di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Le ripubblico qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno. La settimana scorsa [cioè ieri…], riferendo un frammento di conversazione con un amico, giravo attorno a una questione: «Oggi come oggi, quando si parla di letteratura s’intende quasi automaticamente la narrazione, quando si parla di narrazione s’intende quasi automaticamente il romanzo, e quando si parla di romanzo s’intende automaticamente, senza quasi, una storia inventata, quindi non vera, raccontata con verosimiglianza. Non è forse bizzarro? Non è bizzarro che la principale forma letteraria della modernità consista nella narrazione di storie non vere? Non è bizzarro che, quando accademici critici pedagoghi e soloni vari raccomandano “ai giovani” la “lettura di buoni libri”, sostanzialmente intendono raccomandare loro la lettura di libri che raccontano storie inventate, ossia non vere?».
Di solito, quando pongo questa questione (in corsi di scrittura e narrazione, in convegni, in cenacoli di scrittori, in piazza, a insegnanti di lettere ecc.), mi viene risposto più o meno: «Ma la letteratura porta con sé una verità che è più vera della verità delle cose reali». Provo a collaudare la risposta. È noto che Alessandro Manzoni, nel costruire la trama dei Promessi sposi, si ispirò ad alcuni fatti avvenuti realmente nella Lombardia del Seicento. Sono stati rintracciati anche gli atti di un processo a una sorta di don Rodrigo dell’epoca, che quasi certamente furono nella disponibilità di Manzoni. Bene. Manzoni decise di raccontare una storia inventata: che cioè attingeva a piene mani dalla documentazione, ma con assoluta libertà. Tutto nei Promessi sposi è “storico”: l’abbigliamento dei bravi, il modo di salutare e riverire, il contesto socioeconomico, le leggi e i bandi, i fatti di Milano (rivolta per il pane, peste), i libri della biblioteca di don Ferrante, e così via. Tuttavia la storia, benché ispirata a eventi documentati, è liberamente inventata.
Ora: perché mai i Promessi sposi sarebbero una narrazione che porta con sé una verità più vera di quella che porterebbe con sé un buon lavoro storiografico? C’è una serie di risposte, che mi sento regolarmente dare, e che mi sembrano futili: «Perché i personaggi sono più vivi, perché l’immaginazione è più colpita, perché la narrazione è più vivace, perché la forza della magnifica scrittura di Manzoni entra nel profondo dei nostri cuori», eccetera. Futilità, secondo me.
Si può dire anche così: Manzoni non rappresenta, non imita questo mondo. Manzoni inventa un altro mondo: un mondo diverso da quello dove abitiamo, e nel quale la Provvidenza non solo si lascia intuire, ma addirittura si dispiega e dà forma a tutto il mondo stesso. La verosimiglianza, la meticolosa ricostruzione storiografica, la cura dei particolari, servono solo a produrre una illusione di realtà, o meglio, una illusione di esistenza di questo altro mondo.
E, tanto per andare terra terra: a che cosa serve mai, inventare un altro mondo? Serve, semplicemente, a farlo diventare reale. Il mondo dei Promessi sposi, oggi come oggi, piaccia o non piaccia, è nel novero delle realtà disponibili.
Mettiamo che io sia un uomo disperato. Mettiamo che qualcuno mi consigli di leggere i Promessi sposi. Mettiamo che io li legga, e che rimanga folgorato. «È così», mi dico. «La c’è, la Provvidenza!». In quell’istante, io smetto di vivere nel mondo in cui vivevo prima, e comincio a vivere nel mondo dei Promessi sposi. Da quell’istante, vivrò in un mondo nel quale la Provvidenza non solo si lascia intuire, ma addirittura si dispiega e dà forma a tutto il mondo stesso.
A chi mi domanda: «A che cosa serve la letteratura?», io rispondo: «A inventare mondi alternativi».
C’è un’obiezione frequente: «Ma allora tu assegni ai Promessi sposi più o meno lo stesso senso che assegni al Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels o alla Città di Dio di sant’Agostino!».
«Be’», dico in questi casi, «sì».
* * *
Milan Kundera ha scritto da qualche parte (non chiedetemi dove) che «il romanzo ha edificato la coscienza europea». Noi abbiamo la possibilità di essere Europa, intende dire Kundera, perché tanti romanzi hanno inventato dei mondi nei quali l’Europa, una cosa che prima non c’era, c’era. Prima dell’Europa c’era stata la Cristianità. Prima della Cristianità c’era stato l’Impero romano. Europa, Cristianità, Impero romano, sono i nomi di una cosa sola: i nomi del mondo, inteso come una totalità dotata di senso.
A questo punto, definire il romanzo come narrazione verosimile, non è più così banale. Potremmo dire che il romanzo è una narrazione verosimile, ma che il vero al quale tale narrazione desidera essere simile non è il vero dell’esperienza, bensì il vero del desiderio, o il vero dell’intuizione, o il vero della fede, o il vero del futuro, o altri o tutti questi insieme. La verosimiglianza rispetto all’esperienza è un semplice strumento, è per così dire un grado minimo della verosimiglianza: e il suo scopo è la produzione dell’illusione di esistenza del mondo desiderato, intuito, creduto o previsto.
Quando ci mettiamo a raccontare una storia, dovremmo pensare a questo. Ogni tentativo di raccontare una storia è un tentativo di inventare il mondo.
Mi si dirà: «Certo, ti sei trovato l’esempio comodo. I Promessi sposi andavano proprio bene. Ma se prendessimo come esempio l’Assommoir, Nana o il Paradiso delle signore di Emile Zola, le cose andrebbero diversamente».
Non è vero, secondo me. Ma ho finito lo spazio, e l’esempio con Zola lo faccio nella prossima puntata.
