100 lezioni di scrittura creativa / 4

di Giulio Mozzi

[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

Buongiorno. La situazione è questa: avete il desiderio di raccontare una certa cosa. Siete lì, pronti. Il tutto vi sembra abbastanza chiaro. Potreste dire, colpendovi la fronte con un dito, le parole fatidiche: «La storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa; si tratta solo di scriverla». Bene. Questo, ci crediate o no, è il momento buono per astenervi dallo scriverla.

[Più o meno gli stessi contenuti di questo articolo, li trovate nel video. Che però fa più ridere.]

Le ragioni sono tante. Una è che spesso, molto spesso, ciò che sembra molto nitido finché è un’idea, diventa molto meno nitido quando si tratta di farlo diventare quindici o cinquanta o trecento pagine, tutte piene di parole. Se abbiamo la sensazione di una grande chiarezza, se ci pare di avere a disposizione la storia (e i personaggi, le scene, i luoghi, gli abbigliamenti, i dialoghi, i contesti ecc.) fin nei minimi dettagli: questo è senz’altro positivo. Però è bene che ne dubitiamo. Quante volte succede, di iniziare a scrivere magari con foga, con grande felicità, e di ritrovarsi poi – dopo quindici, o cinquanta, o trecento pagine – con la cosa fatta a mezzo, o a un terzo, o a tre quarti, e a non saper più che pesci pigliare? Succede perfino ai professionisti.

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La nettezza e completezza dell’idea iniziale è spesso illusoria. Conviene, per prudenza, trattenere l’impulso di mettersi a scrivere subito, di corsa, ininterrottamente: e mettersi piuttosto a immaginare ulteriori dettagli, a conoscere meglio i luoghi, ad approfondire le conoscenze. Spesso le idee iniziali sono un po’ astratte. Un uomo è stato piantato brutalmente, il 2 novembre, dalla donna che ha amata, credendosi riamato, per dieci anni; lei gli ha detto: «Non ti ho mai amato, tu per me sei stato una disgrazia». Il nostro uomo si prende un mese di ferie per metabolizzare l’accaduto. Domanda: chi, oggi, in Italia, può prendersi un mese di ferie, di punto in bianco, in novembre? Che lavoro dovrà fare, quest’uomo, per potersi permettere una pausa siffatta? L’idea iniziale tende a non preoccuparsi di questi dettagli. Ma non sono dettagli: perché decidere la professione d’un uomo significa decidere la sua condizione sociale, il suo grado d’istruzione, il suo stile di vita, la sua morale, o soldi che può spendere, i mobili che ha in casa.

Nei romanzi italiani il protagonista spesso non ha un lavoro preciso. Oppure fa uno di quei lavori vaghi – vaghi per chi non li fa – che sembrano distaccarlo dalla massa dei comuni mortali con problemi di mutuo: fa il “giornalista che non va mai in redazione”, il “regista che in questo momento non ha nessun film da girare”, il “compositore di canzoni d’amore che campa componendone una all’anno”, il “professore universitario in anno sabbatico”, l’“imprenditore che ormai non ha più bisogno di occuparsi dell’azienda” o infine lo “scrittore” o, peggio che peggio, l’“aspirante scrittore”. Io sospetto che dietro tante vaghezze si celino spesso due cose, l’una o l’altra o tutt’e due: una certa incapacità ad avere che fare con il mondo reale, come se il mondo reale fosse un impiccio, un peso, un fastidio; e il pregiudizio che le narrazioni siano più interessanti, più attraenti, se fanno evadere il lettore dal mondo reale anche proponendogli personaggi dai mestieri misteriosi e bizzarri.

Fatto sta che proprio il corpo a corpo con il mondo reale, lungi dall’essere un peso, può esaltare le nostre capacità di immaginazione e fornire appigli e appoggi alla nostra storia. Nel momento in cui il vostro personaggio smette di essere “un uomo” e diventa

il signor Pierermenegildo Bartezzaghi; non parente del Bartezzaghi dei cruciverba; nato a Cernusco sul Naviglio e residente a Milano nella zona di piazzale Gambare; trentaseienne; quasi laureato in ingegneria elettronica; sviluppatore di software per la contabilità in eterno co.co.co.; alto 1,72 e leggermente sovrappeso; piantato dalla prima fidanzata, quella dei vent’anni, dopo l’interrotta gravidanza di lei (lui, naturalmente, voleva tenere il bambino, sposarla, eccetera); piantato dalla seconda fidanzata, quella di quando lui era studente-lavoratore e tutti i suoi coetanei erano studenti e basta (cioè lui aveva soldi in tasca, e gli altri no) in occasione di un memorabile capodanno in Valtellina con amici e amiche (lei, la sera dell’ultimo, si fece scopare da un bruto culturista); piantato dalla terza fidanzata, quella laureata in legge, appunto il giorno della di lei laurea, conseguita nel giugno dell’ultimo anno di corso (mentre lui, con un terzo di esami ancora da fare, stava al terzo fuoricorso); rifugiatosi infine nella donna attuale, la quarta, quella che l’ha piantato solo ora, più o meno come un naufrago si rifugia in un’isola tropicale dove per avere riposo basta stendersi sulla sabbia, per avere cibo basta scuotere la palma, e l’attività più eccitante è la pesca all’amo;

bene, nel momento in cui il vostro “uomo” si concretizza in questo modo, tutto è più chiaro. E altrettanto si dovrà concretizzare la donna (e anche le donne che l’hanno preceduta; e anche la madre di lui, matrice di tutte le sue donne…). A questo punto, inventare non è più difficile. È più facile. Certo: dovrete imparare che cosa fa tutto il santo giorno uno sviluppatore di software per la contabilità, com’era il cielo di Cernusco sul Naviglio negli anni Settanta, come funzionano i Centri di aiuto alla vita in Lombardia negli anni Ottanta, eccetera. E imparare tutte queste cose – cioè, sostanzialmente, documentarvi sul mondo reale così come lo frequenta e attraversa il vostro personaggio – vi farà venire nuove idee, nuovi pensieri, nuovi personaggi, nuovi risvolti della storia, nuovi intrecci, nuove parole.

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Ma perché, mentre si fa tutto questo, mentre si immagina, è bene astenersi dallo scrivere? Semplicemente perché lo scritto è vischioso. Ciò che è scritto, è scritto perché resti. Si può magari poi modificarlo, correggerlo, aggiustarlo: ma la sostanza resterà sempre quella. Non ci saranno nuove invenzioni. Ma di questa vischiosità del già scritto, parleremo la settimana prossima. A risentirci.