di Francesca Zammaretti
Partecipante al laboratorio Luoghi dalla distanza
«Il paesaggio punge e trapunge». Piglia e impiglia.
La prima frase è di Andrea Zanzotto. La seconda, mia.
Vivo sulla sponda piemontese del lago Maggiore, al confine con la Svizzera, immersa in un paesaggio che è come una bella donna che non invecchia mai: curatissimo e senza tempo, per questo irreale e fantastico. Qui il paesaggio alimenta il turismo, è fonte di guadagno, dà da vivere. Lo scrivo senza giudicare. Ho sempre avuto rispetto per il lavoro e adesso che tutto si è complicato ancora di più.
In autunno, quando i giardini si inselvatichiscono e i colori diventano caldi, e in inverno, quando la passeggiata diventa deserta, la luce è radente, ma limpida per il freddo, di più amo il lago: il paesaggio si fa qualcosa di altro, entra in risonanza con me. Esco dalla cartolina e cammino.
«Il passaggio è ciò che riconosco. Ma per riconoscere c’è bisogno di avere già visto e imparato, e non basterebbe una vita per vedere e imparare tutto quello che in qualche modo io già so: perché sono fatta delle stesse particelle di cui è fatta la Terra, sono loro a riconoscersi e a chiedere solidarietà prima ancora che io abbia capito dove mi trovo. Il paesaggio è il dialogo fra il mio corpo e il corpo del pianeta che abito». Ha detto Alessandra Sarchi a proposito della sua relazione con il paesaggio. E mi è parso di sentire ancora Zanzotto.