di giuliomozzi
Siamo sinceri: il Chisciotte è un equivoco. Tutti i ditirambi dell’eloquenza nazionale non sono serviti a nulla. Tutte le ricerche erudite sulla vita di Cervantes non hanno chiarito neppure un angolo del colossale equivoco. Si burla Cervantes? E di che si burla? Lontano, sola nell’aperta pianura della Mancia, la lunga figura di Don Chisciotte s’incurva come un punto interrogativo; ed è come un custode del segreto spagnolo, dell’equivoco della cultura spagnola. Di che si burlava quel povero gabelliere dal fondo di una prigione? E che significa burlarsi? La burla è necessariamente una negazione? Non esiste alcun libro in cui sia così grande il potere di allusioni simboliche al significato universale della vita, e tuttavia non esiste alcun libro in cui troveremo meno anticipazioni, meno indizi per la sua stessa interpretazione.
Così scriveva, nel 1914, nel suo primo libro Meditazioni del Chisciotte (Meditazione preliminare, n. 13), José Ortega y Gasset, all’epoca un giovane professore di Metafisica dell’Università di Madrid. Forse la densità delle domande poste dal Don Chisciotte (il romanzo) può spiegare, almeno per intuizione, da un lato il movimento proliferativo del quale presto parleremo, dall’altro la fortuna di Don Chisciotte (il personaggio): lo stesso aggettivo “donchisciottesco”, testimoniato in diverse lingue anche non europee, è tutt’altra cosa dagli aggettivi derivati dagli autori (pirandelliano, kafkiano, eccetera): questi esprimono uno specifico clima, una specifica dinamica di eventi, mentre doncisciottesco è sempre qualcosa di pertinente alla persona: un gesto donchisciottesco non è solo un gesto, per dirla con Ortega y Gasset, “da burla”; è un gesto che pone dei problemi metafisici. “Combattere contro i mulini a vento” non significa qualcosa come “sprecare inutilmente le proprie energie”, o “lottare per una causa persa”, eccetera, ma significa propriamente: “sostituire alla realtà comunemente riconosciuta un’altra realtà, e in questa vivere con serena convinzione”.
Ma la questione di “quale sia la realtà” nel Don Chisciotte si pone su due piani: uno interno alla narrazione e uno esterno, pertinente più al libro che al romanzo. Veniamo dunque al dunque: alla storia del romanzo e alla storia del libro.
La prima parte del Don Chisciotte fu pubblicata nel 1605; lasciava molte vicende in sospeso, e si concludeva con la promessa di una seconda parte. Miguel de Cervantes la scrisse in carcere, dov’era finito perché sospettato, lui di professione esattore delle imposte (“gabelliere”), di esseri messo in tasca più soldi di quanto la legge e l’uso consentissero. Il successo fu immediato e grande: le edizioni si moltiplicarono, del tutto fuori controllo, e Cervantes si guadagnò fama (popolare, non tra le élite culturali) ma pochissimi quattrini (all’epoca non esisteva alcuna tutela del diritto d’autore, e le edizioni pirata erano la norma). Dimentico della promessa, o desideroso di guadagnare titoli letterari con un’opera d’altro genere, meno popolare e più chic, negli anni successivi Cervantes si dedicò soprattutto a scrivere Le avventure di Persiles e Galatea: che, paradossalmente, sembra essere proprio uno di quei romanzi contro i quali si dirige la satira del Don Chisciotte.
Tanta era l’attesa della promessa seconda parte, però, che un qualcuno, nascondendosi dietro lo pseudonimo di Alfonso Fernandez de Avellaneda – tuttora non violato: ci fu chi ipotizzò Tirso de Molina, chi Juan Ruiz de Alarcón, chi ancora Franccisco de Quevedo -, diede alle stampe nel 1614 un Segundo tomo del ingenioso hidalgo Don Chisciotte de la Mancha: un discreto romanzo, va detto, scritto bene, molto avventuroso, più comico e forse un po’ più sguaiato, più rivolto alla satira del costume che alle questioni metafisiche: Don Chischiotte e Sancho, per dirla in breve, agiscono molto di più e chiacchierano molto di meno. Per quel che ne sappiamo, le vendite non andarono male.
Cervantes si imbestialì. E non solo mise insieme in quattro e quattr’otto – approfittando di un ulteriore soggiorno in carcere, per i soliti motivi – la sua seconda parte; ma la pubblicò, nel 1615, come vera seconda parte. La pretesa di verità (notate: non di autenticità) non è esibita nel frontespizio, ma sta al fondamento di tutta la narrazione. Don Chisciotte viene a sapere che c’è un qualcuno, chiaramente un malfattore dalle pessime intenzioni, che ha composto un libro nel quale si raccontano le sue avventure: libro, ovviamente, pieno di bugie. Ma poiché quel libro falso non racconta le avventure che all’inizio della seconda parte Don Chisciotte ha già vissute (quelle stanno nella prima parte, che è un libro vero), bensì quelle che dovrà vivere appunto nella seconda parte, Don Chisciotte ha facile gioco: se il libro falso dice che lui è andato, ovvero andrà, in una certa città, lui non ci andrà; se il libro falso dice che lui ha partecipato, ovvero parteciperà, a un certo torneo, lui non parteciperà. E così il misterioso Avellaneda è servito: il suo libro è screditato, perché Don Chisciotte ha deciso di non viverlo: di non riconoscere come proprie certe avventure che non ha ancora vissute.
