to cheek, un ballo tutto loro. Mi metto in azione, sapendo che la minima distrazione potrebbe rovinare la magia. Muovendomi ai bordi della scena (così la immagino adesso, come una rappresentazione), vado a prendere le candele che Bianca ha conservato nel cassetto in cucina e le accendo una dopo l’altra. Ne metto sulla mensola del camino, sul davanzale della finestra, sulla scala, sulla cassapanca cercando di creare qualcosa che assomigli a un circolo di fuoco.
Mi siedo a terra, tiro le ginocchia al petto, vi appoggio sopra il quaderno, prendo la penna e inizio a scrivere.
Ballerete nel circolo di fuoco con una grazia che mi lascerà basita, una naturalezza da animali in preda al richiamo dell’istinto. Tu, Micaela, assomiglierai a un giaguaro bianco; tu, Bianca, all’uccello nero di una fiaba. E come nelle fiabe sarete animali ritti sulle zampe. Tu, Bianca, avrai artigli dalle unghie smaltate e tu, Micaela, occhi così grandi da raccogliere tutta la stanza in uno sguardo. Tu, Bianca, dirai a Micaela «truccata sei bella». Micaela ti sorriderà ammiccante, mostrando i denti finalmente puliti nel cerchio della bocca disegnata dal rossetto, desiderosa della tua, carnosa e rossa.
Quando la musica si abbasserà, andrete mano nella mano alla tavola apparecchiata. Tu, Bianca, aspetterai che Micaela sprema la fiala di Oramorph sotto la lingua e l’aiuterai ad accomodarsi a tavola. Prenderai coltello e paletta e farai porzioni enormi. Tu, Micaela, spalancherai gli occhi quando Bianca ti metterà il piatto davanti. Allora tu, Bianca, avvicinerai la sedia alla sua e comincerai a imboccarla. Domanderai «com’è» e tu, Micaela, risponderai «squisita», masticando come se il pezzo di torta fosse più grande della tua bocca; masticherai e masticherai. Tu, Bianca, continuerai a imboccare Micaela guardando avida la glassa alla cannella, e quando lei avrà finito, verserai l’acqua nei bicchieri.
Berrete sbavando, inondando i décolleté del liquido miracoloso che vi tramuterà nelle principesse che avete sognato di essere.
Tu, Micaela, chiederai di aprire la bottiglia. Allungherai il braccio verso il prosecco, libererai il tappo dalla stagnola dorata, allargherai la gabbietta girando il picciolo di fil di ferro come fosse una chiave, terrai ferma la bottiglia tra le cosce e smuoverai il tappo a destra e a sinistra spingendolo verso l’alto.
Il tappo rimbalzerà a turno, come una benedizione, sulla fronte di ognuna di voi due. E con i calici colmi, i corpi scossi dalle risa, tornerete nel circolo di fuoco. Incrocerete le braccia e berrete ognuna dal calice dell’altra, tutto d’un fiato, e di nuovo vi avvinghierete nel ballo perché la musica, come d’incanto, sarà tornata al massimo volume. Tu Bianca, appoggerai la testa sul petto di Micaela, chiuderai gli occhi mentre lei ti farà girare lentamente e ti sentirai una bimba coccolata dalla madre; e tu Micaela, accoglierai il suo corpo morbido tra le braccia sentendo il calore riscaldarti le ossa piene, forti, dritte, al proprio posto. La tua spina dorsale sosterrà senza sforzo il peso di Bianca come se lei fosse nient’altro che una libellula.
Affonderai le lunghe dita ornate di anelli tra i capelli di Bianca, carezzerai quei fili di seta seguendo con i polpastrelli le vertebre sulla nuca, tra le scapole, il solco nella carne attraverso la scollatura. Tu, Bianca, ti alzerai sulle punte; e tu Micaela avvicinerai il volto al suo. Vi stringerete sempre più, seno contro seno, sesso contro sesso, i vostri nasi si incontreranno, gli occhi si chiuderanno, i respiri si confonderanno. Vi bacerete, lingua nella lingua, e senza staccare le bocche vi stenderete sul divano, vi bace-rete e vi bacerete.
Io intanto accenderò il fuoco: i danzatori gialli si alzeranno da terra e inizieranno sulle pareti una danza tribale intorno a voi.
Tu, Bianca, aiuterai Micaela ad abbassarti il corpetto del vestito di maglia, a sganciarti il reggiseno, e ti lascerai baciare sul collo, leccare tra i seni. Liberi dal reggiseno li sentirai espandersi sotto le ascelle, esplodere tra le sue mani come cose vive.
«Levati la maglia».
Micaela, un fantoccio abbandonato sul corpo di Bianca, la guancia ap-poggiata sul suo seno nudo, non risponde.
«Levatela» ripete Bianca.
Micaela si solleva lentamente, come se una corda la tirasse su, siede a cavalcioni sul ventre di Bianca. Guardandola negli occhi accarezza la cicatrice sul suo seno operato, ne segue i contorni rossastri simili ai confini di una terra.
«Sicura di voler vedere?»
«Sì».
Micaela incrocia le braccia, prende la maglia dai bordi, la tira verso l’alto, la sfila dalla testa. È nuda, da tempo non porta più il reggiseno. La maglia ancora attaccata a un polso sfiora il pavimento e lei cerca di interpretare lo sguardo di Bianca posato sulla mezzaluna incisa sul suo petto. L’altro seno è appena accennato, sembra il busto di un ragazzo magro e sfregiato.
