L’equadoriana con le valigie (da “La stanza in più” di Manuela Merli)

di Manuela Merli

[Manuela Merli ha scritto La stanza in più nel corso (e un po’ dopo) la prima Bottega di narrazione (2011). Non ha (ancora) trovato un editore, ma nel frattempo si è autopubblicata. Invito i passanti a leggere questo estratto ed eventualmente a procurarsi il romanzo: che secondo me è imperfetto ma bello e interessante. gm]

laStanzaInPiù«Dovrei assentarmi per un'oretta o poco più… devo fare un colloquio…» dissi a Morandotti quel lunedì mattina. Stavolta sarei comunque rientrata prima della fine della giornata lavorativa. Una sorta di break fuori orario.
Sguardo fisso al centro dell'attaccatura delle mie sopracciglia: doveva averlo imparato a qualche corso di aggiornamento sulla gestione dei rapporti interpersonali con i clienti, o di quelle giornate sul marketing di cui non ho mai capito granché.
«Un colloquio?» mi chiese lui. Dallo stupore che leggevo sul suo volto colsi il possibile fraintendimento.
«No no no» mi affrettai a precisare, rafforzando il concetto negando con gli indici di entrambe le mani. «Il colloquio lo tengo io, sono io il datore di lavoro».
«Bella questa» disse il capo distendendosi all'indietro sulla sedia di ecopelle a braccia incrociate sul maglione verde pisello. Gli squillò il telefono a cui pose rimedio con un laconico «Sono in riunione, ti richiamo» per proseguire con me: «Da quando hai un secondo lavoro?».
«Purtroppo nessun secondo lavoro», mordendomi subito la lingua per quel “purtroppo” che potevo risparmiarmi. «Stiamo cercando una badante per mia nonna. Di solito cerco di fare i colloqui alle donne di sabato e domenica, ma quella di oggi non poteva, e dato che siamo prossimi alla disperazione, ho dovuto accettare di vederla subito».
«Capisco. Anche io ho una mamma anziana. Per ora è indipendente, ma sul futuro non si sa mai».
Per fortuna era sensibile alla tematica. Talmente sensibile che proseguì. «Deduco che ne abbiate viste molte di queste donne. Di quale nazionalità parliamo?»
Data la varietà delle nazioni con cui avevo avuto contatto, mi lanciai in una elencazione dettagliata dei paesi che avevano visitato casa mia, con qualche riferimento contestuale sulle singole esperienze maturate. E così avviammo una discussione sul metodo assunzione e gestione badanti, confrontato con la soluzione “casa di riposo”.
«Se non sono indiscreto, quanto spendete al mese per una dipendente?».
Nello spiegare sia il mio caso che le opportunità alternative, del lavoro in nero come di quello regolarizzato, mi resi conto di aver ormai una reale esperienza sul campo. Forse avrei davvero potuto intraprendere un secondo lavoro: un'agenzia di lavoro domestico, per far concorrenza a quelle antipatiche dell'Assistenza Amica.
Ottenuto il permesso di uscita più per pietà che per diritto, alle tre e mezza stimbrai, guidai fino alla stazione e sostai in un angolo a cinquanta metri circa dall'ingresso, in pieno divieto di sosta. Misi le quattro frecce e composi il numero dell'ecuadoriana.
«Dove sei? Io sono nel parcheggio davanti alla stazione con la macchina.»
«Sì sì, io sono…auto?».
«Come?» mi demoralizzavo ad ogni parola che non capivo. Quindi continuamente.
«Auto? Come tua auto?».
«Grigia» e intanto allungavo il collo per vedere se ci fosse qualcuna che somigliasse a una donna dal linguaggio incomprensibile. Finalmente mi resi conto che sarebbe stato più saggio scendere dall'auto e cercare una donna al telefono: e la vidi, era al telefono e si sbracciava. Lei mi aveva già visto ma dall'entusiasmo con cui aveva mischiato le parole che mi urlava nel cellulare non lo avevo capito.
