di Demetrio Paolin
[una volta alla settimana pubblicherò qui il mio diario di lettura dell’Ulisse di Joyce nella traduzione di Mario Biondi, edito da la nave di Teseo. Gli appunti saranno numerati in ordine progressivo da 1 a n+1]
Settimana dal 10 al 17 giugno, p.83.
2a) L’incipit contiene in nuce alcune delle più evidenti caratteristiche dell’Ulisse. Prendiamo le prime quattro parole “Statuario, pingue, Buck Mulligan”, cosa vediamo? Intanto registriamo la mescolanza di alto e basso, non tanto nel registro linguistico, quanto concettuale: statuario ci porta alla mente i monumenti, le statue, opere di valore degne di essere ricordate, mentre pingue afferisce più al corpo, alle bassezze e alla laidezza della obesità; possiamo notare subito la citazione, che nell’originale per via del diverso uso della punteggiatura si coglie meglio, di Shakespeare, Buck come Falstaff: il pingue Buck come il pingue John. Proseguendo nella lettura, troviamo lo “specchio” e il “rasoio”, due oggetti neutri in sé, ma il loro posizionamento a croce e la successiva citazione latina dal salmo attirano la nostra attenzione. Buck è un sacerdote che celebra una messa o un surrogato di essa. L’intento parodico dell’Ulisse, quindi, è presente sin dalle prime righe, anzi è decisivo: la vera natura dei grandi romanzi, o almeno di un certo tipo di romanzi, che potremmo definire anatomici – perché in un certo senso germogliano sotto l’ala di Anatomia della Malinconia di Burton, perché hanno qualcosa in comune con quello stravagante libro o con l’alveo dei tempi in cui sorge -, come ad esempio lo Sterne di Tristram Shandy o il Chisciotte, è quella di presentarsi subito come antimodello. Più volte nel corso del cap.I Buck gioca con i sacramenti, con la religione; se inizialmente appare come statuario e fermo, egli possiede una vitalità esorbitante che bene si comprende da alcuni verbi che caratterizzano il suo agire “gettò un occhiata” (p.26), “balzò via” (p.27). Buck – ma credo che questo sia lo stigma di tutti i personaggi dell’Ulisse – è una contrapposizione vivente tra il suo corpo da “prelato, un patrono medioevale delle arti” (p.27) e il suo nome composto da “[…] due dattili” dal “tono ellenico” (p.27), che mostrano la tensione polare presente in tutto il romanzo tra Gerusalemme (la messa, le citazioni storpiate dalle Sacre Scritture) e Atene ( a p. 27: “Bisogna che andiamo ad Atene”). Un’inferenza ancora più forte se guardiamo il personaggio che ora appare sulla scena: Stephen Dedalus.
2b) La sua apparizione è incentrata invece non sul corpo, ma su un flatus vocis, il suo nomignolo: Kinch. La parola allude al termine bambino, ma suona simile al suono di un rasoio che tagli affilato. Stephen, quindi, lo abbiamo già incontrato, senza riconoscerlo, nel rasoio delle prime righe, accompagnato dallo specchio; e proprio a p.30 si trova un primo brevissimo indiretto libero di Stephen che mentre si guarda allo specchio si domanda: “Come mi vedono lui e gli altri? Chi mi ha scelto questa faccia?”.
L’interrogativo “chi mi ha scelto questa faccia?” potremmo rubricarlo sotto il tema del discorso dell’orfano, l’orfano si chiede di che carne è fatto, colui che ignora i propri natali pone un problema di identità, chiede chi sono i propri genitori. Stephen, nel corso di questi primi tre capitoli, ritorna sul tema della madre, della sua morte (su cui torno in un appunto successivo) e sul tema del padre, che è presente come ragionamento letterario: il dialogo e le riflessioni su Amleto (p.47; p.48), ma anche all’elenco delle diverse eresie di p.51, che hanno appunto come loro centro il rapporto tra Padre e figlio; mentre nel capitolo III la figura del padre si incarna nell’imagery della voce “consustanziale” (p.78), che si mescola con il flusso di pensieri diretti di Dedalus.
