Che cosa diavolo succede in una Bottega di narrazione, ovvero: “As an old memoria”, racconto di Mimmo De Musso con cronaca di lavorazione

[Che cosa trovate in questo articolo? Nell’ordine: il racconto As an old memoria di Mimmo De Musso, partecipante alla Bottega di narrazione; una cronaca del lavoro fatto su quel racconto, scritta sempre da Mimmo De Musso; e alla fine il racconto As an old memoria nella sua versione cosiddetta “originale”, ossia precedente al lavoro di Bottega. Buona lettura. giulio mozzi ]

As an old memoria
di Mimmo De Musso

Come/

Senza pensare a niente in particolare, spense lo stereo. Scese le scale che dalla sua camera portavano alla sala da pranzo. Sul pianerottolo si fermò e fissò il muro davanti a sé.
In sala da pranzo, guardò fuori dalla porta-finestra, verso le montagne. Le nuvole sembravano panna montata. Un pensiero banale. Andò in cucina.
Guardando nell’ingresso, Sergio vide una scarpa. Una gamba. Pensò che era strano: suo padre doveva essere in negozio; alle quattro del pomeriggio solitamente lo era.
Anche senza capire quello che il padre stava dicendo, notò il tono della sua voce, dolce e quasi da donna, un tono troppo compiaciuto e sottile per rivolgersi a un amico.
A diciassette anni Sergio non aveva mai detto “ti amo” a una ragazza. Quando lo sentì dire da suo padre, seguito dal nome di una donna che non era quello di sua madre, gli si rivoltò lo stomaco.
Si affacciò sulla soglia dell’ingresso. Il padre si accorse di lui, appoggiò la cornetta sullo sterno e farfugliò: “Sergio.”
Sergio tornò in camera e riaccese lo stereo.

As you are/

Sergio soffocò un rigurgito, assorto nel lavorio della digestione, e si massaggiò lo stomaco; si coprì la bocca con il pugno, e guardò il padre che, seduto al suo solito posto a tavola, giocherellava con la forchetta e gli avanzi accantonati ai margini del piatto, dando di tanto in tanto uno sguardo alla tv, che balenava nella sala da pranzo.
“Tu dimmi perché agli attori nani danno solo la parte degli gnomi di Natale”, disse il padre. Raschiò la forchetta sul piatto.
Sergio trasalì.
“Cosa?”
“Praticamente per tutto il resto dell’anno non lavorano.”
Sergio si voltò verso lo schermo.
“Elfi. Si chiamano elfi.”
“Sempre bassi sono”, disse il padre. Cercò il telecomando, lo prese e cambiò canale.
Carlo Conti disse: “La risposta potrebbe essere esatta, ma chissà”. Ammiccò: “Pubblicità.”
Sergio chiuse gli occhi e si massaggiò la radice del naso.
“L’aspirina è nell’armadietto, in sgabuzzino.”
“Mi sa che è la digestione che mi fa venire il mal di testa.”
“Tua madre sposta sempre le cose.”
Sergio soffocò un altro rigurgito.
“Mangi sempre troppo in fretta.”
Sergio sospirò.
“Tu non hai mangiato quasi niente”, disse.
Il padre lasciò la forchetta e batté una mano sul dorso dell’altra. Sergio guardò le nocche di suo padre farsi bianche mentre stringeva lentamente, ma forte, le dita dell’altra mano.
“Te la metti, la pomata?”, disse Sergio.
Il padre allentò la presa e distese tutt’e due le mani sulla tovaglia, osservandole.
“L’anno scorso non si sono crepate. Ormai non la uso più.”
“A me cominciano a creparsi.”
“E allora devi cominciare a usare la pomata.”
“Invecchio.”
“Eh. Frutto dell’esperienza dei pescatori norvegesi”, fece il padre. Sorrise. Tornò ad ammonticchiare i pezzi di carne ai bordi del piatto. Afferrò la bottiglia scura che era sul tavolo, la soppesò, e la inclinò per scrutarne il fondo. Si versò due dita di spumante: più schiuma che altro, che scendeva lentamente sul fondo del bicchiere. Aspettò che la schiuma dileguasse, con il bicchiere a mezz’aria; guardò il televisore e poi suo figlio.
“La gente si è divertita, no?”
“Quella che non è rimasta fino alla fine.”
“Hanno mangiato bene. Hanno bevuto tanto.”
Sergio si alzò, cauto, facendo una smorfia e tenendosi lo stomaco.
“Bevuto hanno bevuto.”
Camminò tra i piatti e i bicchieri in frantumi che erano sparsi sul pavimento, cercando di evitare le macchie di sugo, le verdure sfilacciate, i pezzi di carne che costellavano il parquet e che nessuno si era dato pena di raccogliere.
“Si sono divertiti”, disse il padre.
“Ma come cazzo fai a dire una cosa del genere?”
“Sei arrabbiato?”
“Hai le scarpe slacciate”, disse Sergio.
“Lascia stare le scarpe. È un periodo che non ce la faccio a fare nulla.” Il padre soppesò di nuovo la bottiglia, e la ripose subito sulla tavola. “Come ti va la vita?”
Sergio trattenne il respiro. Ripensò alla telefonata che aveva ricevuto due giorni prima. Sua madre che come quasi ogni domenica pomeriggio, sola in casa, si godeva gli unici venti, trenta minuti a settimana con suo figlio.
“Speriamo che il Milan vinca, stavolta. Così tuo padre non torna incaz-zato.”
“Quando crescerà?”
“Lascialo stare, poverino. Ha i suoi affanni.”
“Affanni.”
“Sei sempre così duro con lui.”
“Cazzi suoi.”
“Sembrano più i tuoi.”
“Può essere.”
“Sergio. Tuo padre sta male.”
Sergio aveva tossicchiato.
“Tumore. All’intestino. Gliel’hanno trovato un mese fa.”
Sergio aveva schioccato più volte la lingua; la bocca era diventata improvvisamente arida.
“Sono cinque anni che non vieni a casa.”
“Lavoro.”
“Viene anche Anna?”
“Non lo so.”
“Come sta?”
“Lavora.”
“Per lui sarebbe importante. Farla conoscere alla famiglia.”
“Anna non si sentirebbe a suo agio. E nemmeno io.”
“Dopodomani lui fa sessant’anni.”
Erano rimasti un po’ in silenzio.
“Lui lo sa?”, aveva detto Sergio.
“Eccome. È da due mesi che continua a dire che sta diventando troppo vecchio.”
“Mamma.”
“Non lo so se lo sa. A me l’ha detto il dottore. Tuo padre non mi ha detto nulla.”
“Lo sa o no?”
“Ti ho detto che non lo so.” Sergio aveva sentito il respiro di sua madre. “Credo di no. No.”