«Ti vedo ora» le dissi, e chiusi la telefonata. Mi avvicinai a piedi verso di lei: era scura di pelle, non troppo alta, di corporatura robusta ma dalle forme rotonde. Massa di capelli ricci neri spinti all'indietro da una fascia color panna, giaccone a fiori rossi e bianchi, pantaloni neri, tacchi a spillo. E occhiali da vista con le lenti ampie e scure. Se non avessi già saputo che aveva più di cinquanta anni, non avrei indovinato la sua età. Era troppo diversa dalle donne che mi arrivavano dall'est tutte con gli stessi tratti somatici.
Per stringere i miei risicati tempi avanzavo verso di lei a grandi falcate assorta nelle mie riflessioni ma vidi qualcosa che mi bloccò a metà strada. Per poco non mi sentii svenire: intorno a lei c'erano due enormi valigie e un beauty. Cosa aveva capito? Di trasferirsi subito da noi? Lo sapevo che non ci eravamo intese, con quel linguaggio astruso mi aveva di certo imbambolato e ora mi sarei ritrovata due badanti a picchiarsi per un posto. Anzi, Maria avrebbe picchiato me per averla tradita, e quest'altra, Maria anche lei, avrebbe picchiato me per averla illusa. E magari avrebbero picchiato anche mia madre, e persino mia nonna.
La tentazione di fare dietrofront e scappare via da quella donna e dalle sue valigie fu forte, ma mi dissi che ormai ero lì, avevo anche buttato un'ora di lavoro, tanto valeva sentire cosa si fosse messa in testa. Le avrei spiegato il disguido e dopo il colloquio l'avrei riaccompagnata in stazione con le sue belle valigie.
Arrivata di fronte a lei le dissi senza sorridere «Ciao, sei Maria?».
«Sì» disse decisa, «Tu come chiamare?».
«Elisabetta» e alzai l'indice come la maestra che impartisce la lezione: «Guarda che io ti porto a casa solo a vedere mia nonna… ma non puoi fermarti da noi subito».
«Io venire da Castelvetro, portato cose, mia sorella tiene».
«Quindi ora vieni solo per il colloquio, vero? Ho capito bene?».
A quel punto lei con una risata fragorosa e un sonoro battito di mani disse: «Io prima vedere lavoro, poi decidere».
Che mi credevo? Non cercava certo asilo politico, e per di più sarebbe stata soltanto lei a disporre della sua sorte.
Rincuorata da quell'inesistente timore, ormai certa di contare meno di zero nelle scelte finali, mi apprestai a svolgere il mio ruolo in tempi brevi: caricammo tutte le sue valigie in macchina, e partimmo. Le spiegai subito la distanza tra casa nostra e la città, lei commentò: «No problema. Io stata Castelvetro e prima Otone».
Ottone era uno degli ultimi comuni della provincia, disperso tra le montagne, a ben più di un'ora dalla città.
«Sì, ero solo io con nonna. Solo orto. Niente c'era. Io abituata».
Molto bene, pensai. 1 a 0 per noi. Il resto l'avrebbe visto da sé.
Arrivate a casa io mi preoccupai solo che Maria-Ucraina non rientrasse in anticipo: erano le 16.20 e lei sarebbe tornata alle 17. Mentre Maria-Ecuador parlava con mia madre, io piantonai il balcone: facevo la vedetta pronta a dare l'allarme nel caso all'orizzonte fosse sbucata la badante in forza. Tagliando la conversazione di mia madre con l'ospite, avrei caricato di forza quest'ultima in macchina e me ne sarei andata dalla parte opposta della via. Provavo a figurarmi la tempistica delle azioni ma più contavo i minuti più mi rendevo conto che in caso di rientro improvviso dell'ucraina sarebbe stato impossibile non far incrociare le due donne.
Ogni tanto rientravo per constatare come procedesse la conversazione, buttando qualche domanda per accelerare i tempi. Mia madre era contenta, mentre Maria non era più allegra come prima. Cos'era successo stavolta? Cosa non andava bene? Dormire in camera con la vecchia? La pausa di due ore? Lo stipendio? Le ferie?