Dovendo pagare pegno per fare una riflessione meta-testuale sul rapporto tra Ulisse e Odissea, credo che sia importante tralasciare gli schemi forniti da Joyce sugli episodi paralleli tra i due testi (molte volte la sovra-interpretazione dell’autore è deleteria per il critico) o le citazioni più o meno palesi dei calchi omerici, per concentrarci su di un dato tematico. Per Telemaco e Odisseo il viaggio ha a che fare con l’identità, è scoprire chi realmente si è. Ulisse, declinando il suo nome come nessuno, in realtà non mette in atto uno stratagemma furbesco, ma attribuisce a sé stesso una condizione umana monca: Ulisse è letteralmente nessuno, uomo da nulla, è stato re marito guerriero, ma mentre fugge da Polifemo, non è più nulla. Telemaco, nel facile parallelo istituito da Omero, vive la stessa condizione del padre, non più figlio, non più figlio di re, non più pretendente al trono, si trova sia socialmente che antropologicamente nella stessa situazione del padre: non è nessuno. Vista in questa prospettiva conoscitiva il viaggio è la ricerca delle radici, e non qui non suona come casuale l’ultima fondamentale agnizione dl poema, quella di Laerte, padre di Ulisse e nonno di Telemaco, che chiude in questo modo la genealogia.
A ben pensarci c’è un dato fisico che può definire Stephen, lo troviamo a p.28 nelle parole di Buck: “Il moccichino del bardo. Un nuovo colore per i nostri poeti irlandesi: verde moccio”. Il moccio è qualcosa che si estroflette, esce dall’intimo di Stephen: è segno preciso dell’interiorità del protagonista. È sintomo di qualcosa di marcio, che Stephen ha dentro di sé: in questo verdastro, che ricorda la tonalità di certi incubi di Shakespeare, pieni di acqua putrida e torbida, non c’è nulla di salutare. Ecco l’identità di Stephen è una identità di colpa come gli ricorda Buck: “La zia pensa che sei stato tu a uccidere tua madre” (p.29). Il tema della morte della madre, anzi la visione della morte della madre, si ripresenta più volte nel corso delle pagine,
- nel flusso di pensieri di pp. 30-31: “I suoi occhi vitrei, che scrutavano dalla morte per scuotere e piegare la mia anima. Su di me soltanto. La candela spettro a illuminare la sua sofferenza Luce spettrale sul viso torturato […] No, mamma! Lasciami stare e lasciami vivere”.
- nel capitolo II quando Stephen, nel riconoscersi in un alunno, crea una sovrapposizione tra le loro madri e il latte, “con il suo sangue debole e il latte acido di siero lo aveva nutrito e aveva celato alla vista degli altri le sue fasce” (p.61)
- nel capitolo II in una sorta di pubblica confessione sotto le spoglie di un burlesco indovinello, in cui risuona la beffarda affermazione di Buck del cap I.
Mi soffermo su quest’ultimo stralcio di testo, perché appunto chiarisce bene il tema dell’identità. Che cosa è un indovinello? È un’interrogazione profonda che ci porta a scoprire un piccolo mistero, nel corso delle prime pagine dell’Ulisse introno a Stephen alleggia questa idea della morte della madre e della colpevolezza del figlio, una colpevolezza simbolica nell’aver rifiutato di inginocchiarsi in limine mortis al capezzale materno. Stephen oppone il silenzio, poi infine a p. 59 ecco l’indovinello: “Cantava il galletto/il cielo era perfetto: del paradiso i batacchi/battevano undici rintocchi./ È ora che quest’anima buona/vada in paradiso.// Cos’è?”.
