di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno. Dicevo la settimana scorsa: che quando qualcuno viene da me e mi dice, colpendosi la fronte con un dito: «Sa, io la storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa», la verità è (di solito) che in testa ha solo un germe della storia.
Le parti importanti della retorica, comunque, erano le prime tre: inventio, elocutio, dispositio. Tuttavia, nei trattati di retorica, l’inventio faceva spesso la parte del leone, a spese della dispositio: trovare gli argomenti, la materia, i contenuti, significa automaticamente già cominciare a organizzarli, a disporli secondo logica, narrazione ed efficacia. Quanto all’elocutio, spesso si riduceva a una sorta di catalogo, tendenzialmente sterminato, di “bei modi di dire”: figure retoriche, giri di frase, ritmi sonanti, parole belle, e così via. Insomma, più che di stile (lo stile dovrebbe essere, credo, qualcosa che agisce dentro la scrittura), quei trattati parlano di ornamenti del discorso (e l’ornamento è qualcosa che si appiccica esternamente). Tutti noi sappiamo che non bastano gli ornamenti (abiti, gioielli, maquillage) a fare di una donna una donna elegante, cioè una donna provvista di stile.
Così, alla fin fine, il cuore della retorica è la prima delle sue cinque parti: l’inventio, il trovare la materia. E di questo, nelle prime puntate di questo corso, parleremo molto.
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Si può imparare a inventare? Si può imparare a cercare? In linea di massima sì. O almeno: impegnandosi, ci si può migliorare. Si possono imparare dei metodi (ne proporrò alcuni seri, altri divertenti o imbarazzanti). Ma a una condizione. Che è questa: accettare di considerare la fantasia come il nostro peggior nemico.
I bambini, si dice, hanno tanta fantasia. Spesso si inventano storie mirabolanti. Eppure, se ci pensate, i bambini vogliono sentirsi raccontare sempre le stesse storie (e guai a cambiare una sola parola!). Infatti, le storie che s’inventano, cioè che si raccontano da sé, sono sempre le stesse storie. Il bambino ama la ripetizione. Il bambino che si racconta storie è, senza saperlo, un po’ come l’atleta che instancabilmente ripete, ripete, ripete il gesto o la serie di gesti che gli serviranno durante la competizione o la partita: si allena.
Il difetto della fantasia è che essa procede sempre per contiguità, passa da una cosa alla cosa vicina, fa il minimo sforzo – e, soprattutto, non si guarda intorno e non pensa al futuro: è tutta concentrata lì, sul presente, sul passaggio che sta compiendo in quel momento. Inoltre la fantasia è involontaria: fa quello che vuole, non funziona a comando, quando decide di incrociare le braccia non c’è niente da fare. Non va.
L’invenzione adopera, senz’altro, la fantasia; ma non si riduce alla fantasia. Dicevo: accettare di considerare la fantasia come il nostro peggior nemico. Era una frase esagerata; l’ho detta così, per fare impressione; ma in fondo è quello che penso. Perché la fantasia è invadente, pretende di comandare lei, s’intrufola dappertutto, anche quando non la si vuole: e fa fare errori.
Piuttosto che di fantasia, quindi, l’invenzione si nutre di immaginazione. Immaginare significa: produrre una visione. Una visione è un oggetto un bel po’ più complesso e ricco di un semplice passaggio da una cosa a un’altra. Ma dell’immaginazione, e del suo essere una facoltà razionale e rigorosa, parleremo la settimana prossima. A risentirci.