«Maria dice che per lei andrebbe bene il lavoro, ma non capisce perché vogliamo mandare via la badante che abbiamo ora. Crede che siamo cattive. Spiegaglielo anche tu cosa combina questa». Mia madre aveva intravisto uno spiraglio e non voleva lasciarsi scappare l'occasione. Io come al solito pensai che quella era una magra scusa, che in realtà la tipa non ci voleva stare da noi, chissà per quale altra ragione che non ci avrebbe mai confessato. Comunque eseguii il mio dovere elencando le inabilità dell'ucraina.
La donna rimaneva seria, in piedi con le spalle appoggiate all'armadio. Mia madre le chiese: «Quanto vuoi di stipendio?».
Lei rispose «Io prendo soldi come dice ufficio. Come contratto. Come dice Marzia».
«Noi abbiamo fatto un precedente contratto con l'Ufficio Badanti, e Marzia ci ha sempre consigliato novecento euro più gli straordinari».
«Allora va bene. Io faccio come contratto».
«Il giorno libero quando lo fai?» chiesi io, che avrei nuovamente dovuto riprogrammarmi il tempo libero.
«Sabato e domenica».
Dovevo aver capito male. Parlava ostrogoto, non poteva essere corretta nei termini proprio ora.
«Come scusa? Sia sabato che domenica?». Guardai mia madre che non fece commenti. Mi stava abbandonando. Quella donna le piaceva e non le importava se per tenersela io avrei dovuto sacrificare tutto il mio weekend.
«E io come faccio? Sto in casa due giorni a fila?».
Maria non fiatava. Mia madre le chiese: «Come si può fare? Non hai nessuno da metterci almeno di sabato al tuo posto?».
«Ho amica che può venire. Se chiedo lei viene», ma era sempre più perplessa.
«Sai che la Maria ha fatto l'infermiera? E ha detto che a spostare la nonna non c'è problema, vero?».
«Sì io infermiera e anche quella che fa nascere bambini».
«E delle ore di pausa le hai detto?» chiesi a mia madre.
«Dice che non esce durante la pausa, preferisce un intero pomeriggio libero alla settimana così può andare a Piacenza da sua sorella».
Questa tipa aveva abitudini ancora diverse da quelle a cui ci eravamo faticosamente adattate. C'era da ridefinire orari e ritmi. Ma mi resi conto che il tempo a nostra disposizione stava scadendo, e che non avevo più controllato la strada. Corsi sul balcone, non si vedeva nessuno. Rientrai in camera e dissi «Io dovrei tornare al lavoro… cosa hai deciso Maria?».
«Dice che viene» annunciò trionfante mia madre.
«E per il fine settimana?» insistetti io.
«Sento mia amica se può venire».
«D'accordo, ma ora dobbiamo proprio andare» dissi a tutte.
Le donne si salutarono, io risalii al volo in macchina e mi affrettai a farci entrare anche la nuova Maria. Durante il tragitto verso la stazione mi raccontò di aver lavorato anche a Rottofreno, il paese dopo Sarmato. Le era tornato il buon umore, così mi parlò delle sue vicissitudini in Italia, dei luoghi che aveva visto, era stata persino a Napoli. Non tutte le sue frasi mi erano chiare cosicché ogni tanto me le facevo ripetere, mentre altre volte buttavo un «Eh?», o lasciavo correre, sperando che quei precisi concetti non richiedessero risposta. Nonostante lo stile maccheronico, Maria srotolava parole velocemente; era allegra e non era necessario sforzarsi per trovare gli argomenti. Aveva due nipoti che vivevano a Piacenza da anni e di cui andava fiera perché frequentavano le superiori con ottimi risultati. Mi parlò di tante cose che la strada sembrò persino più breve. Lasciai lei e le valigie con la promessa che ci saremmo sentite solo per definire il giorno di inizio lavoro.
Mi salutò con uno squillante «Ciao» e si allontanò dalla mia auto con passo sicuro nonostante i pesanti fardelli che teneva in equilibrio sui tacchi a spillo.
Le mie preghiere avevano dato frutto. Almeno i frutti sperati fino ad allora. Dei frutti successivi me ne sarei occupata più avanti.

Nel frattempo mia madre aveva annunciato a Maria ucraina che se ne doveva andare.
«Le ho raccontato che porteremo la nonna al ricovero. Ha pianto tutto il giorno, ma io non posso farci niente».