Prima di vedere la risposta, analizziamo i versicoli: pur nel non-sense generalizzato possiamo individuare una serie di echi evangelici, il canto del gatto/tradimento, “è ora”/consumatum est dal vangelo di Giovanni, le ore battute/le tre del pomeriggio orario della morte di Cristo. Siamo davanti a una piccola passione, al racconto di una morte e di un tradimento. Questo già basterebbe a far comprendere come Stephen si autoaccusi apertamente della morte della madre, ma ora veniamo alla risposta dell’indovinello, che è altrettanto interessante. Dopo alcuni tentativi a vuoto dei suoi alunni, ecco la risposta alla domanda “Cos’è?”: “La volpe che seppellisce la nonna sotto un cespuglio di agrifoglio” (p.59). Dedalus nel rispondere mette in atto una strategia difensiva, una piccola variazione rispetto alla risposta originale dell’indovinello, usando “nonna” invece di “madre”. È una sostituzione, un breve scarto, un lapsus, che mostra chiaramente la sua colpevolezza.
2c)L’immaginario legato alla madre non si conclude qui. Joyce gioca una serie di rimandi narrativi, di tessiture di vocaboli, che in un certo senso legano il tema del mare e a quello della madre. Intanto grazie ai giochi di parole di Buck, Joyce stabilisce un rapporto tra mare e verde moccio tramite il calco omerico de“Il mare color verde moccio” (p.28), poche righe prima Buck ha dichiarato che il mare è “una dolce e grande madre” (p.28), e successivamente con una piccola variatio sostiene che l’acqua è “la nostra potente madre”. La trasformazione del mare nella madre e il successivo legame con la colpa di Stephen avviene poche righe più sotto, in una descrizione, i corsivi sono miei: “Attraverso l’orlo liso del polsino vedeva il mare salutato nei termini di grande dolce madre dalla ben pasciuta voce al suo fianco. L’anello di baia e orizzonte racchiudeva un’opaca massa di liquido verde” (p.29).
La morte della madre coagula in sé una serie di immaginazioni forti. Sappiamo che il mare è biblicamente la morte, ne è consapevole anche Stephen quando afferma che Buck è un eroe avendo salvato molte persone dal mare (p.28), la madre che come abbiamo visto è legata al mare è descritta da Buck con un aggettivo: “bestiale”. Buck dice che “la madre [di Stephen] è morta bestialmente” (p.33) e poi rincara: “Cosa è la morte? […] Io li vedo schiattare ogni giorno al Mater ad Richmond, e poi ridotti a spezzatino nella sala di dissezione. È una cosa bestiale e nient’altro”. La parola bestialità, in inglese, ha a che fare con la bestia, anzi con la Bestia ovvero il male: Stephen è toccato dal male, proprio perché ha fatto su di sé l’esperienza della morte e dell’orfanità, che è molto simile all’esperienza dell’esilio
2d) Sempre intorno al discorso del madre e del mare (che è catalizzante per un testo che ha a che fare con l’Odissea) entra in gioco il tema patria, che anche in caso Joyce gioca con una serie di rimandi, di micro-variazioni di testo, che infine legano il mare al latte, bevuto durante la colazione, raccontata a pp.39-41. A tenere insieme è l’apparizione di una vecchia, osservata tramite gli occhi di Stephen: “La guardò versare nel misurino e da lì nel bricco sostanzioso latte bianco, non suo. Vecchie poppe vizze. Ne versò di nuovo una misura […] strega seduta sul suo fungo velenoso, le rugose dita svelte sui capezzoli spruzzanti. Muggivano intorno a lei, che conoscevano, animali serici di rugiada. Seta di vacca e povera vecchia, come chiamavano un tempo l’Irlanda. Una vecchia errante […]” (p.41). Ovvio che questa immagine di sterilità non può essere dissociata dall’immagine al punto 2b, quando Stephen parla del latte della madre e di come è stato cresciuto. Il dato simbolico, lungi a questo grado di lettura, dall’essere ancora sciolto e reso chiaro in ogni suo punto, evidenzia un possibile legame tra orfanità e esilio, che trova un altro suo correlativo nel discorso dei soldi/ebrei. Un dato materiale interessante di queste pagine è appunto il tema del cibo e