di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione
1. Ricorda innanzitutto: qualunque cosa tu faccia con l’intenzione di rendere più letterario il tuo testo, lo rovinerà. E’ un assioma, è un dato d’esperienza, è il quattordicesimo corollario (variante due) alla sesta legge di Murhpy, è il quarto segreto di Fatima: prendilo come vuoi, questo principio, ma devi crederci. E’ vero, punto. Il desiderio di rendere più letterario il proprio testo nasce da un senso di inadeguatezza, e se hai un senso di inadeguatezza vuol dire che sei disposti a qualunque tipo di errore (e di orrore) pur di non rischiare una brutta figura. Non è così che si fa letteratura. Si fa letteratura infischiandosene delle brutte figure.
2. Posto che la “lingua media” è un oggetto pressoché indefinibile – benché, in linea di massima, noi tutti abbiamo abbastanza chiaro che cosa intendiamo quando parliamo di una “lingua media” -, ciò che rende interessante uno stile sono gli scostamenti, gli scarti dalla “lingua media”.
3. Nelle sue Strategie oblique (Oblique Strategies) Brian Eno afferma: “La ripetizione è una forma di variazione”. Analogamente, lo “scarto zero” dalla “lingua media” è una forma di scarto. Nessuno di noi, mai, nemmeno quando scambia quattro chiacchiere col vicino di casa o con la persona amata o con l’esattore delle tasse, resta sempre rigorosamente nell’ambito della “lingua media”: può scapparci un po’ di lessico tecnico, una parola rara usata per dire qualcosa di raro, uno scivolamento nel dialetto “per fare colore”, e così via. Un testo scritto senza mai uscire dai confini della “lingua media” (ovunque siano, questi indeterminabili confini) sarà (a) come minimo un testo interessante, (b) come massimo un testo stranissimo (e di una stranezza, tra l’altro, enigmatica e difficile da intuire).
4. Le caratteristiche principali della “lingua media” sono: l’imprecisione e la richiesta di aiuto all’interlocutore. Quando dico: “Mi dài quella roba là, per piacere?”, chiedo all’interlocutore di riempire un vuoto. Nella vita quotidiana lo facciamo mille volte al giorno, e va benissimo; ma quando produciamo un testo scritto non siamo difronte al nostro interlocutore (lo scritto è una comunicazione differita) e non siamo in grado di controllare la pertinenza della sua collaborazione. La pura e semplice precisione lessicale è quindi già uno scostamento, e non da poco, rispetto alla “lingua media” (ma forse potremmo dire: alla “comunicazione media”). Le conversazioni sono sempre co-costruite (e possono essere co-costruite bene e co-costruite male, naturalmente), un testo scritto deve invece avere la forza di trasferirsi tale e quale nella mente del lettore. Tutti i discorsi, così romanticamente anni Settanta, sull’ “opera aperta” e la cooperazione del lettore – riguardano altro. La frase, così spesso risonante nelle aule dei corsi di scrittura creativa, “Volevo lasciare al lettore la libertà di immaginare”, è una scusa da pigri.
5. A rendere interessante uno stile non è tanto la scelta lessicale, quanto l’organizzazione sintattica. Piuttosto che passare le giornate sui dizionari per cercare parole ricercate, atruse, reboanti, raffinate, sciccose e così via, da mettere nel testo al posto delle parole d’uso quotidiano, prova a passare le giornate a decidere in che modo vuoi che siano fatte le tue frasi. Le vuoi lunghe? Corte? Vuoi un misto di corte e lunghe? E le frasi lunghe, saranno ricche di subordinate disposte a incastro, o allineeranno tante coordinate? E le frasi corte, saranno sempre verbali o talvolta (o spesso) anche nominali? Saranno frasi sempre complete, o smozzicate? E poi: saranno perentorie, assertive, energiche, le tue frasi, o saranno esitanti, dubbiose, deboli? Saranno esplicite e nette, o reticenti e piente di ombre? Saranno ben distaccate l’una dall’altra, o cercherai di accumularle, di farle rotolare giù per il testo come una valanga che man mano s’ingrossa? Eccetera. Prova a immaginare quanti tipi diversi di frase possono esistere. Visto che leggi, e che per te leggere è importante, comincia a prender nota di quanti tipi diversi di frasi incontri.