Salii le scale. Maria era davanti allo specchio del bagno.
«Come va?» le chiesi.
Lei non rispose, mi guardò di traverso, aveva gli occhi rossi e il fazzoletto sotto al naso. Non si girò. Stava ammirando le proprie sofferenze?
«Mi spiace…» sussurrai.
Lei balbettò singhiozzando: «Non c'è fortuna per me. Prima vecchia muore, ora qui non posso stare» e scoppiò in un pianto a dirotto. Cercai di calmare quelle spalle che andavano su e giù al ritmo dei singhiozzi, ma in che modo? Già era complicato trovare parole che lei conoscesse, ma anche trovandole, come potevo essere credibile? Eravamo noi la causa delle sue lacrime.
Di colpo mi assalì una rabbia cieca. Odiavo veder soffrire le persone, soprattutto quelle anziane che non se la sapevano cavare da sole. Quella donna aveva bisogno di protezione, di aiuto, di qualcuno che le spiegasse come fare la badante. Me la presi con chi l'aveva convinta a lasciare i suoi paesi freddi per venire qua, senza dirle che non poteva limitarsi a stare vicino all'anziano, a guardarlo o a fargli da dama di compagnia. Me la presi con lei, perché non aveva capito nulla di quello di cui noi avevamo bisogno. Era buona ma testona, e quelle paure di far tutto la rendevano ancora più vulnerabile. E quindi irritante. Potevamo permetterci di pagare una donna che andava a sua volta curata? No.
Questo lavoro era troppo veloce per lei, lei abituata a ritmi lenti, cibi diversi, ad abitudini nuove; non aveva né l'età né l'apertura mentale per adattarsi ad un ambiente così diverso dal suo.
Mi stupii di sentirmi le lacrime gonfiarmi gli occhi, abbandonai la badante a rimirare le proprie disgrazie davanti allo specchio, presi la scala come una furia e scendendo da mia madre che stava disponendo la tovaglia per la cena, le urlai: «Basta così. Non ho più intenzione di assistere a scene del genere. A donne anziane che piangono disperate e dicono che per loro la fortuna non esiste».
Mia madre si interruppe restando con un piatto vuoto in mano, mi guardò sorpresa per quell'inaspettato sfogo. Poi depositò il piatto sulla tavola e si mise con le mani sui fianchi: «Non stai bene?».
«Non ne posso più di questo via e vai, di noi che proviamo le persone come se fossero elettrodomestici, che se non vanno come vogliamo li buttiamo nella pattumiera». Le lacrime scendevano senza ritegno, privi di argini che frenassero il mio sentirmi ridicola.
«Non è colpa nostra se non sa far niente. E' colpa sua».
Svuotai la testa di tutto quel che c'era dentro: «Ma non la vedi? Non sa niente! Non si rende nemmeno conto di cosa vuol dire fare la badante! Pensa di dover fare la dama di compagnia! Chissà cosa le hanno raccontato prima che partisse». Ero rabbia, allo stato puro.
«Non è colpa nostra» ripeteva mia madre.
«Sì invece. Chiamiamo a vivere qua chiunque passi per strada solo perché qualcuno, per sentito dire, ha detto che “è brava”. Anche di Masha dicevano fosse brava. Era brava, remissiva, era talmente gentile che andava a prostituirsi. Anche Gabriella era così brava che ti ha riempito di balle. La gente fa presto a dire “brava”. Cosa vuol dire “brava”? Che non ruba? Che non si ubriaca? Che non ti strangola intanto che dormi? Perché per il resto di azioni delle brave ne abbiamo viste a volontà. Tanto chi ti propone queste disperate poi mica ci vive, le osserva solo da lontano. Magari per qualche pettegolezzo da bar».
«C'è da fidarsi di quello che dicono. Se ne sentono tante che rubano e si ubriacano. Ad esempio quella della Lucia…».