del denaro, che sono le due tematiche attorno alle quali vertono i discorsi dei protagonisti. Il passaggio dal cibo ai soldi è come sempre guidato da Buck, vero generatore in queste pagine dell’impianto immaginario del testo, quando dice: “Corri a beccare il grano della tua scuola e portami un po’ di soldi. Oggi i bardi devono bere e banchettare” (p.44). E questo ci porta al capitolo II al colloquio di Stephen con il preside Deasy che lo paga per il suo lavoro di insegnante, ma nello stesso tempo inizia una lunga tirata antisemtica, in cui sostanzialmente vengono ripresi molti dei temi tipici contra judaeos delle fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Tra le varie accuse mi interessano queste parole: “Hanno peccato contro la luce. E gli si vede il buio negli occhi. Ed è per questo che vanno tuttora errando sulla terra” (p.69). Torniamo indietro di alcune pagine, seguiamo un flusso di pensieri di Stephen: “[…] sotto lampade di luminescenza, impalati, con antenne che fremevano lievemente; e nel buio della mia mente un bradipo da inferi, riluttante, schivo della luce, che muoveva le sue scagliose spire di drago. Pensiero è pensiero del pensiero. Luce tranquilla” (p.58). Stephen parla del buio della sua mente, si paragona a un essere che non sopporta la luce. Si può ipotizzare una sorta di sovrapposizione sulla condizione dell’erranza ebraica e la propensione alle tenebre, secondo le parole del preside Deasy, e la condizione all’esilio e al buio (“Io non vedo niente” p.58) di Stephen Dedalus. Il tema dell’ebreo errante e l’erraticità saranno fondamentali nello sviluppo del romanzo, ma già qui se ne avvedono i prodromi.
2e) “Guarda. Sempre lì senza te: e sempre, nei secoli dei secoli”. Nel capitolo III dell’Ulisse incontro questa affermazione. Questa frase mi porta alla mente un saggio di Svevo su Joyce in cui sostiene che l’Ulisse è il punto apicale, più alto e riuscito, di quella rivoluzione realista iniziata da Flaubert con Bovary (cosa che in parte dice anche Pound). Ci sarebbe molto da dire sul fatto che Svevo interpreti Ulisse con strumenti vecchi e con uno sguardo non pronto a tutta la novità dell’opera, un po’ come ci sarebbe da dire sul fatto che Svevo scriva testi modernissimi nonostante il suo credersi un prosecutore della poetica realista (almeno per i primi due romanzi, sullo Zeno il discorso è più complesso). Questa frase, però, estrapolata dal quel flusso d’immagini e di pensieri che apre il terzo capitolo è centrale, perché dice qualcosa sulla realtà, sul rapporto tra lo scrittore e la realtà.
Tralasciando il discorso scolastico e manualistico su cosa sia il realismo – se esista un romanzo realista, se non sia più corretto dire che ogni opera d’arte, non solo il romanzo, sia un venire a patti con la realtà che l’autore ha intorno -, mi pare che queste poche righe possano definire bene il rapporto realtà/personaggio e realtà/autore, (Stephen è l’alterego di Joyce: questo dato è così chiaro e palese, che non stiamo neppure a discutere delle distinzioni narratologiche tra autore/narratore/personaggio), come un rapporto di paranoia. Esiste una realtà che è inaccessibile, che sta “lì senza di te” da sempre, sono le cose reali e concrete; gli alberi, la malattia, il cibo, lo sperma, la gioia, i pensieri, il sesso e la morte sono cose che sfuggono a una concreta comprensione. Non c’è bisogno di tirare fuori Sarte e Husserl, quando raccontano dell’impossibilità di fare un’esperienza fenomenologica concreta di un albero. C’è un albero qui davanti alla mia finestra: posso dire una serie di cose su questo albero, come è cresciuto, quando ha messo le gemme, quando ha messo le foglie e ora, dopo questi mesi, me lo ritrovo a ingombrare completamente verde e maestoso il vetro; ma come posso conoscere realmente quello che l’albero è; possono solo immaginare quello che l’albero è: possono solo immaginare ciò che è l’albero per me, ciò che sono i suoi processi, ciò che si produce al suo interno, possono