«Diteci, per piacere, che cosa dobbiamo scrivere per essere pubblicati»

di Giulio Mozzi, direttore della Bottega di narrazione

Torino, qualche anno fa. Forse quindici. Un convegno organizzato non so più da chi, forse dal Premio Calvino, presso il Circolo dei lettori. Tema: l’esordio in letteratura. Intervengono editori, editor, consulenti editoriali, agenti letterari. Ci sono anch’io, al – troppo lungo, forse – tavolo dei relatori.

A un certo punto un giovanotto del pubblico chiede la parola e dice: «Insomma, io vi ho ascoltati tutti, e non ho capito. Diteci, per piacere, che cosa dobbiamo scrivere per essere pubblicati». Ricordo che provai, lì per lì, il – pessimo – istinto di scavalcare il tavolo e di gettarmi al collo del giovanotto: non per abbracciarlo, ma per strozzarlo.

Nel silenzio assoluto che si era prodotto in sala contai fino a dieci, accesi il mio microfono e dissi più o meno: «Se il tuo scopo è essere pubblicato, e non invece scrivere un’opera letteraria degna, al meglio delle tue possibilità, abitata e conformata dal tuo immaginario – allora non ci siamo. Se la tua ambizione è diventare un fornitore di testi commerciabili per le aziende editoriali – allora non ci siamo». Eccetera.

Il punto, ovviamente, è: qual è l’orizzonte? Ogni persona che si affacci – con più o meno decisione, più o meno talento, più o meno conoscenza – sul mondo della scrittura e dell’editoria finisce col costruirsi il proprio orizzonte. L’orizzonte definisce, grosso modo, ciò che ha il diritto e/o la possibilità di esistere. Io, per esempio, ai miei inizi (parlo del 1992: preistoria), non sapevo che esistesse un pregiudizio (non del tutto infondato, e non solo dal punto di vista commerciale: possiedo almeno sette Storie del romanzo italiano nel Novecento, e nessuna Storia del racconto italiano nel Novecento) contro i libri di racconti. In effetti, una delle proposte che ricevetti all’epoca, da un ottimo editore, fu: «Se di questo racconto riesci a fare un romanzo, te lo pubblichiamo». Confesso che ci provai: aggiunsi a quel racconto quattro pagine, e mi fermai là. Telefonai: «Quel racconto resta un racconto», e diedi così addio, senza rimpianti, a quindici milioni (di lire del 1992: il mio stipendio netto di un anno) di anticipo.

Mi domando – ora che un romanzo, finalmente, l’ho scritto – che cosa mi sarebbe successo se avessi accettato quella proposta, se ci avessi provato con più impegno. E mi rispondo che boh, la storia non si fa con i «se», e comunque ho fatto benissimo a pubblicare, negli anni Novanta, quei tre libri di racconti che tuttora, presso i miei venticinque lettori, mi identificano: Questo è il giardino, 1993, La felicità terrena, 1996, Il male naturale, 1998. Non fu, la mia, una resistenza eroica alle sirene del mercato: semplicemente, preferii fare quello che mi veniva di fare. Non volli forzarmi. Non sapevo bene cos’era, questa cosa nuova che mi stava succedendo – le storie che mi affioravano nella mente, che così facilmente si traducevano in parole e frasi – e preferivo osservare il processo, lasciarlo accadere, piuttosto che dargli subito degli scopi, delle ambizioni, dei limiti.

In Bottega di narrazione cerchiamo di fare due cose: non forzare, allargare l’orizzonte.

La manualistica è piena di modelli di storie, di modelli di forme, di modelli di tipologie testuali. Bene. Ma la manualistica è la manualistica, è come i libri di cucina: tra l’esecuzione precisa, con tutti gli ingredienti accuratamente reperiti, di una determinata ricetta letta nel libro e il desiderio di un risotto con il radicchio che sorge alla vista di un ottimo radicchio tardivo sui banchi del mercato, c’è una certa differenza. Non abbiamo nulla contro i buoni libri di cucina, sia chiaro, né contro la buona manualistica dell’how to write. La nostra scelta però è quella di lavorare sul desiderio.

Crediamo che la forma di una narrazione possa nascere dalla sua stessa materia – che è poi nient’altro che l’immaginario dell’autore. Cerchiamo perciò di essere molto maieutici e poco prescrittivi; di domandare molto spesso «E allora, come si potrebbe fare?» e di dire raramente «Fa’ così». E, in effetti, un’avventura che capita spesso a chi frequenta la Bottega è proprio quella di inventare una forma nuova, specifica per la propria materia, o almeno di spostare la propria scelta dalle forme più usuali ad altre meno consuete.