As you were/

Il giorno in cui Sergio era partito per Torino compiva diciotto anni. Il cielo si stava addensando di grigio, anche se le previsioni del tempo avevano mostrato il disegno di un sole pieno e giallo. Sergio aveva comunicato la decisione ai suoi il giorno prima: aveva già pensato a tutto, aveva trovato una stanza e un colloquio per un lavoro che non gli sembrava difficile da superare. Sua madre aveva cominciato subito a piangere. Suo padre gli aveva poggiato una mano sulla spalla e gliel’aveva stretta energicamente. Sergio si era irrigidito e aveva sentito la presa di quelle dita anche dopo che suo padre l’aveva allentata. Si era immaginato che le orme di quelle dita non se ne sarebbero mai andate, che quelle cinque fossette rimanessero impresse per sempre, le impronte digitali di suo padre per sempre riconoscibili, come marchi a fuoco.
Il giorno della partenza, sua madre non aveva avuto il cuore di vedere suo figlio andar via e così Sergio era stato accompagnato alla corriera solo dal padre. In macchina, durante il tragitto, Sergio aveva osservato il braccio del padre che sporgeva dal finestrino aperto e si sollevava ogni tanto per salutare qualcuno, la brillantina sui suoi capelli, i suoi occhi incollati alle donne che camminavano per strada. Aveva subito disprezzato quelle donne, e gli uomini che rispondevano al saluto di suo padre. E poi tutti quelli che abitavano in paese, e il paese stesso. Aveva pensato che se non se ne fosse andato, sarebbe diventato come suo padre.
Dopo averlo aiutato a caricare i bagagli, il padre gli aveva detto: “La vita va avanti.”
Sergio non aveva capito a quale vita si era riferito, e per tutto il viaggio aveva continuato a massaggiarsi la spalla con un senso di confusione e stanchezza.
Per cinque anni non era più tornato a casa. Aveva trovato lavoro come commesso in una grande libreria in centro, e in una festa aveva conosciuto Anna, amica di un amico. In un lasso di tempo che gli era sembrato fosse volato, si erano baciati, avevano fatto l’amore, aveva deciso di convivere, avevano continuato a fare l’amore, avevano aspettato un bambino, l’avevano perso, lui era stato licenziato e lei si era laureata. Sua madre aveva visto Anna una sola volta, in una foto che la ritraeva insieme a lui, fatta in una gita in montagna. Dopo averla ricevuta, sua madre aveva detto a Sergio che assomigliava sempre di più al padre.
Sergio le aveva parlato di tutto quello che era successo a lui e Anna durante le loro telefonate domenicali, ma aveva preteso che né lei né suo padre andassero a Torino per consolarli o chissà che, e che quello che era accaduto non dovesse riguardare altre persone oltre a lui e Anna.
Quando aveva saputo del tumore, Sergio si era guardato intorno, con il telefono appoggiato sullo sterno, in cerca di Anna, anche se sapeva che Anna era in studio. Ammirava Anna. Dopo che avevano perso il bambino, si era buttata anima e corpo nel lavoro, aveva continuato a seguire corsi di specializzazione, convegni sulle tecniche più avanzate di logopedia, e conservava quaderni di appunti in una cassetta sulla quale aveva messo un’etichetta con su scritto “Lavoro”. Lui continuava a mandare curriculum in giro, senza troppa convinzione. Lui lasciava le cose a metà, così gli diceva Anna. Era stata capace di annullare il dolore, concentrandosi sui suoi pazienti, che erano quasi tutti bambini. Sergio si era chiesto spesso se l’amore con cui lei lavorava era quello che era nato insieme al feto e che, una volta abortito, aveva continuato a crescere e chiedeva disperatamente di essere dedicato a qualcun altro, o se Anna aveva abortito quel sentimento insieme al bambino, l’aveva sepolto dentro se stessa o estinto del tutto, e quei bambini non erano altro che piccole pubblicazioni scientifiche viventi, esperimenti sui quali esercitare tutte le teorie imparate dai testi per arrivare al miglior risultato possibile.
Ancora con il telefono in mano, Sergio aveva pensato che non era una cosa bella non sapere se la propria compagna fosse piena d’amore, o totalmente priva.
Aveva guardato dalla finestra, e aveva seguito per un po’ i movimenti della gente in strada; guardando quelle persone si era chiesto se erano consapevoli di tutto quello che succedevo loro e aveva provato il desiderio di indagare a fondo le vite di tutti, di scoprire chi era stato appena licenziato, chi tradiva la propria moglie, chi aveva perso un bambino, chi aveva un tumore e non lo sapeva. Ma poi si era reso conto che in qualche modo aveva immaginato, anzi no, sperato che tutte quelle persone vivessero la stessa vita sua, di Anna, di suo padre e di sua madre.
Aveva sentito l’impulso di correre in strada e svelare a tutti le cose brutte che non sapevano di avere, e per un attimo il pensiero gli era sembrato piacevole, quasi un sollievo dalla confusione che provava in quel momento, ma subito dopo si era sentito cattivo, ingiustamente cattivo. Cos’aveva fatto di male quella gente?

