Alcune cose sulla narrazione, spiegate con un flashmob di Kaliningrad

di Giulio Mozzi

Per prima cosa, dovete guardarvi il flashmob. Dura quattro minuti, si svolge in un supermercato di Kaliningrad, i partecipanti cantano una canzone popolarissima. Ha tutta l’aria di essere una cosa organizzata dal supermercato stesso, per fare una piacevole sorpresa ai clienti: ma questo non ci interessa. Guardate, dunque.

Ora: probabilmente avete già capito tutto, ma io ora provvederò a spiegarvelo pedantissimamente.

Innanzitutto. Avete guardato un flashmob sapendo che è un flashmob: quindi sapendo di dovervi aspettare delle sorpese. Il che, se volete, è paradossale. In effetti, voi non avete guardato il flashmob (non eravate lì, quel giorno, in quel supermercato di Kaliningrad); voi avete guardato il film del flashmob: la narrazione del flashmob. Come spettatori, siete in una posizione completamente diversa da quella dei clienti, che stavano lì a fare la spesa e non si aspettavano nessuna sorpresa. Non è diverso quando si legge un romanzo o un racconto: sappiamo già prima di aprire il libro che incontreremo degli avvenimenti che cercheranno di sorprenderci, di emozionarci, di intrattenerci, di illuderci ec.; e che sono degli avvenimenti inventati, o in gran parte inventati.

La narrazione del flashmob comincia mostrando il supermercato. Noi, spettatori della narrazione, cerchiamo di indovinare che cosa accadrà, e prima ancora chi darà il via al gioco. E infatti la narrazione alterna a qualche panoramica alcuni primi piani. E noi ci domandiamo: sarnno questi, gli attori che daranno il via al gioco? Normalmente, anche nei film, riusciamo quasi sempre a capire chi, tra la folla, ha che fare con l’azione – e chi no. I segnali sono semplici: chi fa un gesto particolare, chi incrocia il nostro sguardo, Qui la regia e il montaggio sono abbastanza astuti. Alcune inquadrature ci mostrano dei personaggi che non entreranno nell’azione:

Altre, personaggi che entreranno. Per esempio:

Il lavoro è fatto bene perché, in effetti, alla prima visione, non riusciamo a distinguere i partecipanti al gioco dai non partecipanti. La narrazione ci presenta dei personaggi nei confronti dei quali noi siamo in tensione, ma non ci fa capire su quali di questi dobbiamo “scaricare” la tensione. Al massimo, potremmo notare che i personaggi che poi effettivamente entreranno nel gioco sono inquadrati un po’ più da vicino.

Quando il primo giovanotto comincia a cantare (a voce scoperta: non c’è quindi nessun segno che si tratti di una cosa organizzata), alcuni clienti reagiscono quasi con insofferenza,

altri con divertimento,

altri ancora con quasi ostentata indifferenza.

Ma attenzione: anche uno dei personaggi che poi saranno implicati nel gioco ha una reazione non propriamente complice:

Poiché si tratta di una persona che nel supermercato ci lavora, alla prima visione tendiamo a interpretare la sua faccia indifferente come addirittura un po’ infastidita. Ciò valorizzerà, successivamene, la sua entrata nel gioco.

Quando entra la seconda cantante, parte anche la musica.

E a questo punto è chiaro a tutti che la cosa è organizzata, e quindi lecita. Alla perplessità si affiancano dunque, e sostituiscono, i sorrisi, sia pure un pochino imbarazzati:

Lo spaesamento più forte è affidato, giustamente, al personaggio più giovane: una bambina. Perché i bambini, come noto, imparano che i grandi vivono in un mondo ordinato e regolato; e difronte a un grande che sembra infrangere qualche regola non sanno bene cosa pensare.

Quando comincia a cantare anche una dipendente del supermercato – quella che, pochi istanti prima, aveva simulato di essere perplessa, o infastidita da ciò che stava avvenendo -, allora si capisce che stiamo entrando in un’altra situazione.