solo dire cosa è in relazione a me, la realtà che io descrivo è soltanto in relazione a me soggetto che la guardo, ma non ne ho esperienza. Ecco perché parlo di rapporto paranoico, perché in realtà – quello che lo scrittore spaccia per la descrizione di realtà – è solo un insieme di convinzioni, di visioni personali di legami tra le cose tra di loro e tra l’autore e le cose che sono indimostrabili, nella massima parte, e false per il rimanente (un romanzo se vogliamo proprio andare al succo della sua essenza è una descrizione di relazioni: non esistono i personaggi, non esiste l’ambiente in cui essi si muovono, non esistono i loro pensieri, ma esistono le relazioni tra personaggi/ambiente/pensieri e c’è di più: queste relazioni sono la produzione di reazioni che un insieme di parole unite da una grammatica e una sintassi suscitano noi che scriviamo e che leggiamo: il romanzo non è niente di più che una sequenza articolata di parole) . La narrazione è una forma di paranoia, la più alta e evoluta forma se volete, che permette all’autore di costruire, di mettere in scena, di codificare una serie di corrispondenze (il termine è volutamente baudeleriano) che in realtà vede solo lui. Il paradosso è che il lettore è costretto a credere – tramite il rapporto sintassi, logica compositiva, storia – all’autore della storia e ai suoi personaggi. La famosa “sospensione di credulità” è appunto un avallo di una paranoia.
La realtà e la letteratura sono due entità separate, poco prima di fare questa affermazione, Joyce fa dire al Stephen nel suo flusso di ragionamenti: “I segni caratteristici di tutte le cose, io sono qui per leggere”. Joyce cita Boheme, che parla signa rerum, i segni delle cose, come una sorta di involucri, delle impronte, o dei “segnavia” (Heidegger) che qualcuno deve interpretare: Stephen/Joyce è chiamato a questo, ma sa benissimo che la sua interpretazione esclude la possibilità di conoscere la cosa in sé: del reale conosciamo solo i segni, le orme, il passaggio, ma non ne conosciamo la intima essenza, ma solo un’ombra, non ne facciamo piena e totale esperienza conoscitiva: si conosce per vie negative, si conosce negando la realtà, si conosce costruendo una riproduzione di un impronta negativa.
Proprio per questo ho parlato di paranoia perché appunto ha un connotato negativo e persecutorio. Il rapporto con la realtà di uno scrittore è di opposizione, la realtà non viene incontro a chi scrivi, ma viene contro: ecco per quale motivo ho definito le relazioni che gli scrittori hanno con le cose paranoiche.
2f). Qualche confronto sulle traduzioni e qualche avvertenza, non essendo
1) un madrelingua
2)un traduttore professionista,
cercherò sostanzialmente di comparare le versioni con l’originale, provando a fare ragionamenti. Farò due prelievi.
Il primo, l’incipit:
Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on which a mirror and a razor lay crossed.
Statuario, pingue, Buck Mulligan avanzò dal capo della scala reggendo una ciotola di schiuma da barba sui cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio (Biondi)
Imponente e grassoccio, Buck Mulligan stava sbucando dal caposcala con in mano una tazza piena di schiuma, su cui si incrociavano uno specchio e un rasoio. (Celati)
Statuario, il pingue Buck Mulligan spuntò in cima alle scale, con in mano una ciotola di schiuma su cui giacevano a croce uno specchio e un rasoio. (Terrinoni)