As I Want You To Be/

“Come ti va la vita?”
“Mi va che sto qua con te. A questa festa”, disse Sergio.
“Dovevi venire a vedermi invecchiare.”
Il padre guardava un punto tra gli occhi di Sergio.
“Come sta Anna?”, disse.
“Lavora.”
Il padre distolse lo sguardo e scrutò ancora le sue mani.
“Sta bene”, disse Sergio.
“E tu?”
“Guarda che hai combinato.”
Il padre si alzò, lento, e sollevò cautamente dal pavimento un bicchiere rotto e un pezzo di vetro. Li avvicinò.
“Sei impazzito, papà. Hai detto delle cose orribili. Gli invitati erano terrorizzati.”
“Te lo ricordi Pasquale? Il meccanico?”
“Che c’entra, adesso?”
“Be’, un po’ di mesi fa mi si sfascia la Punto. Qualcosa al motore. Vado da Pasquale. Sai che ha l’officina un po’ fuori. Non so come ci arrivo, con la Punto in quello stato e tutto. Suono al cancello. Si apre e mi avvio con la macchina nel viale. Te la ricordi, l’officina di Pasquale, no? Apri il cancello, c’è il viale, che è tutto pietre e terra, e poi lo spiazzo, dove ci sono le macchine da riparare. Esco dalla macchina e mi guardo intorno. Non vedo Pasquale. Faccio per andare nell’officina, quando mi fermo. Non sono sicuro di averlo visto, ma l’ho visto.
Un leone. Lì, sdraiato a pancia in giù sul tetto di una macchina. Un leone, ti dico, con la criniera e tutto. Sta lì a fissarmi, ma sembra che non mi veda, e se mi vede comunque non gliene frega niente. Ma è un leone. Come quelli che si vedono in tv. Sto lì a guardarlo, impietrito. Insomma, che cosa avresti fatto tu? Saresti scappato, certo, ma non prima di essere rimasto lì come un cretino a chiederti se quello è un leone e se è davvero un leone a chiederti che cazzo ci fa lì, nell’officina di Pasquale.
In quel momento esce Pasquale. ‘Pasquale’, gli faccio. Non si dire altro. ‘Che bestia, eh?’, fa lui, e io capisco subito che per lui è normale. Il leone nella sua officina è completamente normale.
‘È un leone’, faccio io. ‘Certo che è un leone’, fa lui, ‘sta di guardia. È vecchiotto, però. Sai, me l’ha portato mio cognato. Non sapeva che farsene.’ Ah, se te l’ha portato tuo cognato, penso io. E penso anche ‘Quello è un leone, Cristo santo. Dovrebbe stare nella savana, a fare il re, a mangiarsi le gazzelle, a ruggire. A spaventare a morte le giraffe, o che cazzo ne so io.’ E invece se ne stava lì, nello spiazzo di Pasquale, con gli occhi spenti. Perché nessuno sa più che farsene. ‘Perché non fa nulla’?, penso io. ‘Perché non ruggisce, non si mangia quel coglione di Pasquale.’ ”
Il padre si asciugò un angolo della bocca con il dorso di una mano.
“I leoni”, riprese. “Non dovrebbero invecchiare.”
Sergio guardò fuori. Le montagne erano diventate più scure del cielo, e alcune stelle erano nascoste dietro il profilo. Il padre gettò sul pavimento il bicchiere e il coccio di vetro, si avvicinò alla porta finestra, la aprì e uscì sul balcone. Sergio lo seguì. Si strinse al collo il colletto della camicia. Cercò qualche luce, in tutta quell’oscurità, ma non ne trovò.
“Non sei abituato alle montagne, lassù, eh?”
“Vedo le Alpi tutti i giorni.”
“Abiterai in mezzo alla città. Non c’è buio, in città. Le Alpi non sono queste montagne. Ti ricordi quando ti portavo a caccia?”
Sergio ricordò la prima volta che aveva visto un cane riportare un uccello colpito. Ricordò quanta fatica aveva fatto a non scoppiare a piangere, quando il padre si era accorto che l’uccello non era morto e gli aveva spezzato il collo. Aveva poi pianto in macchina, tornando a casa con suo padre. Ricordò di essersi sentito debole e di essersi vergognato, perché suo padre aveva riso.
“Avevi sempre paura”, continuò il padre.
Sergio lo osservò curvarsi sulla ringhiera del balcone e guardare lo spazio scuro che si allargava davanti e sotto di loro. La luce che proveniva dall’interno illuminava la sua schiena e i capelli bianchi impomatati come sempre.
“Stai morendo, papà”, disse. “Hai un tumore.”
Sentì che stava per vomitare. Si controllò. Respirò a fondo.
Il padre non si mosse.
“Sai, la storia del leone non è finita”, disse il padre. “Vicino alla macchina dove s’era sdraiato c’era un cane. Un bel cane. Un furia. La cosa buffa era che il cane era legato. Così in forma, era lui che doveva fare la guardia, non il leone. Ho chiesto a Pasquale. Lui mi ha detto: ‘È troppo giovane. Poi mi scappa.’ Il cane era impazzito dalla rabbia. Tirava quella corda, e tirava, e tirava, e tirava.”
Il padre afferrò la ringhiera del balcone, guardò in basso, si sporse in avanti.
I fari di un’auto apparvero in lontananza, serpeggiando tra gli alberi; i due fasci di luce occhieggiarono a intermittenza tra la vegetazione nera, si inseguirono, sobbalzarono, non si raggiunsero mai, e sparirono nella notte.
Sergio guardò dritto nel buio che aveva inghiottito tutto; le montagne, il paese, il balcone, le stelle fisse, l’universo: tutto era presente, ma pesante, e imperscrutabile. Irraggiungibile, ormai.

