di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione
1. Intanto: quali sono i libri brutti? Taglio corto: i libri brutti sono quelli che ci sembrano brutti. Quindi i libri brutti miei non saranno i libri brutti di qualcun altro. Il punto è che ciascuno di noi ha dei libri che considera, più o meno rimediabilmente, brutti. E, tendenzialmente, ciascuno di noi cerca di non leggere i libri (che considera) brutti o, se per caso gli capita di leggerne uno, magari lo abbandona dopo poche o molte pagine, e comunque considererà in futuro quell’esperienza di scrittura grosso modo come un incidente, qualcosa di inutile e da dimenticare. E il punto è anche che ciascuno di noi decide spesso che un certo libro “è brutto” – o, a essere generosi, “è molto probabilmente brutto” – non dico dopo averlo letto, non dico dopo averlo sfogliato, ma semplicemente dopo un’occhiata alla copertina, al titolo e – notiamo – all’editore. E il punto è, infine (tre punti, dunque, che sono alla fin fine un unico punto), che ciascuno di noi ha dei libri brutti che considera brutti perché nel suo milieu, nel suo ambiente, quei libri lì sono considerati brutti, brutti senz’appello, brutti senza neanche bisogno di andare a controllare se lo siano davvero; o, addirittura, perché nel suo ambiente quei libri lì devono essere considerati brutti.
2. I libri brutti, peraltro, possono essere divisi in almeno due categorie: i libri brutti fatti bene e i libri brutti fatti male. Ci sono infatti sia libri che sono tecnicamente ben fatti, o addirittura assai ben fatti, e tuttavia sono brutti (perché, per esempio, la meticolosa applicazione della tecnica si vede; o perché alla buona tecnica si accompagna un’immaginazione stantia, ripetitiva o convenzionale; eccetera) e libri brutti che sono anche tecnicamente fatti male. Non mancano, sia chiaro, anche i libri belli – o almeno: potenzialmente belli – fatti male; ma questo, come si capirà, è un altro discorso. Dal punto di vista dell’editing, per esempio, con i libri brutti non si può fare niente; con i libri potenzialmente belli fatti male si può fare qualcosa, talvolta parecchio.
3. I libri brutti, poi, possono essere divisi in altre due categorie, che non combaciano con le precedenti: i libri brutti pretenziosi e i libri brutti senza pretese o, più spesso, con pretese adeguate. È facile osservare, per esempio, che quasi sempre i libri rosa da edicolo sono brutti: tuttavia è evidente che sono libri brutti le cui pretese sono, di solito, perfettamente adeguate. Non pretendono di essere belli, non pretendono di essere letti da tutti, non pretendono di essere recensiti nelle pagine culturali dei quotidiani illustri, non pretendono di andare in libreria. Pretendono spesso, questo sì, di vendere un bel po’ di copie: e generalmente ci riescono – quindi la pretesa è ben motivata. I libri brutti pretenziosi, invece, spesso pretendono appunto di essere belli, di essere letti da tutti, di essere recensiti eccetera, di andare con successo in libreria: e generalmente falliscono. Talvolta, addirittura, rinunciano in partenza a es. ad andare in libreria – è il caso di molte autopubblicazioni in rete -, ma mascherano la rinuncia proponendola, al contrario, come snobismo: “Io sono un capolavoro, ma il mondo editoriale – con le sue gang, le sue pastette, i suoi interessi incrociati, eccetera – non lo capirà mai; e quindi entro nel mercato nudo e solo, offrendomi umilmente a voi, bravi lettori capaci di riconoscere le mie virtù”. E simili.
4. Naturalmente queste sommarie categorizzazioni hanno le loro, e magari numericamente non irrilevanti, eccezioni. Prendetele (le categorizzazioni, non le eccezioni) per quello che sono: colpi dati col machete per fare un po’ di largo attorno, per definire un punto di vista, per introdurre un discorso.
5. E il discorso è, come annunciato, appunto: che leggere i libri brutti può essere, per chi voglia scrivere dei libri belli, interessante e istruttivo. Divertente no, questo no: spesso è assai noioso. Certo – metto le mani avanti, ancora, anche se sono già a metà dell’articolo – la lettura di libri brutti non può sostituire la lettura di libri belli. Leggere libri belli, o addirittura molto belli, può essere molto formativo per chi voglia scrivere altri libri belli (per esempio, può indurre alla rinuncia: il che, sia detto, non è certo un’opzione disonorevole); può incrementare le aspettative che abbiamo verso noi stessi (può farci diventare incontentabili rispetto al nostro lavoro, il che non è certo un male); può darci modelli altissimi da imitare; e così via. Ma ci sono certe cose, e finalmente veniamo al dunque, che si imparano meglio leggendo libri brutti.