Nessuno può vietare a un cliente di cantare, soprattutto se canta bene; al massimo gli si può spiegare che il comportamento è forse inopportuno e importuno; ma una dipendente ha il suo lavoro da fare, deve sistemare le merci sugli scaffali, mica può mettersi a cantare (e ballare). E, infatti, puntualmente interviene l’autorità. Rappresentata non solo dall’uomo in nero, ma soprattutto da colui che invisibilmente lo guida attraverso il telefono o interfono che sia.

Vediamo qualche faccia ancora perplessa, ma di una perplessità un po’ sgomenta (“Perdincibacco! Era una cosa così carina!”),

fors’anche una faccia del tipo: “L’avevo detto io, che non era una cosa regolare!”,

e potremmo notare, ma se stiamo proprio attenti, un certo eccesso di arrendevolezza da parte dei due cantanti. Che si zittiscono, non si avvicinano tra loro (la realzione normale di chi fa una cosa insieme e subisce un’intimidazione), sembrano disperdersi. Ma è solo un attimo, perché poi tocca il colpo di scena:

Et voilà. Non vediamo più un uomo forzuto in nero, ma un bel faccione sorridente, due braccia aperte nel gesto tipico dell’accoglienza. E ovviamente si ride.

Da questo punto in poi (e vi faccio notare che il fotogramma qui sopra è quasi esattamente al centro della narrazione: minuto 2 e 1 secondo, su un totale di 4 minuti e 7 secondi) la narrazione è tutta in discesa. Non ci saranno più novità, ma solo intensificazione. La risata è contagiosa:

Ride anche la signora che ci era parsa all’inizio più diffidente:

Non abbiamo più una bambina perplessa, ma una bambina che ride: ha capito che la rottura delle convenzioni sociali è fatta per gioco.

Saltano dunque alcune inibizioni: gli attori del flashmob possono interagire con il pubblico, il pubblico può dismettere ogni dissimulazione e fare fotografie. E’ uno spettacolo, è un gioco.

L’ingresso di altri attori serve solo per amplificare il senso di felicità e letizia, e condurre rapidamente verso un finale.

Ma in realtà tra chi canta e balla ci sono persone che non abbiamo visto “entrare in scena”: potrebbero essere sia attori del gioco sia clienti che hanno deciso di divertirsi e stare al gioco. L’ultima a entrare in scena (opportunamente: correndo) è una dipendente che avevamo appena appena intravista all’inizio.

Spetterà proprio a lei, presentata all’inizio mentre svolge la mansione più umile tra quelle rappresentate, dare l’immagine finale della gioia più intensa: le braccia spalancate, gli occhi chiusi come in un abbandono, il sorriso nella bocca aperta al canto.

Seguono l’applauso e la normalizzazione: tutti al loro posto, di nuovo. Tutto dissolto, dunque? No, perché le abbondanti risate, la rottura dei tabu, eccetera, ci hanno fatto dimenticare le immagini negative che avevamo visto all’inizio: lo sbadiglio di noia,

la solitudine del telefonino.

Per concludere: la narrazione ha una forma circolare (dalla noia iniziale, dall’irreggimentamento nei ruoli, alla felicità panica del finale, per poi tornare a un ordine che si spera migliore o meno peggiore del preesistente), nella prima metà crea una tensione attorno alle domande “Che cosa accadrà?”, ma soprattutto “Chi fa parte del gioco?”, ha un punto di svolta col superamento (con l’autosuperamento, potremmo dire) dell’ostacolo del Potere, che qui cede alle Rose, impersonato dalla guardia giurata (o che altro che sia).

Una narrazione semplice, eseguita discretamente, simile a tante altre narrazioni. A che cosa è servito, guardarla così da vicino? Semplicemente a prendere un pochino coscienza di alcuni semplici meccanismi presenti un po’ in tutte le narrazioni – anche in quelle che scriviamo noi.

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