As an old enemy.

* * *

Cronaca di una lavorazione
di Mimmo De Musso

Questo racconto è stato scritto nel febbraio del 2012 e originariamente si intitolava Un vecchio leone.
In questi due anni ha avuto una sua storia; appena finito è stato letto da Matteo B. Bianchi (il quale aveva già visto alcune cose mie), che aveva trovato una problematicità di “messa a fuoco” e di “vaghezza eccessiva”: non si capiva bene cosa fosse successo tra il protagonista e il padre. Inoltre, il monologo del padre sul leone era più sfilacciato di quello della versione, diciamo così, ultima.
Così ho sistemato questi aspetti, rendendoli più puntuali.
In seguito, ho inviato il racconto (diventato As an old memoria) alla rivista online Cadillac, che lo ha pubblicato nel suo quinto numero.
Dopo un paio di anni, ho deciso di inviarlo alla Bottega di narrazione insieme ad altri tre racconti, come parte di un progetto editoriale che puntava a diventare una raccolta di racconti.
Fortunatamente, il progetto è stato reputato degno di un lavoro in “Bottega” con Giulio Mozzi e Gabriele Dadati.
E qui ha avuto la sua trasformazione più evidente e, pian piano, ha preso la forma che leggerete.

Per prima cosa, durante la primissima lezione della Bottega, Giulio ha letto davanti a tutti i “bottegai” l’attacco di due dei miei racconti, tra i quali, appunto, As an old memoria.
Ciò che è venuto fuori da quella veloce lettura è stata la complessiva ingenuità dei racconti, ingenuità che aveva il suo aspetto più evidente nel rischio di “macchiettismo” dei loro personaggi, un’eccessiva meridionalità folcloristica che annacquava l’efficacia della scrittura e delle storie.
Un paio di settimane dopo, in un incontro privato molto intenso, Giulio mi ha mostrato il suo lavoro fatto sulle prime tre pagine di As an old memoria. Per la prima volta in vita mia ho assistito a un lavoro di editing su di un testo, e in particolar modo su uno dei miei.
Frase per frase, Giulio mi ha spiegato come in pochi passaggi si possano descrivere situazioni e stati d’animo che prima erano resi in modo troppo “pesante”; un rapporto tra due protagonisti può essere molto più efficace se mostrato con poche battute di dialogo, invece che raccontato in una frase in terza persona lunga sei righe.
Infine, Michele, il padre di Sergio, è diventato semplicemente “il padre”.

Tre pagine in quattro ore: un’esperienza sfiancante e in qualche modo esaltante, messo com’ero a diretto contatto con i difetti della mia scrittura, ma anche con le sue potenzialità.
Riporto parte della mail che Giulio, dopo il nostro incontro, ha scritto a tutti i “bottegai” nella nostra mailing list:

“Abbiamo potuto notare alcune cose ricorrenti, a es.:

* la tendenza di Mimmo a fare degli «hysteron proteron» ossia a mettere l’effetto dopo la causa, ciò che viene dopo prima di ciò che viene prima, eccetera (esempio per spiegarsi: «Attraversò la strada dopo aver guardato a destra e a sinistra»). Non c’è niente di male se si fa qualche hysteron proteron qua e là; c’è qualcosa di male se in una pagina se ne trovano quattro o cinque (esercizio: cercàteli).

* una piccola difficoltà di Mimmo a posizionare esattamente i personaggi nella scena. A es., provate a domandarvi come si è mosso esattamente nella casa il giovane Sergio prima che il padre si accorga di lui.

* qualche difficoltà a collocare con esattezza (nel tempo e nello spazio) le microsequenze di eventi. A es. all’inizio: «Mentre scendeva le scale che dalla sua camera portavano alla sala da pranzo, per un attimo Sergio si era fermato e aveva fissato il muro davanti a sé». Dove abbiamo osservato che se Sergio fissa il muro davanti a sé, ciò comporta che la scala abbia un pianerottolo, e quindi si può scrivere qualcosa del tipo: «Scese le scale che dalla sua camera portavano alla sala da pranzo. Sul pianerottolo, fissò il muro davanti a sé: così abbiamo qualcosa di più «visivo». (Anche: «Sul pianerottolo, prima di voltarsi, fissò» ecc.).
O anche, poco dopo: «Arrivato in sala, aveva guardato fuori dalla porta-finestra, verso le montagne, censurando un pensiero banale: le nuvole sembravano panna montata». Quando poche righe dopo si dice che in sala è acceso un abat-jour (Mimmo: ho controllato, hai ragione tu, è maschile), e quindi si ha penombra. In realtà Mimmo pensava a un’ora di un pomeriggio d’inverno, quindi con poca luce, e quindi come si fa a vedere delle nuvole che sembrano panna montata?, ecc.

* una certa tendenza a partire, di tanto in tanto, per la tangente. A es. quando (prima sezione): «Poi si era diretto nel cucinino. Sete. Voglia di succo di frutta. Voglia di finire presto il liceo. Voglia di cambiare città. Voglia di diventare qualcun altro. Credere in qualcosa», dove Mimmo tenta di dire tutto del personaggio (cioè di dire tutta la dinamica nella quale è preso) cavandosela con queste poche parole generiche. (Abbiamo semplicemente pensato di togliere).
Oppure, più vanti, tutto il capoverso: «Suo padre lasciò la forchetta e batté una mano sul dorso dell’altra. Sergio guardò le nocche di suo padre stringere lentamente, ma forte, le dita dell’altra mano, fino a farsi bianche; osservò le piccole rughe tra quei tendini, con un’attenzione che lo avrebbe sorpreso, giorni dopo, nella sua cucina di Torino, quando gli sarebbero tornati in mente così vividi quei leggeri solchi e, con un sentimento simile all’affetto, ma più vicino alla nostalgia, avrebbe ricordato come, ogni inverno, anni prima, gli raccomandava di spalmarci sopra una pomata frutto dell’esperienza dei pescatori norvegesi, se non si sbagliava, perché con il freddo si sarebbe arrossati, poi spaccati, e infine avrebbero sanguinato», che per Mimmo (l’ha detto lui) serviva solo a dire che Sergio sta a Torino. Troppa grazia! Senza contare che tutto quell’avanti-indietro nel tempo, in un racconto che già presenta svariati avanti e indietro di suo, fa solo confusione. (La cosa non è male in sé, sia chiaro; tutta la «Ricerca del tempo perduto» è fatta così; ma lì è appunto un fatto strutturale).