6. Nei libri brutti – ovvero, nei libri che ci sembrano brutti: vedi il punto 1 – troviamo ciò che non vorremo mai che altri trovassero nei libri che scriviamo noi. I libri brutti espongono i loro difetti e i loro errori alla luce del sole: non fanno nulla per nasconderli, o semplicemnte non riescono – come riescono tanti libri belli – a camuffarli. È indubbio, per esempio, che tutti i romanzi di Dostoevskij sono troppo lunghi: ma sono talmente belli che il lettore non ci bada, o neanche se ne accorge, o perdona volentieri. In un libro brutto, anche una sola parola di troppo è veramente di troppo. La lettura dei libri brutti ci insegna, dunque, la necessità di una giusta misura: non troppo, ma anche non troppo poco (nei più bei raccondi di Hemingway, per dire, c’è sempre troppo poco: ma non ce ne rendiamo conto, e anzi siamo attratti dal senso di mistero che si genera proprio per la mancanza di qualcosa: ma quanto brutti sono quei romanzi nei quali ci accorgiamo che l’autore si è dimenticato di fornirci informazioni essenziali?).
7. Nei libri brutti ci sono spesso pagine e pagine nelle quali – ce ne accorgiamo subito, perché sbadigliamo, o ci distraiamo – non succede niente. O succedono cose inutili, cose che non fanno andare avanti veramente la vicenda. Certe scene, per esempio, in cui lui e lei (o lei e lei, o lui e lui) prima litigano e poi smettono di litigare, e magari s’inteneriscono, ma in realtà (è sempre buffo, dire “in realtà” quando si sta parlando di romanzi) non c’è una ragione precisa perché il litigio scoppi, o perché si quieti, o perché si passi dal litigio all’intenerimento. Oppure l’investigatore (mettiamo che si tratti di un brutto giallo) esamina la scena del delitto, o una sequenza di fatti ricostruiti attraverso indagini e interrogatori da lui e/o dai suoi collaboratori, e dall’esame non ricava niente che faccia progredire l’indagine: in un buon giallo si ricaverebbe almeno la sensazione di una mancanza, di un vuoto da colmare, di un’informazione assente, di qualcosa che non torna; in un brutto giallo (o, almeno, in un giallo fatto piuttosto male) abbiamo soltanto la stasi, l’immobilità della storia.
8. Nei libri brutti i personaggi sono, in genere, quello che sono; salvo diventare all’improvviso, in seguito a un incontro o a un trauma o a un caso, tutt’altro da quel che erano. E così noi prima ci annoiamo, quando entrano ed escono di scena questi personaggi sempre uguali a sé stessi, e poi ci scocciamo quando senza preavviso ce li vediamo rivoltati da sotto in su, completamente trasformati. Ecco: leggere libri brutti ci insegna a badare bene ai nostri personaggi, a provvederli di una vera storia, cioè di una storia che sia la storia della loro trasformazione, al di là delle più o meno articolate avventure nelle quali incappano o si gettano. Perché un romanzo altro non è, in fondo, non dico semprissimamente sempre ma quasi sempre, che il racconto di come un personaggio (dei personaggi) che era (erano) così è diventato (sono diventati) cosà.
9. Nei libri brutti si trova sempre un significato. È impossibile non trovarlo: il libro brutto, infatti, si fa in quattro per mettercelo sotto gli occhi, per ficcarcelo nelle orecchie, per infilarcelo su per il naso, per riempircene la bocca. L’unica speranza di salvezza per un libro brutto, infatti – così pensano gli autori i libri brutti, o almeno i più accaniti – è avere un significato importante, profondo, giusto, attuale, e se possibile politicamente corretto o, al contrario, con quei ribaltamenti intenzionali che sono così spesso spie evidenti dell’imbarazzo e del senso di colpa, sfacciatamente politicamente scorretto. E a forza di leggere libri brutti pieni di significato (di significato morale, di significato generazionale, di significato poltitico, di significato religoso o addirittura – orrore! – di significato letterario) impareremo anche noi, che abbiamo come unica aspirazione quella di non scrivere libri brutti, o almeno di scrivere libri non brutti, a tenerci ben lontani dal desiderio di significato: perché – questo appunto impareremo – una storia è una storia, e non è il significato che conta, quanto la storia in sé e, soprattutto, la narrazione che ne facciamo.
10. Infine, nei libri brutti i personaggi parlano sempre con sé stessi. Nella realtà, nessuno di noi parla con sé stesso: parla, piuttosto, con qualcun altro (un figlio, un genitore, un amico, il/la partner, l’analista, il/la mentore, il/la collega, il/la barista, il cane o il gatto, il portachiavi, la propria immagine riflessa). Un personaggio che parla con sé stesso è un personaggio difettato all’origine, da rispedire senz’altro al mittente. L’Ottocento – secolo nel quale i personaggi parlavano continuamente con sé stessi, talvolta addirittura ad alta voce – è finito da centovent’anni, e ormai i personaggi autoparlanti non vanno più bene nemmeno nella più triviale narrativa di consumo. Leggere libri brutti è come un vaccino: dopo aver letto per l’ennesima volta cose del tipo «”Accipicchia”, disse tra sé e sé Giovanni» ci passerà del tutto la voglia di scriverne; no: diventeremo del tutto incapaci di scriverne.
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