James Joyce, Ulisse. Appunti di lettura – 1

di Demetrio Paolin

[una volta alla settimana pubblicherò qui il mio diario di lettura dell’Ulisse di Joyce nella traduzione di Mario Biondi, edito da la nave di Teseo. Gli appunti saranno numerati in ordine progressivo da 1 a n+1].

Se guardo la mia esistenza di lettore consapevole, che in questo anno compie il suo trentaquattresimo anno, stabilendo come data cardine la sonnacchiosa estate in cui dodicenne entrai in libreria per acquistare di mia volontà I fiori del male di Baudelaire tradotti da Gesualdo Bufalino, scopro di avere un problema con la definizione di ciò che è classico e di che è percepito di difficile lettura. L’idea di leggere l’Ulisse di Joyce, credo che abbia a che fare con il fatto che

  1. Non esistano i classici
  2. Che non esistano libri di difficile lettura/illeggibili.

Parto dal punto 2. perché proprio su queste pagine, Giulio Mozzi abbia già sostenuto, semplifico, che il più delle volte la presunta illeggibilità di un testo sia una sorta di pregiudizio, di alone che accompagna certi libri. Di solito quando parli con chi non ha letto l’Ulisse spesso ti imbatti questa frase: “Ci ho provato, ho fatto una grande fatica a leggerlo tutto o in parte, ma non ce la faccio con quelle sue frasi lunghissime, che uno si perde e non sa dove inizia e non sa dove finisce”. E il quel caso tu, che ascolti, hai ben chiaro di avere di fronte a te uno che il romanzo di Joyce non l’ha letto e neppure ci ha provato. E allora fai questa semplice esclamazione dubitativa: “Be’ certo non è mica la prosa di Hemingway?!”. E il tuo interlocutore, a quel punto, ti offre un sorriso di complicità e ti dice: “Ecco, hai capito benissimo, non fa per me, non fa per quel tipo di scrittura lunga, complessa ecc ecc”. Ora se analizziamo la lunghezza media di una frase di Hemingway e di una frase di Joyce nell’Ulisse, , sono dati che trovo in Moretti Un paese lontano (Einaudi), ci troviamo davanti a una sorpresa.

Quattordici parole per Hemingway, sette per Joyce. Le frasi dell’Ulisse non sono lunghe, non c’è nulla di ciceroniano in Joyce, anzi se dovessimo divertirci a trovare un qualche modello, bisognerebbe guardare ai misconosciuti autori dei primordi del latino medioevale, quel genere di testi – sermoni, storie di santi, storie di miracoli, di martiri –citati ad esempio da Auerbach nel suo Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità e nel Medioevo (Feltrinelli). Il sermo, la lingua che Joyce usa, è un sermo humilis: concreto, basico, scatologico; perché Joyce, come gli ignoti predicatori e scrittori, che si trovano a dover scrivere nel momento di crisi e di passaggio da una realtà storica definita a qualcosa che non hanno ancora ben chiaro, un sommovimento che ha prodotto non solo un cambio di immaginario, ma una modifica e un allentamento delle regole sintattiche, dell’uso delle proposizione e delle parole, la ridefinizione di una lingua totalmente nuova per  i bisogni del pubblico a cui si riferiva, ecco l’autore vive nella stessa situazione – temporale e linguistica – con l’Ulisse.

Quindi la presunta illeggibilità de L’Ulisse, che è di solito brandita da chi non l’ha letto con argomenti pretestuosi, nel senso che precedono il testo, è in realtà, se osservata con chiarezza, la fondazione di una diversa idea di lingua, di pubblico e di immaginario.

Per quanto riguarda invece il punto 1. ho poco da dire oltre al fatto che il mio sguardo nei confronti  del testo si esaurisce nel testo. Non amo le storie della letteratura, sono allergico ai canoni, preferisco leggere un libro e non pensare se e come sia inserito in un contesto, in un movimento,  se  abbia prodotto epigoni e detrattori, o modificato modi di leggere o di concepire opere d’arte; con questo non voglio dire che sono un lettore ingenuo, ma un lettore che utilizza la sua intelligenza interpretativa sul testo, sulle parole che si susseguono e che si trovano davanti di pagina in pagina.