E forse altre cose che ora dimentico.

Abbiamo lavorato parecchio sul dialogo della seconda sezione; cercando di migliorare una caratteristica della prima parte (i due parlano senza dirsi niente; sono battute a vuoto), che dice bene com’è in quel momento la relazione tra i due; e cercando di inserire nel dialogo stesso la «svolta», ossia quel sentimento «simile all’affetto, ma più vicino alla nostalgia» che è accennato nel capoverso appena citato.

Abbiamo tolto qualche inavvertenza come:

– “La gente si è divertita”, disse, bevendo.

(Provate voi a parlare mentre bevete…).”

Già, provate voi a parlare mentre bevete.
A casa ho riguardato la seconda metà di As an old memoria (e ho dato un’occhiata agli altri racconti) ed è stato come scoprire un racconto nuovo.
Una volta fatti i compiti, ho caricato il racconto nella cartella di Dropbox sulla quale tutti noi “bottegai” condividiamo i progressi dei nostri lavori, per sottoporli a ulteriori letture e pareri.

E di pareri ne sono arrivati, a cominciare da quelli che riguardano la figura di Anna, che ha preso sensibilmente più corpo, per la necessità nata dal consiglio di Giulio di collegare As an old memoria a un altro racconto, intitolato Buon compleanno, Paola, in cui il protagonista maschile assomiglia moltissimo a Sergio e la protagonista femminile è, appunto, Anna.
Il mio dubbio espresso ai “bottegai” era se fosse giusto introdurre così significativamente questa figura che prima, in As an old memoria non esisteva proprio. Inserirla o no? In che misura? Se Anna sarebbe comparsa in un altro racconto, valeva la pena spenderci troppe righe o sarebbe stato meglio introdurla, semplicemente?
I consigli erano discordi: c’era chi diceva di dare solo un’idea di Anna, chi invece era d’accordo a descriverla più pesantemente. La mia conclusione è stata che Anna doveva essere introdotta, certo, ma in maniera abbastanza esauriente da renderla una figura finita anche prendendo singolarmente As an old memoria, senza dover per forza ricorrere all’altro racconto.

E così il racconto è diventato quello che è adesso. Non sappiamo ancora dove vivrà, se in una raccolta di racconti in cui sarà collegato a un solo altro racconto, o in una raccolta dove tutti i racconti verteranno sulla vita di un unico personaggio, Sergio. O chissà che altro.
Di sicuro non smetterà di cambiare e migliorare.

* * *

As an old memoria
(versione precedente alla lavorazione in Bottega)
di Mimmo De Musso

Come/

Senza pensare a niente in particolare, aveva spento lo stereo. Mentre scendeva le scale che dalla sua camera portavano alla sala da pranzo, per un attimo Sergio si era fermato e aveva fissato il muro davanti a sé.
Arrivato in sala, aveva guardato fuori dalla porta-finestra, verso le montagne, censurando un pensiero banale: le nuvole sembravano panna montata. Poi si era diretto nel cucinino. Sete. Voglia di succo di frutta. Voglia di finire presto il liceo. Voglia di cambiare città. Voglia di diventare qualcun altro. Credere in qualcosa.
In soggiorno era buio, tranne che per il bagliore di un abat-jour, che fioriva tra il divano e il mobiletto del telefono. Una scarpa. Una gamba.
Sergio si avvicinò curioso. Suo padre doveva essere a lavoro. Alle quattro del pomeriggio solitamente lo era.
Prima di capire quello che stava dicendo, aveva registrato il tono della sua voce (dolce e quasi da donna) con cui rispondeva a una voce che proveniva da chissà quale altra casa, un tono troppo compiaciuto e sottile per rivolgersi a un amico.
A diciassette anni Sergio non aveva mai detto “ti amo” a nessuna ragazza, ma sentirlo dire da suo padre, seguito dal nome di una donna che non fosse quello di sua madre era stato come se quel bulbo di luce in soggiorno diventasse un ammasso di creta, scivoloso e informe, e gli stesse invadendo piano lo stomaco.
Poi suo padre si era accorto di lui e aveva farfugliato qualcosa.
Sergio tornò in camera e riaccese lo stereo.