6. Ti ho vietato di passare le giornate sui dizionari per cercare parole ricercate, ma ora ti impongo di passare le giornate sui dizionari per cercare le parole precise. Non si tratta solo di dire pane al pane e vino al vino, ma anche di dire esattamente che cosa c’è sulla tavola imbandita. I personaggi che buttano giù un piatto di pasta, che si fanno un’insalata, che chiedono il dolce, che sorseggiano un bicchier di vino, non si sa che cosa mangino o bevano. Certo, questa esigenza di precisione è un fatto moderno (e postmoderna è l’esigenza di specificare a es. le marche dei prodotti); il buon Petrarca, volendo descrivere un paesaggio ristoratore, poteva limitarsi ad elencare “fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi, / valli chiuse, alti colli et piagge apriche” (vedi); ma già Giovanni Pascoli se la prendeva – come noto – con Giacomo Leopardi che metteva in mano alla sua “donzelletta” un “mazzolin di rose e viole” (perché quando fioriscono le rose, le viole sono già bell’e andate). Il segreto, che tanto segreto non è, sta nel trovare sempre una mediazione tra la precisione acrimoniosa e la genericità.
7. Un altro segreto che non è tanto segreto è che: tra uno scarto verso l’alto e uno verso il basso non c’è poi tanta differenza. Un testo “sporcato” di dialettismi può essere altrettanto prezioso che un testo cosparso di purissime scelte linguistiche. Come nei ristoranti più impossibili (per le tasche comuni) può capitare tanto di vedersi servire una pietanza incomprensibile, mai vista, a occhio addirittura non commestibile, frutto della sfrenata inventiva dello chef, quanto di vedersi proporre, e con enfasi, i famosi “piatti della tradizione”, quelli della “cucina povera”, ossia la polenta e la pasta e fagioli e le sarde in saór (sono veneto, e per me la tradizione è questa; lettrici e lettori di altre zone d’Italia si facciano gli esempi da sé), così un testo può essere arricchito tanto da movenze artificioisissime e lussuosissime quanto da robusti innesti di parlato, di italiano regionale, di dialetto, o addirittura di parole volgari. Sempre cum grano salis, com’è ovvio: la misura è tutto.
8. Spesso vedo proporre come “maestri di stile” proprio quegli scrittori che dello stile hanno fatto l’uso estremo: i propugnatori dello “scarto massimo” tra la parola letteraria e la parola comune (la “lingua media” di cui sopra): Gadda, prima di tutti, e poi Arbasino, o risalendo più indietro Carlo Dossi, o addirittura il Giovanni Faldella. Scrittori meravigliosi, per carità (soprattutto i primi due, a gusto mio), ma perché non proporre come “maestri di stile” anche i maestri dello stile semplice? dello “scarto minimo”? Giuseppe Pontiggia, per esempio. Provate a leggere le Vite di uomini non illustri. Una prosa praticamente perfetta; e tutta, completamente, rispettosa di ogni norma della buona creanza.
9. Peraltro, i prosatori, i narratori, i romanzieri, eccetera, dovrebbero prima o poi decidersi di capire che se vogliono sopravvivere – se vogliono durare un poco nel tempo – devo andare ad abbeverarsi presso poeti e poete. Nella poesia, come tutti sanno, si va a capo prima che sia finita la riga. Questo andare a capo produce un contrasto, una “frizione”, tra l’andamento sintattico della frase e l’andamento del verso; ed è questo contrasto, questa tensione continua, che dà forza al discorso. Chi scrive in prosa deve dotarsi, per così dire, di una propria metrica segreta, in maniera che la sintassi non si dipani mai in tutta tranquillità e scioltezza, ma sempre debba fare e i conti con qualcosa, con una diversa ritmicità. Quale ritmicità? Quella, per esempio, del respiro; quella della propria voce; quella di un altro scrittore, magari grande o grandissimo, al quale si pensa mentre si scrive – non per copiarlo né per imitarlo, ma per usarlo come se fosse una lingua data, e con quella lingua dire altre cose. Un po’ come Olivier Messiaen, che ascoltava gli uccelli, ne annotava il canto, e poi lo usava come base armonica per le sue composizioni.
10. Comunque, se posso darvi un consiglio vero: non preoccupatevi di risultare interessanti. E se non ci arrivate da soli, a capire perché, leggetevi questo mirabile pezzo, Lord Brummel o Dell’arte di non farsi notare, scritto da Achille Campanile.
* * *