Per allargare l’orizzonte c’è un solo modo: lavorare sulla lettura. La gran parte delle nostre allieve e dei nostri allievi ha alle spalle delle esperienze di lettura sostanzialmente convenzionali: ciò che si fa leggere a scuola, i libri dei quali molto si è parlato, un certo numero di classici tra Ottocento e primo Novecento, qualcosa di attuale, e così via. Il che va benissimo, come preparazione di base.

Noi cerchiamo, cogliendo l’occasione di volta in volta, cercando analogie e somiglianze tra il lavoro dell’allievo e i libri letti conservati nella nostra memoria, di suggerire letture nuove. Più innovative. Meno frequentate. Più germinali. Meno standard. Ci divertiamo anche molto, a farle, queste proposte di lettura, e allieve e allievi capiscono presto che le nostre sono anche un po’ delle provocazioni. Così può capitarci di proporre canoni alternativi (un Novecento italiano senza Moravia e Calvino, ma con al centro Pomilio e Coccioli, per esempio; un Novecento americano senza Hemingway ma con molto Dos Passos e molto John Barth, per fare un altro esempio; una letteratura mitteleuropea senza Kundera ma con Uwe Johnson; e così via); o di sostenere che il romanzo europeo (cioè tutto il romanzo, alla fin fine) nasce antiromanzesco e antirealistico (Rabelais, Cervantes, Sterne…) e che il realismo Ottocentesco è stato, storicamente, un errore; o di proporre Farabeuf di Salvador Elizondo (sua è la frase che leggete nell’immagine) e Cosmo di Witold Gombrowicz come complementari a Stephen King; e così via.

Ogni tanto abbiamo anche noi, quando leggiamo certi romanzi, la sensazione di leggere qualcosa che è uscito dritto dritto da una scuola; peggio, da una fabbrica. Con tutto il rispetto che abbiamo per la qualità tecnica (ne abbiamo parecchio, sia chiaro), la nostra ambizione è che le opere scritte e pubblicate dai nostri allievi siano irriconoscibili, non riducibili a un modello o a una serie di modelli, ciascuna costruita iuxta propria principia. E che i lettori dicano: «Si vede che questa roba qui non viene fuori da una scuola di scrittura».

Detto questo, se pensate che possano interessarvi i nostri corsi e laboratori, trovate tutto qui: https://bottegadinarrazione.com.

Una opinione su "«Diteci, per piacere, che cosa dobbiamo scrivere per essere pubblicati»"

  1. Non sempre sono d’accordo con quanto scrivi, ma qui sono con te al 100%. Io, di tizi come quello la cui unica preoccupazione è pubblicare, ne conosco decine. Forse centinaia. Li trovo RIDICOLI per le stesse ragioni che ricordavi nel tuo pezzo. La pubblicazione è l’ultima cosa; io offerte di pubblicazione ne ho ricevute molte e parlo di editori non EAP, beninteso. Piccoli editori, ma buoni, strutturati e ben noti. Ho rifiutato sempre perché ritenevo che i miei romanzi non fossero pronti, perlomeno non abbastanza buoni, non sufficientemente buoni per me. Non cerco la perfezione, anzi, l’imperfezione in letteratura reputo possa nobilitare e conferire maggiore prospettiva a un romanzo, tuttavia, chi scrive deve capire quando il suo romanzo è pronto e quando no. Quello che posso dire è che la mia unica preoccupazione è scrivere romanzi che stiano in piedi, alimentarli di buone letture, che spaziano tra i grandi classici e ciò che di buono si può trovare sulla bocca dei lettori e degli addetti ai lavori. Ma coi libri a volte vado pure a scatola chiusa, tanto gli concedo tot. pagine e se non mi prendono li mollo poiché per me un libro è un appuntamento e se l’incontro regge si va avanti e se no ci si rimette in cerca di ciò che ti rapisce e ti scombussola in maniera forte, che alla fine sono quelli i libri che contano. E intanto che leggi continui a scrivere, a rubare mondi e soluzioni, perché le soluzioni al tuo romanzo spesso le trovi nei romanzi degli altri. Così facendo la scrittura matura, cresce, le gambe si irrobustiscono e una volta che staranno davvero in piedi, voglio credere che quei romanzi prenderanno la strada che devono prendere. In alternativa, mi resterà l’immensa gioia che mi ha dato lo scriverli. Amo i romanzi e allo stesso modo i cassetti, là dentro, pure se non pubblicati, i miei scritti staranno benone.

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