As you are/

Sergio soffocò un rigurgito e si massaggiò lo stomaco, assorto nel lavorio della digestione; si coprì la bocca con la mano chiusa a pugno, e guardò suo padre che, appoggiato con tutt’e due i gomiti all’altro capo del tavolo, giocherellava con la forchetta e gli avanzi accantonati ai margini del piatto, dando di tanto in tanto uno sguardo alla tv, che balenava azzurrognola.
“Tu dimmi perché agli attori nani danno solo la parte degli gnomi di Natale. Praticamente per tutto il resto dell’anno non lavorano”, disse suo padre più a se stesso che a Sergio. Raschiò la forchetta sulla ceramica del piatto.
Sergio trasalì allo stridìo.
“Cosa?”
“I nani. Nei film. Fanno sempre gli gnomi di Natale.”
Sergio si voltò verso lo schermo, registrando stancamente delle immagini.
“Elfi. Si chiamano elfi.”
Suo padre fece una smorfia. “Sempre bassi sono”, disse. Cercò il telecomando, lo prese e cambiò canale.
Carlo Conti disse: “La risposta potrebbe essere esatta, ma chissà”, ammiccando alla telecamera.
Sergio si massaggiò la radice del naso.
“C’è l’aspirina, di là”, gli disse suo padre, intercettando il gemito di suo figlio.
“Nello sgabuzzino?”
“No. No, non più. Tua madre ha spostato le medicine. Lì, vicino al. Vicino al frigo, mi sa.”
Sergio tenne a bada un altro rigurgito.
“Tanto non mi serve, l’aspirina. È la digestione che mi fa venire il mal di testa, mi sa.”
“Mangi troppo velocemente.”
“No, macchè.”
“Ti dico di sì. Ti dico di sì.”
“Tu non hai mangiato quasi niente.”
Sergio sospirò.
“Più tardi”, disse poi.
“Più tardi che?”, lo interruppe suo padre.
“Più tardi dovrei ripartire.”
Suo padre lasciò la forchetta e batté una mano sul dorso dell’altra. Sergio guardò le nocche di suo padre stringere lentamente, ma forte, le dita dell’altra mano, fino a farsi bianche; osservò le piccole rughe tra quei tendini, con un’attenzione che lo avrebbe sorpreso, giorni dopo, nella sua cucina di Torino, quando gli sarebbero tornati in mente così vividi quei leggeri solchi e, con un sentimento simile all’affetto, ma più vicino alla nostalgia, avrebbe ricordato come, ogni inverno, anni prima, gli raccomandava di spalmarci sopra una pomata frutto dell’esperienza dei pescatori norvegesi, se non si sbagliava, perché con il freddo si sarebbe arrossati, poi spaccati, e infine avrebbero sanguinato.
“Te la metti, la pomata?”, disse Sergio.
“Che pomata?”
“Le mani.”
Suo padre allentò la presa dalla sua stessa mano, e le distese tutt’e due sulla tovaglia, osservandole.
“No, l’anno scorso non si sono spaccate. Ormai non la uso più.”
“A me cominciano a spaccarsi.”
“E allora devi cominciare a usare la pomata.”
“Invecchio.”
“Eh”, fece suo padre. Sorrise. Tornò ad ammonticchiare i pezzi di carne ai bordi del piatto. Poi afferrò la bottiglia scura che era sul tavolo, la soppesò, e la inclinò per scrutare meglio il fondo. Si versò due dita di spumante, le ultime rimaste: più schiuma che altro, che rimase aggrappata al bordo del bicchiere. Suo padre aspettò che la schiuma di dileguasse, con il bicchiere a mezz’aria; guardò lo schermo del televisore e poi suo figlio.
“La gente si è divertita”, disse, bevendo.
“Cosa?”
“La festa. La gente si è divertita, no?”
“Quella che non è rimasta fino alla fine.”
“Hanno mangiato bene. Hanno bevuto tanto.”
Sergio diede un’occhiata in giro. La sala da pranzo era tutta decorata, ma gli addobbi, i palloncini e le stelle filanti erano adagiati confusamente sui mobili, sulle sedie ribaltate e sparse, sul pavimento; alcuni piatti e bicchieri, vicino ai quali si aprivano piccole pozze di liquido, erano sparsi dappertutto, certi sbreccati, altri in frantumi; resti di cibo costellavano le piastrelle di ceramica bianca, macchie di sugo, verdure sfilacciate, pezzi di carne; il grande festone azzurro e rosso era ancora attaccato alla parete, ma solo da un’estremità, mentre per il resto era come esausto di fare il suo lavoro e riprendeva fiato, mollemente ribellato al proprio dovere, sui braccioli e sulle sedute del divano. Quello che delle lettere dorate si riusciva a leggere tra le pieghe, recitava “BU EANNO MIC ELE”.
Sergio si alzò, piano, facendo una smorfia e tenendosi lo stomaco.
“Bevuto hanno bevuto”, disse, sollevandosi dalla sedia.
“Si sono divertiti.”
Michele guardò suo figlio con un sorriso, attendendo una risposta.
“Papà”, disse Sergio, alla fine, “ma come cazzo fai a dire una cosa del genere? Te l’ho già detto: si è divertita la gente che non è rimasta fino alla fine. Che ti devo dire? Che si sono divertiti tutti? Eh? Vuoi che ti dica questo?”
Michele continuò a sorridere.
“Sei arrabbiato?”, disse.
“Sono. Non lo so cosa sono.”
“Hai mangiato bene. Tua mamma ha cucinato bene. Hanno tutti mangiato bene.”
“Mamma starà tornando.”
Suo padre guardò istintivamente la porta di casa. Si alzò, appoggiandosi alla tavola, e dopo aver tra-scinato un po’ i piedi tra alcuni pezzi di vetro, si sedette su di un’altra sedia.
“Non ce la faccio, a stare in piedi. È un periodo che non ce la faccio a fare nulla.”
“Hai le scarpe slacciate”, disse Sergio.
“Lascia stare le scarpe”. Michele soppesò di nuovo la bottiglia, e la ripose subito sulla tavola. Sospirò. “Come va la testa?”
“Meglio.”
Michele si diede una veloce occhiata alle scarpe. Poi tornò su Sergio.
“Come ti va la vita?”
Sergio trattenne il respiro. Ripensò alla telefonata che aveva ricevuto due giorni prima. Sua madre che come quasi ogni domenica pomeriggio, sola in casa, si godeva gli unici venti, trenta minuti a settimana con suo figlio.
“Speriamo che il Milan vinca, stavolta”, aveva detto sua madre. “Così tuo padre non torna incazzato.”
“Si diverte ancora a guardare le partite. Quando crescerà?”
“Lascialo stare, poverino. Ha i suoi affanni.”
“Affanni.”
“Sei sempre così duro con lui.”
“Cazzi suoi.”
“Sembrano più i tuoi.”
“Può essere.”
“Sergio. Tuo padre sta male.”
Sergio aveva tossicchiato.
“Tumore. All’intestino. Il dottore non sa a cosa sia dovuto. Tuo padre è sempre stato fissato per l’alimentazione e cose così. Gliel’ha trovato un mesetto fa.”
Sergio aveva schioccato più volte la lingua che era diventata improvvisamente arida.
“Sono cinque anni che non scendi. Che non vieni a casa.”
“Lavoro.”
“Dopodomani lui fa sessant’anni”, aveva detto sua madre.
“Lui lo sa?”
“Eccome. È da due mesi che continua a dire che sta diventando troppo vecchio.”
“Lo sai a cosa mi riferisco.”
“Non lo so se lo sa. Ti ripeto che a me l’ha detto il dottore. Tuo padre non mi ha detto nulla.”
“Lo sa o no?”
“Ti ho detto che non lo so.” Sua madre respirò nel ricevitore. “Credo di no. No.”