(Evidentemente Cervantes aveva letto il romanzo – o dialogo filosofico che dir si voglia – di Diderot Jacques il fatalista e il suo padrone: nel quale il racconto della storia, una sorta di spin off del Tristram Shandy di Laurence Sterne, è continuamente interrotto da contrattempi, interventi del padrone e digressioni di Jacques sulla libertà, il destino, la provvidenza, tutte tendenti a dimostrare che ciò che accade a noi, qui sulla terra, “sta scritto lassù”, ovvero non facciamo che vivere un libro già scritto. Jacques il fatalista sarà scritto e pubblicato solo nel 1796, centottant’anni dopo la morte di Cervantes: ma questo, da un punto di vista squisitamente artistico, non dev’essere considerato un problema).
L’apice si raggiunge nella scena in cui Don Chisciotte e Sancho, mentre trascorrono la notte in una locanda, sentono che nella stanza accanto – solo un tramezzo di legno la separa – qualcuno sta leggendo ad alta voce proprio il libro falso. Don Chisciotte si precipita di là, spadone in mano, pronto a far giustizia; ma incontra due gentiluomini così cortesi, e così propensi a dargli credito, che il tutto finisce a tarallucci e vino, nonché e a grandi conversazioni sulla verità e la falsità delle storie.
Voi capite che, a fronte di tutto questo, la storia del Don Chisciotte imbambolato dall’eccessiva lettura di romanzi cavallereschi eccetera viene ridotta a mero pretesto narrativo. Ci penserà Flaubert, in Madame Bovary, a esplorare davvero il tema.
Ma il punto al quale voglio arrivare è: che, se possono esserci due Don Chisciotte (romanzo), ciascuno provvisto di un suo Don Chisciotte (personaggio), allora nulla esclude che possano esisterne tre, o quattro, o infiniti. Non conosco nessun romanzo nel quale il Don Chisciotte di Cervantes e quello di Avellaneda s’incontrino, e finiscano col fare a mazzate o collo smezzare un litro di rosso: quest’ultima ipotesi (per la quale rimando ovviamente alla letteratura fantascientifica sui paradossi temporali: e la seconda parte cervantina è già, a modo suo, la storia di un paradosso temporale), e lo dico a tutti gli aspiranti romanzieri in ascolto, potrebbe dare adito a una bella serie di conversazioni filosofiche tra i due; il libro sarebbe uno di quelli che neanche a darli in omaggio coi detersivi ne vendi una copia, ma tant’è: l’arte è arte.
Il resto è storia nota. Tutti conoscono, almeno per sentito dire, il racconto di Jorge Luis Borges Pierre Menard, autore del “Chisciotte”. Ne ho parlato anch’io qui qualche giorno fa. Pierre Menard è un grande estimatore del Don Chisciotte, al punto che decide di riscriverlo: parola per parola. Producendo un testo letteralmente identico all’originale, ma – a causa della diversa posizione cronologica – del tutto diverso. Spiega Borges:
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):
“…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.
Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenioso Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:
“…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.
La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne.
E fin qui, pace. Ma meno nota al grande pubblico, nemmeno per sentito dire, è l’opera di Michel Lafon Une vie de Pierre Ménard, pubblicata nel 1998, nella quale l’autore
s’attache à reconstruire le chemin de vie de l’homme Pierre Ménard, le personnage de la fiction de Borges Pierre Ménard, auteur du Quichotte. Le Jardin Botanique de Montpellier, le plus ancien de France, est au cœur de la trame littéraire qui se déploie en fragments de textes pluriels, imprégnés de l’univers littéraire et affectif borgésien. Imprégnés d’amitié aussi. Ce sentiment constitue un véritable fil conducteur de l’œuvre de Jorge Luis Borges à celle de Michel Lafon; de la littérature à la vie et vice-versa; de la vie à la mort réversible par la grâce et la magie de la fiction. (s’impegna a ricostruire il percorso di vita dell’uomo Pierre Ménard, il personaggio della finzione di Borges Pierre Ménard, autore del “Chisciotte”. Il Giardino Botanico di Montpellier, il più antico di Francia, è al curoe della trama letteraria, che si dispiega in frammenti di testi plurali, impregnati dell’universo letterario e affettivo borghesiano. Impregnati d’amicizia, anche. Questo sentimento costituisce il vero filo conduttore dall’opera di Jorge Luis Borges a quella di Michel Lafon; dalla lettratura alla vita e viceversa; dalla vita alla morte riversibile grazie alla magia della finzione, vedi).
Naturalmente vi sarete accorti del trucco. Il personaggio di Borges di chiama Pierre Menard, non Pierre Ménard. Lafon non parla del personaggio (e del racconto) di Borges. Parla, palesemente, di qualcun altro.
D’altra parte, Lafon ha palesemente esemplato il suo titolo su quello d’un libro che è unanimemente considerato la più interessante, e letterariamente e filosoficamente pregevole, riscrittura del Don Chisciotte: La vida de Don Quijote y Sancho segùn Miguel de Cervantes Saavedra explicada y comentada par Miguel de Unamuno: in Italia barbaramente tradotta col titolo di Commento alla vita di Don Chisciotte, che nasconde la questione centrale: Unamuno tratta Don Chisciotte (e Sancho) non come personaggi finzionali, cioè verosimili, ma come personaggi veri. E così torniamo, più o meno, da capo.
La verità vera, alla fin fine, probabilmente, la sa solo il Cide Hamete Benengeli: colui che, nel Don Chisciotte cervantino, è indicato dallo stesso Cervantes come effettivo autore dell’opera (mentre lui, Cervantes, non sarebbe altro che il revisore e l’editore di una traduzione affidata, peraltro, si lascia indendere, a un personaggio poco affidabile).
E per finire davvero, posso solo invitarvi a dare un’occhiara al Don Chisciotte di Orson Welles. Un film, mai terminato, la cui storia di produzione è già un romanzo.