100 lezioni di scrittura creativa / 3

di Giulio Mozzi

[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

Buongiorno. Siamo ancora – dalla settimana scorsa – a quel punto lì, di quello che diceva, battendosi la fronte con il dito: «Sa, io la storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa». A chi mi dice così, io in genere non gli credo. Soprattutto se subito dopo aggiunge: «Il problema è che non so raccontarla. Mi manca la tecnica».

Corsi di scrittura creativa
Il bando 2015-2016
Noi viviamo immersi nelle storie. Torniamo a casa dal lavoro e qualcuno ci chiede: «Com’è andata?»; noi raccontiamo, e poi: «E a te, com’è andata?». Prendiamo il treno e in trenta o trecento chilometri impariamo tutta la vita dei nostri compagni di viaggio. Leggiamo il giornale. Guardiamo la televisione. Andiamo al cinema. Mentiamo alla moglie, all’amante, e anche a noi stessi. Raccontiamo storie, vere, storie false, storie inventate. Continuamente.

Il raccontare è per tutti noi un comportamento normale, che facciamo senza neanche pensarci su: come il camminare, il guidare l’automobile, il fischiettare. Ci sono persone più o meno abili nel raccontare. Può succedere che un’emozione, uno spavento, un dolore ci rendano temporaneamente incapaci di raccontare. Ci sono patologie che inibiscono la lingua o la capacità di articolare una narrazione. Possiamo perdere la capacità di raccontare una determinata cosa (abbiamo fatto un incidente e non ci ricordiamo nulla; siamo state violentate e non siamo capaci di dirlo). Ma, insomma, mediamente, generalmente, credo che si possa dire: tutti sono capaci di raccontare, bene o male, una cosa che hanno in mente.

Già: ma raccontare per iscritto è una cosa diversa. In che cosa è diversa? In una cosa sola è diversa: la narrazione scritta è una narrazione fissata e isolata. Parlando posso essere impreciso, posso correggermi o ricredermi, posso andare a salti, posso giovarmi di gesti e facce, posso prendere sottobraccio l’ascoltatore, posso far conto sulle domande che lui mi farà (se dimentico un pezzo di storia, l’interlocutore interverrà), posso spiegarmi alla buona, posso girare intorno, posso essere poco chiaro, posso dire: «Sì, insomma, allora lui prese su una di quelle robe là, come si chiamano? Quelle che ci hanno il coso sopra, hai presente?», facendo un gesto con la mano destra, come per pulire un vetro, «che poi si prende da una parte, e lo si gira», con un gesto della mano sinistra, dall’alto al basso, verso l’esterno «e con l’affare sotto, giallo, quello mobile, no?»; e l’interlocutore, bene o male, mi capirà, o mi interrogherà finché non riuscirà a farmi spiegare.

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Una narrazione scritta invece è narrazione fissata e isolata. È lì per sempre, non può essere cambiata; e deve fare da sola, non può fare conto – se non entro limiti ristretti: ne parleremo  sulla cooperazione del lettore. Tutto ciò che nella narrazione orale si improvvisa, si produce lì per lì, si fa e si disfa, nella narrazione scritta dev’essere perfettamente calcolato.

Questo perfetto calcolo è il lavoro dell’immaginazione.

* * *

Immaginare significa, prima di tutto, immaginare il lettore. Quando noi parliamo – non solo per raccontare, ma anche nella conversazione, in una lezione, in un tentativo di vendita, in un bisticcio, in una dichiarazione d’amore, in una trattativa – abbiamo sempre ben presente, davanti a noi, l’interlocutore. Regoliamo sull’interlocutore il nostro tono di voce, la scelta delle parole, il giro delle frasi, le cose che diciamo e quelle che omettiamo, le formule di cortesia, gli eufemismi, le scorciature e le spiegazioni in dettaglio, i riassunti e le divagazioni. Guardiamo chi ci sta di fronte, ne interpretiamo le reazioni, ascoltiamo i suoi interventi, spiamo la sua faccia: letteralmente cuciamo addosso all’interlocutore il nostro discorso o la nostra narrazione.

Quando raccontiamo per iscritto, cioè facciamo una narrazione narrazione fissata e isolata, non c’è niente di tutto questo. Il lettore, ce lo dobbiamo immaginare. Non nel senso che dobbiamo immaginarci un lettore maschio, femmina, colto, incolto, amante dei classici o della letteratura dozzinale, esperto o inesperto, eccetera; o meglio: sì, ci immagineremo anche tutto questo – ne parleremo, ne parleremo – ma prima di tutto dobbiamo immaginarci il lettore come un qualcuno che segue la storia, vorrebbe intervenire, fare domande, contraddirci, dubitare; e come un qualcuno che si appassiona, si diverte, si emoziona, ride, piange, si stanca, si stufa.

Mentre scriviamo e raccontiamo dovremmo sentire il lettore. Soprattutto dovremmo sentire i suoi tempi. A volte diciamo, di un romanzo o di una commedia o di un film, che è troppo lungo o troppo corto, che non ha ritmo, che sembrano mancargli delle cose, che ci si perde nella narrazione. Bene: quando diciamo questo, stiamo dicendo che, secondo noi, il romanziere o il drammaturgo o il cineasta non hanno saputo governare bene i tempi della narrazione. Cioè che non sono stati capaci di sentire il lettore.

Il lettore, peraltro, siamo noi. E così vi assegno il primo esercizio di questo corso di scrittura e narrazione a puntate: provate a osservarvi mentre leggete, mentre assistete a una commedia o guardate un film. Non c’è altro modo di imparare a immaginare il lettore, che provare a sentire noi stessi mentre siamo lettori. Per questo si dice: «Se vuoi scrivere, devi leggere». Perché noi siamo prima di tutto lettori, perché scriviamo in quanto abbiamo letto, abbiamo fatta l’esperienza del leggere.

Una narrazione è, in fondo, una specie di lunga lettera inviata a uno sconosciuto. Così come, nello scrivere una lettera alla persona che più amiamo, metteremmo moltissimo impegno nell’immaginare la reazione di questa persona a ogni nostra singola parola, similmente nel narrare dovremo mettere moltissimo impegno nell’immaginare la reazione a ogni nostra singola parola della persona che più amiamo: il nostro lettore, la nostra lettrice.

Perché, in effetti, non si scrive mica per sé stessi; così come non ci si ama da sé. Si scrive per un’altra persona, molto più importante di noi; così come la persona che amiamo è molto più importante di noi. Ci risentiamo la settimana prossima.

6 pensieri riguardo “100 lezioni di scrittura creativa / 3

  1. Bello questo pezzo, Giulio. In effetti quando si scrive una lettera a qualcuno ci si impegna molto, molto di più che, ad esempio, con un racconto. Secondo te, vista la difficoltà di immaginare un lettore generico, può essere utile immaginare un lettore specifico? Che so: la mamma, la fidanzata, il professore di lettere, Giulio Mozzi…

  2. Magari è più utile immaginare un lettore specifico per specifiche scene o sequenze del racconto, a seconda delle emozioni richieste dal personaggio che stiamo raccontando, piuttosto che “assumere” un lettore specifico per tutto il racconto.

  3. Mi viene istintivamente da dire una cosa ma non so se è vera, forse lo è solo per me. Appurato il fatto che sia utile avere (o immaginare) un interlocutore (o un lettore) di riferimento, otrebbe essere però che magari uno non riesca a raccontare a voce (nonostante gli aiuti fisici) ma riesca a farlo per iscritto? Cioè: scrivere è molto più facile che parlare. Credo per tutti. No?

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