As you were/

Doveva partire, andare lontano. Il ventinove giugno, il giorno del suo diciottesimo compleanno (il cielo si stava addensando di grigio, a dispetto delle previsioni della mattina stessa, che avevano mostrato un sole talmente ottimista da cozzare con il pur positivo oroscopo che Paolo Fox aveva letto per il Cancro, poco prima), Sergio aveva comunicato la decisione ai suoi. Dopo aver tenuto a bada con semplici parole lo sgomento seguito da crisi di pianto di sua madre, scosse via dalla spalla la mano che suo padre aveva pensato di battere, come un necessario attestato di noncurante complicità tra uomini.
Era un anno che tutto quello che suo padre aveva fatto e detto sembrava avere la consistenza di quel fiore di bitume luminescente che si era piantato nel suo petto. Quell’uomo sempre circondato da amici, che guardava il culo delle altre donne e riceveva in cambio pacche sulle spalle o semplici occhiatacce a seconda di chi aveva accanto, quell’uomo che tutti gli indicavano come unico giusto modello di adulto, quell’uomo altro non era che un disgustoso odore di brillantina, una patetica camicia mai sgualcita, una battuta volgarissima di una commedia pecoreccia.
Dalla corriera, Sergio aveva guardato il campanile della Cattedrale farsi sempre più lontano e decrepito, e mandò a farsi fottere il paese, suo padre, l’astrologia, le stelle fisse, l’universo tutto, e se stesso.

As I Want You To Be/

“Come ti va la vita?”
“Mi va che sto qua con te. A questa festa.”
“Faccio sessant’anni. Dovevi venire a vedermi invecchiare.”
“Dovevi proprio rovinare la festa, alla fine? Tutte quelle cose che hai detto. Hai dato di matto, papà. Hai detto quelle cose orribili. Sei diventato. Pazzo, papà. Pazzo, da un momento all’altro. Furioso. Ma che. Guarda che hai combinato”, disse Sergio, disegnando con il braccio un semicerchio davanti a sé.
Suo padre si alzò, con difficoltà, e rimase fermo, per un secondo, a fissare lo stanco festone, che ancora resisteva, attaccato alla parete per l’eroico lembo. Poi lo prese tra le mani, e lo lisciò con i palmi. Lo lesse.
“Te lo ricordi Pasquale? Il meccanico?”
Sergio annuì.
“Be’, un po’ di mesi fa, a Ferragosto, mi si sfascia la Punto. Una cosa al motore: le candele, forse. Pasquale è l’unico rimasto aperto. Lui sta sempre aperto, anche a Ferragosto, quando tutti sono al mare. Non ha altro, lui, una famiglia, niente, solo l’officina. Ci vado. Non c’è nessuno, qui in paese. Deserto, ti dico. Caldo. Sai che Pasquale ha l’officina un po’ fuori. Non so come ci arrivo, con la Punto in quello stato e tutto. Suono al cancello. Si apre e mi avvio con la macchina nel viale. Te la ricordi, l’officina di Pasquale, no? Apri il cancello, c’è il viale, che è tutto pietre e terra, e poi lo spiazzo, dove ci sono le macchine da riparare. Ci sei andato, no, sempre per la Punto? Pasquale sta sempre vicino a una macchina, o dentro l’officina. Be’, stavolta è dentro l’officina; il caldo, sai, e poi lì non c’e nessuno, oltre a me.
Esco dalla macchina e mi guardo intorno. Non vedo Pasquale. Faccio per andare nell’officina, quando mi fermo. Non sono sicuro di averlo visto, ma l’ho visto.
Un leone. Lì, sdraiato a pancia in giù sul tetto di una delle macchine da riparare. Un leone, ti dico, con la criniera e tutto. Sta lì a fissarmi, ma sembra che non mi veda, e se mi vede comunque non gliene frega nulla. Ma è un leone. Come quelli che si vedono in tv. Sto lì a guardarlo, impietrito. Insomma, che cosa avresti fatto tu? Saresti scappato, certo, ma non prima di essere rimasto lì come un cretino a chiederti se quello è un leone e se è davvero un leone a chiederti che cazzo ci fa lì, nell’officina di Pasquale, a Ferragosto, quando tutti sono al mare.
In quel momento esce Pasquale. ‘Pasquale’, gli faccio. ‘Che bestia, eh?’, fa lui, e io capisco subito che per lui è normale. Il leone e tutto. Completamente normale.
‘È un leone?’, faccio io. ‘Certo che è un leone’, fa lui, ‘sta di guardia. È vecchiotto, però. Sai, me l’ha portato mio cognato. Non sapeva che farsene.’ Ah, se te l’ha portato tuo cognato, penso io. E penso anche Quello è un leone, Cristo santo. Dovrebbe stare nella savana, a fare il re, a mangiarsi le gazzelle, a ruggire. A spaventare a morte le giraffe, o che cazzo ne so io. E invece se ne sta qui, nel parcheggio, con gli occhi spenti. Perché nessuno sa più che farsene. Perché non fa nulla?, penso io. Perché non ruggisce, non si mangia quel coglione di Pasquale.”
Michele si asciugò un angolo della bocca con il dorso di una mano.
“I leoni”, riprese. “Non dovrebbero invecchiare. Questo ho pensato stasera.”
Sergio guardò fuori. Le montagne erano diventate più scure del cielo, e le stelle vi si perdevano dietro il profilo. Michele si avvicinò alla porta finestra, la aprì e uscì sul balcone.
“Non sei abituato alle montagne, lassù, eh?”
“Vedo le Alpi tutti i giorni, papà.”
“Sì, ma non così. Abiterai in mezzo alla città. I palazzi, i rumori. Tutta quella gente. Le Alpi non sono queste montagne. Ti ricordi quando ti portavo a caccia?”
Sergio raggiunse suo padre. Cercò qualche luce, in tutta quell’oscurità, senza trovarne.
“Certo, che mi ricordo.”
Sergio emise un lungo, pesante sospiro.
“Stai morendo, papà”, disse, poi. “Hai il tumore. Me l’ha detto mamma. Sei vecchio.”
Michele guardò lo spazio scuro che si allargava davanti e sotto di lui.
“Ti sei vendicato. Ce l’hai fatta, alla fine”, disse.
Sergio sentì che stava per vomitare. Si controllò. Il buio era diventato materia viscida e compatta. Sentì il fiore di penombra, dopo sei anni, finalmente spegnersi.
“Sai, la storia del leone non è finita”, disse Michele. “Vicino alla macchina dove s’era sdraiato c’era un cane. Un bel cane. Un furia. La cosa buffa era che il cane era legato. Così in forma, era lui che doveva fare la guardia. Ho chiesto a Pasquale. Lui mi ha detto: ‘È troppo giovane. Poi mi scappa.’ Il cane era impazzito dalla rabbia. Tirava quella corda, e tirava, e tirava, e tirava.”
Michele afferrò la ringhiera del balcone, guardò in basso, si sporse in avanti.
I fari di un’auto apparvero in lontananza, serpeggiando tra gli alberi; i due fasci di luce occhieggiavano a intermittenza tra la vegetazione nera, si inseguirono, sobbalzarono, non si raggiunsero mai, e sparirono nella notte.
Sergio pensò ancora al buio. Al buio che a Torino mancava, ma che laggiù inghiottiva tutto; le montagne, il paese, il balcone, le stelle fisse, l’universo: tutto era presente, ma pesante, e imperscrutabile. Irraggiungibile, ormai.