«Ecco» dice Micaela, e si libera scuotendo il polso della maglia incastrata.
Bianca allunga il braccio. Raccoglie nella mano a coppa il piccolo seno, il capezzolo grande e viola in essa scompare.
«Ti fa impressione?» le chiede Micaela.
«No» dice Bianca, spostando la mano su quel che resta dell’altro seno, la passa avanti e indietro come se pulisse un vetro, pizzica dolcemente la pelle molliccia attaccata alla ferita.
Micaela alza una gamba, con un movimento come se scendesse da cavallo la riunisce all’altra e si distende su un fianco. Avvicina le labbra all’orecchio di Bianca, parla sottovoce.
«Il chirurgo voleva salvarmi la mammella, per questo mi ha fatto fare 4 cicli di chemio prima dell’intervento, mi guardava dolcemente… lei è ancora giovane. Invece pochi giorni prima dell’operazione mi ha detto che consigliava di toglierla tutta, ma che la decisione spettava a me. Ho sentito un gran calore in viso, gli occhi restringersi».
«Quante bugie» fa Bianca.
«Gli ho detto faccia quello che deve. Il giorno dell’intervento mi sono presentata in ospedale fresca e pulita, con un bel fazzoletto in testa. Sor-ridevo e tutti mi sorridevano. Sembrava una festa. In un baleno ero in barella, una lucertola calva e fremente dentro una camicina. Mi sono svegliata in stato di grazia: il male era stato estirpato e io avevo salva la vita».
«I dolci dottori» dice Bianca a pugni chiusi «ci guardano con lo sguardo languido per farci accettare più serenamente la macellazione. Io me la sono cavata con la quadrantectomia, però mi hanno svuotato l’ascella. Il giorno prima dell’intervento il mio chirurgo-star mi ha detto che se volevo avrebbe potuto farmi un intervento in contemporanea sull’altra tetta, in modo da eliminare l’asimmetria. E mentre lo diceva mi dava pizzicotti sulla guancia, neanche fosse mio padre».
«Tu cos’hai risposto?»
«Che non se ne parlava».
«Comunque ti ha fatto una cicatrice perfetta».
«Anche la tua ferita è perfetta».
«A regola d’arte» dice ridendo Micaela. Poi diventa seria. «Non è quello che si vede che mi sgomenta, ma quello che non si vede più. Questo vuoto, questa assenza si può mostrare solo a chi ti ama… Mi ami, Bianca?»
«Sì».
«Ami la mia ferita?»
«Sì».
«Io amo la parte mancante sotto la tua cicatrice».
«E l’ascella rattoppata?»
«Anche».
Bianca abbraccia Micaela, così forte che a lei pare di spezzarsi. Poi alza la testa e la guarda negli occhi, dice con voce supplicante:
«Stasera dormi con me? Nel letto, voglio dire».
Micaela tace.
«Non ti preoccupare, vai in bagno, prendi le medicine, ti porto su io».
Bianca sembra un poco un papà e un poco una bambina.
I danzatori gialli si appiattiranno alle pareti, formeranno un girotondo tenendosi per mano, in mezzo a loro l’immagine di un Cristo accolto dalla sua pietosa madre. Tu, Bianca, chiederai a Micaela di farsi piccola e leggera e tu, Micaela, ti rannicchierai come un gomitolo di pelle in braccio a lei. Così, rimpicciolita nella culla di braccia, verrai trasportata sulla scala. Arrivata in cima poggerai i piedi sul pavimento di legno del soppalco, e in un momento, simile a una pianta che trovi spazio per le sue radici, riprenderai le sembianze di bambù. Ti stenderai sul letto e ti parrà immenso. Solleverai il bacino, ti abbasserai i pantaloni, li prenderai e li lancerai lontano.
Tu, Bianca, farai cadere a terra il vestito rimasto impigliato sui fianchi, le maniche si apriranno sul pavimento come braccia inutili, e davanti allo specchio scoprirai il tuo corpo, i seni rinati ondeggianti. Ti volterai verso Micaela, nuda nel letto, lascerai scivolare le mutande di pizzo nero tra i piedi e con un passo te ne libererai.
Tra le foglie degli alberi accalcati alla finestra la luce della luna, un’amaca nel cielo sgombro, tingerà i vostri corpi di bianco.
Tu, Bianca, domanderai:
«Cos’è l’amore, dunque?»
Tu, Micaela, risponderai:
«È solitudine profonda».
Poi ti solleverai su un gomito e ammirerai il triangolo folto di peli biondi sul ventre di Bianca, e con i peli ti metterai a giocare attorciglian-doli intorno alle dita. E non saranno le tue dita, Micaela, dita di uno scheletro, ma zampe di felino dalle unghie argentate. E non sarà la tua vulva, Bianca, una ferita cucita ormai rimarginata, ma un vaso di liquidi fatati. E non sarà la tua colonna, Micaela, una spugna inzuppata, ma un bastone nodoso da montagna. E non sarà, Bianca, la tua pancia un ammasso adiposo, ma una collina a primavera. E non sarà il tuo pube, Micaela, una terra brulla, ma una duna nel deserto all’imbrunire.
Tu Bianca, domanderai:
«Cos’è l’amore, dunque?»
Tu, Micaela, risponderai:
«È la possibilità di una storia senza passato».
Ho continuato a scrivere finché la luce fioca non mi ha fatto male agli occhi. Allora ho soffiato sui mozziconi di candela e ho buttato dell’acqua miracolosa sui carboni rossi nel camino.