di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno. Com’è andato il Ferragosto? Spero bene. Bene. [Vi ricordo che queste lezioni sono state scritte molti anni fa].
Un amico mi segnala una lezione dello scrittore Sandro Veronesi (il suo ultimo romanzo: La forza del passato, Feltrinelli) [vi ricordo, ecc.], tenuta durante un corso di scrittura organizzato a Roma dalla casa editrice Minimum Fax, leggibile in “sbobinatura” nelle pagine web appunto di Minimum Fax (ora si trova in Minima et moralia, qui). In questa lezione Veronesi a un certo punto dice: «Quando soffrono, i professionisti, smettono di scrivere, e i dilettanti si mettono a scrivere». Il «lavoro principale» dello scrittore «professionista» è, dice Veronesi, «tenere pulito il proprio potenziale» da «tutti gli ingombri»: «la donna v’ha lasciato, i cazzi, i soldi, la monnezza, quello che volete». «Il professionista lì si ferma, lotta con ‘sto vento, risolve, per quel che può, o vi è travolto, se non riesce a risolvere i problemi, poi, dopo, quando questo momentaccio è passato, scrive». Al contrario, «il dilettante, invece, BUM, subito prende questo flusso di merda che gli arriva addosso, e, per terapia, per consolarsi, per reggere meglio l’urto e illudendosi addirittura che questo nobiliti il suo gesto, scrive».
Poi Veronesi continua: «Qualunque cosa consegua alla tua vita quotidiana che finisce dentro la scrittura va vagliata e lavorata molto prima. Perché se tu hai un rapporto familiare, è ovvio che questo rapporto familiare finisce per formare quello che scriverai. Il disagio, quello che non funziona nel tuo rapporto familiare, con i tuoi genitori, con tua moglie, con i tuoi figli, finirà per formare in un modo nell’altro quello che scrivi. Però c’è il rischio che dopo tu trasferisci sulla scrittura la soluzione del rapporto familiare. Se ti va bene il libro, perché lo pubblichi, perché viene anche apprezzato, rischi di non considerare più un problema familiare quello che è diventato addirittura la chiave del tuo successo. Ecco, allora: un professionista questo sbaglio non lo deve fare, perché è troppo fragile, lo capite, troppo fragile quello che costruisci. Ti appoggi su un problema, lo trasformi in soluzione senza avere toccato il problema…».
Perfetto. Devo dire che non ho mai sentito spiegare meglio perché e percome l’idea, così diffusa, della “scrittura come terapia” è in buona parte un’idea sbagliata.
Una persona assai amabile mi ha scritto, circa un mese fa: «Io sto scrivendo un diario, spinta dalla mia terapeuta… Adesso che ho quasi finito il mio diario retrospettivo, inserito in quello attuale, mi chiedo che farne, oltre ad averne usufruito per chiarirmi, anche perché la mia terapeuta, a cui l’ho letto man mano, si è molto interessata nell’ascoltarlo e m’incoraggia a non tenerlo chiuso nel classico cassetto». Qui si tratta di vera e propria “scrittura come terapia”, perché la scrittura nasce, e ha la sua prima esistenza, proprio all’interno di una relazione terapeutica; potremmo dire, anzi, che qui non abbiamo una “scrittura come terapia”, ma una “terapia con scrittura”. Naturalmente può succedere che una scrittura iniziata all’interno di una relazione terapeutica poi si renda autonoma e diventi, diciamo così, “scrittura-scrittura”. Cosa che auguro, senza azzardarmi in previsioni, all’amabile persona di cui sopra.
L’importante è che, per usare il linguaggio un po’ brutale di Sandro Veronesi, vi sia prima la «soluzione dei problemi», e poi la scrittura. In me, ad esempio, la scrittura è nata durante una relazione terapeutica, e all’interno di una relazione amicale. Una situazione quasi ideale. Che però io sono riuscito a rovinare, qualche tempo dopo, perché senza rendermene ben conto ho fatto della scrittura un antagonista della relazione terapeutica. Dicevo: «C’è del lavoro che faccio nella relazione terapeutica, e c’è del lavoro che faccio per mio conto nella scrittura»; ciò che accadeva, invece, era che facevo del lavoro nella relazione terapeutica e, penelopescamente, lo disfacevo nella scrittura. Se qualcuno fosse curioso di verificare la cosa in corpore vili, può andare a confrontare la felicità (psichica, morale, estetica) del mio primo libro di racconti (Questo è il giardino, del 1993) con l’orrore (psichico, morale, estetico) del mio terzo libro di racconti (Il male naturale, del 1998, Mondadori).
Dal punto di vista di Sandro Veronesi, io sono uno scrittore «cattivo professionista»: perché a volte mi comporto come un professionista, e a volte come un dilettante. Il mio ultimo libro di racconti (Fiction, del 2001, Einaudi) è un libro da superprofessionista (non è un giudizio di qualità, è un giudizio professionale), mentre la decisione, presa qualche mese fa, di tenere un diario in pubblico (è sicuramente dilettantesca (o, almeno, presenta tutti i pericoli del dilettantismo). [Il blog del mio diario in pubblico è ormai sparito nel nulla del web…]
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Ma come si fa, a diventare «professionisti» nel senso indicato da Veronesi (cioè non nel senso di “vivere dei propri libri”; quella è un’altra faccenda)? Secondo me, e non saprei se Veronesi sarebbe d’accordo, si tratta di capire che la scrittura è un’attività di relazione. È una cosa che ho già detta e ripetuta in questa rubrica. Si tratta quindi di trovare, nella nostra esperienza di vita, delle relazioni-modello sulle quali basare la nostra idea di “scrittura come relazione”. La relazione terapeutica è per definizione una relazione-modello; una relazione amicale felice è naturalmente una relazione-modello; ma anche le relazioni familiari, professionali, comunitarie possono servire da modello.
Ci sono anche libri che fanno intravedere la loro relazione-modello. Ad esempio, La coscienza di Zeno: che esplicita, e parodizza, la relazione terapeutica come relazione-modello. O i libri di Aldo Busi, che diventano bellissimi quando la sua relazione con la madre emerge come relazione-modello.
E voi, che relazione-modello avete? Arrivederci.

…ma questo non vale “solo” (o principalmente) per i libri autobiografici (in un certo senso)? Intendo dire. Non vale solo per quei libri che puntano a narrare (pur inventando, colorendo) un’esperienza personale, magari trasfigurandola, ma pur sempre personale? Come applicare questa regola a chi si inventa un thriller che poco ha a che vedere con l'”esperienza diretta dell’autore”? Ho notato che spesso i consigli degli autori agli scrittori puntano a risolvere lo stimolo di molti a voler scrivere di sé (il libro «Il sogno di scrivere» di Roberto Cotroneo, ad esempio, parla solo di questo).
ma esistono autori (chi sa se professionisti o no) che hanno scritto sull’impulso di un dolore, penso a Cioran che scrive anche Taccuino di Talamanca.
io scrivo di quello che mi tocca profondamente, che smuove qualcosa. bene o male che sia.anzi, non può proprio essere definito dalle categorie bene/male…ciò che mi vuoe è più qualcosa che ha a che fare con la trasformazione, il mio cambiamento. momenti di passaggio, acquisizioni nuove. la terapia è bene farla con i terapeuti. L’ utilizzo della scrittura durante la terapia è uno degli strumenti possibili.
L’ha ribloggato su il pane e le rosee ha commentato:
questo articolo è pubblicato da Giulio Mozzi in Bottega di narrazione. Parla della scrittura e della terapia, due cose che mi interessano molto.