As an old enemy.

* * *

5 pensieri riguardo “Che cosa diavolo succede in una Bottega di narrazione, ovvero: “As an old memoria”, racconto di Mimmo De Musso con cronaca di lavorazione

  1. Grazie, Giulio. Molto istruttivo. Leggendo i tuoi commenti al racconto mi è venuto spesso da sorridere. Reagisco in questo modo ogni volta che qualcuno mi smaschera davanti ai miei errori.

  2. Interessante vedere il lavoro di editing su un testo e giustamente l’autore lo mette in rilievo, lo fa notare. Dico le mie impressioni a caldo da persona digiuna. Voglia di succo di frutta ecc., quei pensieri lapidari e veloci e confusi insomma pezzi di mente vorticosi, a me piacevano, davano energia, cambio di ritmo. Ma li ho visti solo smontati, magari dove stavano non ci stavano bene, una questione di Gestalt. Mi pongo leggendo questo testo problemi che mi pongo sempre, mi debilitano e risolvo dimenticandomene: passato remoto? montato sul prossimo? lo stile linguistico deve essere riconoscibile? si deve capire in che epoca siamo e in che parte del mondo? chessò un telefonino suona, un condizionatore si accende o si spegne automaticamente e c’è un riferimento a un luogo ecc.? qui potremmo essere in qualsiasi momento del ‘900 e in qualsiasi luogo… In genere, anche nei capolavori, mi risulta male, mi irrita (mia idiosincrasia), quando uno fissa un punto ovunque sia, il muro per esempio di solito. In ogni libro c’è qualcuno che a un certo punto fissa un punto: sul muro, in cielo, da qualche parte insomma. Qui due volte, credo. Mi sa di frase fatta, di riempitivo pretenzioso, come la rucola dove non ci vuole. Che cosa aggiunge? che cosa toglie? Hysteron proteron, ottimo suggerimento!… salvo che uno voglia creare un effetto sorpresa forse (dopo averla brevemente corteggiata e spogliata lentamente, glielo piantò su), ma dico per dire. Ci farò caso! Titolo troppo hemingwaiano (si scrive così?). Mi piace il nome di bottega e l’idea che c’è dietro e dentro., Non ho mai capito se sarei adatto a una bottega o se sarei troppo gnucco e testone, soprattutto troppo poco creativo. Buon lavoro

  3. Non discuto che un buon editing possa essere efficace, nel miglioramento della qualità di uno scritto, ma i miei racconti correrebbero, piangendo, ad abbracciarmi il risvolto dei pantaloni, se dicessi loro di andare a farsi stuprare da abili, quanto sconosciute, personalità. Dovessi scrivere, avendo in vista l’occhiata accusatrice di un professionista della scrittura – uno di quelli che conosce la differenza tra l’analisi illogica e la sua sintesi logica – sarei agghiacciato dall’imbarazzo, rischiando di accucciare la mia personalità dietro le mie esili aspirazioni.

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