«Non la voglio sentire la storia della Lucia. Se noi siamo così fortunate, perché le cambiamo così di frequente? Anzi, non voglio sentire più parlare di badanti. Non mi fido più di nessuno. E vedremo questa qua dell'Ecuador. Anche lei sembra brava, ma chissà che problemi ha. L'unico lato positivo è che ce l'ha consigliata il sindacato, e quindi c'è una tracciabilità del suo passato». Nonostante il mio delirante monologo, l'idea di avere la promessa dell'ecuadoriana mi calmò.
«Siamo costrette a fidarci».
«Da chi siamo costrette?». Ma ero stanca di urlare, piangere, discutere.
A cena Maria rimase zitta e imbronciata, come era normale che fosse. Chissà con chi aveva deciso di prendersela. Di certo ormai per lei eravamo il nemico. Per sfuggire da quella tensione mangiai in fretta e me ne andai a letto presto. A pregare, che ce la mandasse buona.
E stavolta brava, davvero.

La nuova Maria ci chiese se poteva trasferire un po' della sua roba da noi prima di iniziare a lavorare. Avremmo ospitato le cose di Maria-Ecuador, tenendole opportunamente nascoste, in compresenza con quelle di Maria-Ucraina.
Il trasferimento sarebbe avvenuto alle tre del pomeriggio a metà strada, sulla via Emilia, la via più trafficata della provincia. Maria-Ecuador sarebbe arrivata in pullman con qualche valigia che avremmo caricato alla volta di casa nostra e poi sarebbe tornata a Piacenza così come era venuta.
Il pullman si fermò a lato della strada, quello opposto rispetto al punto in cui potevamo sostare per aspettarla. Maria scese trascinando due valigie pesanti e un beauty. La stessa mercanzia che avevo già trasportato dalla stazione a casa mia per il colloquio. Quanti viaggi si erano fatti quelle valigie?
Appena Maria ci vide ci salutò con enfasi sbracciandosi e saltellando, si girò prima a destra poi a sinistra a cogliere l'attimo giusto per attraversare la strada e raggiungerci.
Gettò uno sguardo alle strisce pedonali, ma probabilmente le ritenne a una distanza eccessiva. Con uno scatto atletico iniziò a correre dal punto in cui si trovava con le valigie appresso. Appena io e mia madre scorgemmo che la sua corsa avveniva su un paio di scarpette rosse suggellate da improbabili tacchi a spillo, le corremmo incontro e ci ritrovammo a metà strada, anzi, a metà strada provinciale, ben consapevoli del pericolo di essere travolte tutte e tre dalla velocità delle auto che su quel tratto non erano certo avvezze ad avere ostacoli.
La nostra irruenza sorprese Maria che avrebbe voluto fondersi in un abbraccio lì, sulla via Emilia, incurante del rischio, e spalancò gli occhi quando io e mia madre afferrammo una valigia per ciascuna quasi strattonandola dalle sue mani e con una camminata veloce ci dirigemmo verso il marciapiede.
Anche Maria cambiò registro adeguandosi prontamente al nostro ritmo e non ce ne occupammo più fino a pochi metri dal marciapiede quando udimmo un incespicare di tacchi e un tonfo. Ci girammo di scatto: Maria giaceva in mezzo alla strada, per un istante che ci parve eterno: avevamo preservato le valigie, ma che ce ne saremmo fatte dei bagagli senza la proprietaria? Peccato, proprio ora che ne avevamo trovata una che sembrava affidabile. La dinamica della scena era stata per lei talmente veloce che aveva inciampato ed era volata gambe all'aria.
Per fortuna in quel momento non sopraggiunsero auto e la quasi vittima con un abile guizzo si rialzò, raggiunse barcollando il marciapiede, per poi scoppiare in una risata che festeggiava lo scampato pericolo.
Mia madre scuotendo il capo, si limitò a dire: «Maria, in casa noi abbiamo le scale. Le hai viste vero? In casa usi le ciabatte e non i tacchi, vero?».
«Sì sì signora Rosanna, tranquilla signora Rosanna», ma non smetteva di ridere, mentre si spolverava gli abiti con entrambe le mani. «Che spavento! Che caduta!».
Mia madre non riusciva a ridere, di sicuro stava cercando di immaginare a quali altre diavolerie avrebbe assistito. Ma sapeva che una volta ancora anche l'immaginazione non le sarebbe bastata.