Mi pare già da queste poche linee che si possa notare una serie di eventi interessanti. Ad esempio la punteggiatura. Biondi e Terrinoni conservano la “,” tra “stately” e “plumb” cosa che Celati non fa; anzi modifica anche in parte la lettera di Joyce rendendo con una diadi un concetto che Joyce pare voglia tener separato. Joyce non scrive “Stately and plumb”, ma quella virgola serve a mettere in risalto la prima parola, quasi a contrapporla alla seconda. Nello stesso tempo Biondi aggiunge una “,” dopo pingue, togliendo al termine il valore appositivo che mi pare abbia nel testo originale, che invece Terrinoni conserva. Dal punto di vista della punteggiatura ancora, Terrinoni è quello più letterale con la virgola subito prima della descrizione della ciotola da barba, che tiene conto della scansione sintattica dell’originale, che invece Biondi cambia modificando la punteggiatura. Celati modifica la frase togliendo il gerundio “bearing”, trasformandolo in un complemento “con una ciotola” e mettendo una virgola prima della relativa. Nell’immagine di Buck statuario e pingue (come il Falstaff di Shakespeare) c’è qualcosa di solenne e nello stesso tempo comico, Joyce lavora per contrapposizione. Il termine statuario è legato allo sbucare/avanzare dalla scala, come un’immagine fantasmatica: come se si trattasse di una apparizione; poi c’è il termine pingue, che è qualcosa di crasso, basso e scatologico a cui si lega la ciotola con la schiuma da barba. Joyce dosa le virgole proprio per mettere questi termini, questi punti del suo periodare in contrapposizione. Se vogliamo c’è già tutto lo schema compositivo dell’Ulisse in queste poche righe. Il basso e l’alto, l’eco scespiriana, il discorso religioso e la parodia (a me questa scena ricorda un passo del Riccolo rapito di Pope, dove si parla della vestizione dell’eroe)
Secondo prelievo
Her glazing eyes, staring out of death, to shake and bend my soul. On me alone. The ghostcandle to light her agony. Ghostly light on the tortured face. Her hoarse loud breath rattling in horror, while all prayed on their knees
I suoi occhi vitrei, che scrutavano dalla morte, per scuotere e piegare la mia anima. Su di me soltanto. La candela spettro a illuminare la sua sofferenza. Luce spettrale sul viso torturato. Il rumoroso respiro rauco che rantolava pieno di orrore, mentre tutti pregavano in ginocchio. (Biondi).
Lei e i suoi occhi vitrei, che mi lanciavano sguardi dalla morte, per scuotermi e piegare la mia anima. Puntati solo su di me. Quello spettro di candela a far luce sulla sua agonia. Luce spettrale sul viso torturato. L’ultimo suo respiro rauco e rumoroso e rantolante nell’orrore, mentre tutti pregavano in ginocchio. (Celati)
I suoi occhi di vetro a scrutare dalla morte, per scuotere e piegare la mia anima. Su di me solo. La candela spettrale a illuminare l’agonia. Luce spettrale sul viso tormentato. Il respiro rauco e forte rantolante nell’orrore, e tutti pregavano in ginocchio. (Terrinoni)
È questo un passaggio importante del testo: la visione della morte della madre. Per quando riguarda l’attacco del paragrafo “Her glazing eyes”, Biondi sceglie la lettera “i suoi occhi vitrei”, Terrinoni scoglie l’immagine in “i suoi occhi di vetro”, mentre la scelta di Celati si discosta aggiungendo “lei” come pronome personale. L’immagine, però, in questo caso, risulta diversa. Nel testo di Joyce gli occhi sono una sineddoche della madre; sciogliendo in questo modo la traduzione, la resa narrativa è meno stringente: l’occhio vitreo, segno della madre e del suo controllo, si perde nella traduzione di Celati. Biondi e Terrioni usano poi il termine “scrutare”, Celati “lanciare”, anche in questo caso il termine “staring” ha a che fare con la fissità più che con il movimento; è un gesto passivo quello che compiono gli occhi, mentre in tutti e tre i casi la traduzione perde la fissità legata agli occhi vitrei.
Infine la resa dell’assonanza:” Her hoarse loud breath rattling in horror”. Chiara è la dominanza della “r”, ma anche della “h”, che Biondi asseconda “Il rumoroso respiro rauco che rantolava pieno di orrore”, così come Terrinoni “Il respiro rauco e forte rantolante nell’orrore”, mentre Celati cambia aggiungendo un elenco a polisindeto, che in parte modifica il ritmo e il suono, attenuando l’assonanza: L’ultimo suo respiro rauco e rumoroso e rantolante nell’orrore”.
Ora torno a leggere, le pagine successive. Alla prossima puntata.
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Nelle puntate precedenti
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