So che in questo momento, anzi nel momento in cui ho scritto la frase “non esistono i classici”, alcuni sono andati a prendere la definizione di Calvino di classico per contestare la mia affermazione. Per comodità eccola: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. […] i classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).” In realtà questa definizione di classico è così vaga, come sono vaghe le altre (qui potete l’articolo di Calvino pubblicato sull’Espresso), una sorta di gioco combinatorio he, a parer mio, si può affermare che il classico, il libro classico, non esiste; anzi stando a quello che dice Calvino ognuno di noi potrebbe produrre la sua biblioteca di classici (faccio un esempio nella mia biblioteca tra i classici del Novecento ci vedrei bene Coccioli e Pomilio, lascerei perdere Pasolini romanziere e poeta ecc. ecc. e potremmo andare avanti per ore discutendo di ciò che ho escluso e di ciò che ho aggiunto). Ecco questi – sui classici, sui romanzi che cambiano le vite, sui romanzi da portare sull’isola deserta – mi paiono discorsi oziosi e, quindi, rivendico per me come lettore una sorta di miopia: non riesco a vedere oltre le pagine che leggo. Ovvero quando leggo un testo, la mia domanda non è mai perché questo testo è un classico, ma neppure perché questo testo è bello, ma perché le parole che leggo mi costringono a girare la pagina e ad arrivare fino alla fine. Ciò che mi affascina in un libro è sola scriptura, la lettera del testo, l’ingegnoso susseguirsi dei lemmi, della sintassi e dei periodi. Ho ereditato, quasi introiettandolo, il metodo del filologo, che cerca nel testo, dentro il testo, nelle lacune e nelle presenze, negli hapax e nelle ripetizioni la logica compositiva di quel che legge, le sue ragioni intime.

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Quindi per me L’Ulisse di Joyce è solo un testo tra gli altri che leggo, uno tra i tanti che in queste settimane, per lavoro, svago, puntiglio leggerò. Non diverso e non migliore dal manoscritto dello sconosciuto esordiente che sto leggendo, o da saggio di Adam Smith dal titolo Economia e sentimenti. È un insieme di parole che si susseguono, e formano frasi di una lunghezza media di sette parole che  raccontano la giornata ( o meglio le ventiquattro ore) di un uomo.

Questo modo di leggere può avere un senso? Mentre scrivevo queste parole, ha suonato alla porta l’uomo della caldaia. L’ho fatto entrare, al telefono gli avevo spiegato il guasto: la caldia non scaldava più l’acqua. L’ho visto armeggiare nel balcone e mi ha detto cosa c’era che non andava. Mi ha spiegato con chiarezza e concisione quello che dovevo sapere per farmi un’idea di cosa fare con quella caldaia. Mentre mi parlava di queste cose, per uno strano cortocircuito della mente, ho ricordato un aneddoto, legato a L’Ulisse e alla sua pubblicazione. Quando uscì la prima edizione, Joyce regalò una copia a un cameriere che negli anni lo aveva visto scrivere al tavolino del caffè. Mi sono chiesto perché proprio al cameriere e perché io abbia pensato al tecnico della caldaia. Ci possono essere molte spiegazioni per questo gesto: vanità, compiacenza, ironia, disprezzo. Oppure è un gesto seme cioè un’azione che si compie, ignorandone il risultato finale, nella più totale gratuità, che, anzi, trova la ragione proprio nell’essere gratuita. Così mentre il tecnico mi spiegava con precisione il funzionamento della caldaia, ho capito che leggere criticamente un testo è come prendere l’Ulisse e darlo al cameriere, è reiterare il gesto seme di Joyce. L’autore e il critico – o se non vogliamo parlare di critico, usiamo come definizione quella di lettore palombaro – condividono una tensione comune ovvero produrre un esercizio di chiarezza, riuscire a comunicare a tutti la profonda bellezza di ciò che stanno sperimentando, mentre scrivono.

Vengo alla fine di questo primo appunto introduttivo, dicendo che per me la lettura di un testo non è altro che una ricopiatura dello stesso: se fosse possibile, se fossi un famoso performer artistico, prenderei una telecamera e la posizionerei fissa sullo schermo, prenderei una vecchia macchina da scrivere e incomincerei a ricopiare lettera dopo lettera, parola dopo parola, stigma dopo stigma L’Ulisse di Joyce. Ho la certezza che chiunque avesse assistito a questa operazione, ne uscirebbe con una consapevolezza aumentata del mondo e della vita. Credo che l’unico modo di leggere un libro sia ricopiarlo, e questo fa di me una sorta di monaco: nelle mie vene, scorre un residuo minimale del sangue di qualche monaco irlandese che nei giorni, quando ogni cosa si disfaceva, copiava senza capire i testi antichi e dopo ore e ore allo scriptorium; e infine quando le ombre si allungavano e non bastavano le luci delle candele per vederci si stiracchiava, usciva e si dirigeva alla sua minuscola cella per fare compieta, e infine s’addormentava e nel dormire sognava, e nel sogno c’erano bestie e draghi, e nell’allentamento della sua soglia di veglia poteva vedere Eva nuda, il serpente e la mela e un grembo e una donna che diceva Sì lo voglio Sì.

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