100 lezioni di scrittura creativa / 10 (dove si smette di menare il can per l’aia, o almeno si promette di smettere)

di Giulio Mozzi

[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

Buongiorno. Scusate, ma devo sbrigare un po’ di posta. Un lettore mi ha scritto nei giorni scorsi, via posta elettronica: «Caro Mozzi, le sue chiacchierate su Stilos sono anche belle e simpatiche; però, devo dirle, ho l’impressione che lei stia menando il can per l’aia. A sentir lei, dovremmo essere sempre lì ad aspettare, a esitare, a farci mille domande, a immaginarci il possibile lettore, a cercare modelli da imitare, a riflettere sull’origine di ciascuna parola o di ciascuna formula narrativa che ci venga in mente; ma, come dire, prima o poi dovrà pur venire il momento di mettersi lì, ed effettivamente scrivere. O no? Mi dica, sinceramente: ma lei, si comporta davvero così come ci suggerisce di comportarci? E poi: le cose che ci racconta, lei le ha sempre sapute, ancora da prima di scrivere il suo primo racconto, quando ha sentito di avere la vocazione del narratore, oppure le ha imparate nel tempo, a forza di scrivere e scrivere? Perché, vede, può darsi che ciò che lei ci racconta sia giusto e sensato; però può anche darsi che certi modi di procedere, di ragionare e di immaginare, possano essere imparati solo a forza di fare, di agire, di scrivere; mentre potrebbe essere del tutto inutile sentirsene parlare così, preventivamente, astrattamente…».

Il lettore, come si vede, è persona di grandissimo buon senso. Ebbene sì, è vero: sto menando il can per l’aia. È vero: prima o poi deve pur venire il momento in cui ci si mette lì a scrivere, e succeda quel che succeda (purché succeda qualcosa). È vero, non sempre io mi comporto nei modi in cui vi suggerisco di comportarvi: a volte lavoro moltissimo prima di scrivere, altre volte mi siedo a scrivere il giorno stesso in cui l’idea mi è venuta in mente; a volte mi riempio di scrupoli realistici, altre volte tiro via dritto limitandomi a controllare le cose essenziali. È vero, tutto ciò che vi racconto non l’ho saputo da sempre, l’ho imparato un po’ per volta, a forza di scrivere e pubblicare; ma soprattutto l’ho imparato a forza di stare in aula – in innumerevoli “corsi” e “laboratori”, nonché “workshop” e “cantieri” di “scrittura” – a cercare di insegnare ad altri come fare per benino qualcosa che a me, in fin dei conti, viene del tutto naturale.

Non è vero, invece, che io abbia un giorno sentita la vocazione del narratore. Di questo, peraltro, parleremo un’altra volta.

Ho cominciato a scrivere il mio primo racconto il 17 febbraio 1991, all’età di trentun anni e mezzo. Il mio primo libro è uscito in libreria il 30 aprile 1993. Se penso a che cosa ero allora devo dire: ero un narratore ingenuo e sentimentale. Molto ingenuo, e sentimentale in una maniera un po’ cervellotica. Oggi, se rileggo quei racconti scritti dieci, dodici anni fa [per voi che leggete ora, sono più di venti…], mi dico: «Ma come ho fatto a inventarmi queste cose? Da dove le ho tirate fuori?»; e, confesso, spesso non so rispondere. Mi sento dire a volte che quei miei primi racconti sarebbero più “amabili” di quelli che ho scritti poi. Io penso che quei primi racconti abbiano delle qualità che i racconti successivi non hanno più avute, proprio perché allora ero assolutamente ingenuo e indifesamente sentimentale.

Poi, come succede, sono diventato adulto. I bambini hanno una grazia che poi perdono. Io ho persa quella grazia – e forse ho perso ogni tipo di grazia, non so. Certo è che da tre anni abbondanti (l’ultimo mio libro di racconti è uscito nella primavera del 2001) io non invento più storie nuove; saltuariamente scrivo racconti su commissione, a tema, in una situazione che è molto più quella del gioco – magari un gioco assai serio – che quella dell’invenzione. La cosa in sé non mi dispiace. Lavoro come consulente editoriale, e occuparsi dei libri degli altri non è meno bello, interessante e divertente; e forse è più utile. Dà molte soddisfazioni.

[Postilla 2015. In realtà da allora in poi le cose sono andate un po’ bizzarramente. Ho scritto molto in rete, e le mie storielle in rete sono diventate un libro. Ho scritto un paio di pamphlet, imprevedibilmente, d’argomento religioso. Qualche mese fa ho fatto un libricino, Favole del morire, del quale sono molto fiero e che mi sembra molto solido, benché sia composto di testi scritti nell’arco di più di un decennio. Quindi come narratore non sono proprio morto del tutto].

Occuparsi della scrittura degli altri, nei laboratori di scrittura o come consulente editoriale, è un esercizio curioso. Bisogna, per così dire, uscire da sé stessi, dimenticarsi il proprio gusto e il proprio modo di ragionare, lavorare perché la scrittura di un’altra persona diventi spiegatamente ciò che al momento è solo in potenza. Un po’ come il buon genitore, che lavora perché il figlio diventi ciò che può essere e non perché diventi ciò che lui, il genitore, desidera che sia. Non è semplice essere buoni genitori.

In un romanzo di fantascienza che mi piace molto, Dune di Frank Herbert, c’è una battuta che dice più o meno (vado a memoria): «Tutti sapevano che cosa dovevano fare. Lui non dava mai ordini. Una volta che avesse dato un ordine, sarebbe stato costretto a ripeterlo ogni volta». Credo che le cose stiano più o meno così. Preferisco menare il can per l’aia – mettiamola così: dare l’impressione di star menando il can per l’aia  piuttosto che dire: «Fate così e cosà». Preferisco proporre dei criteri, dei modi di pensare, piuttosto che compilare un elenco di regole o di consigli vincenti. Sbaglio? Può darsi. Ma, al momento, non mi viene niente di meglio.

Devo però dire: tra i miei racconti ce n’è di migliori e di peggiori, di quasi belli e di molto brutti (spesso, di quanto un racconto sia brutto, me ne accorgo quando lo vedo stampato nel libro); e generalmente quelli che mi sembrano, anche a distanza di tempo, più validi, sono quelli in cui ho agito in modi simili a quelli che vi ho proposti fin qui. Magari ho agito in quei modi prima di rendermi conto che erano dei modi, prima di riuscire a pensarli in astratto. Fatto sta che quei modi ci sono.

Ovviamente, possono esserci altri modi. Cerco di trasmettere ciò che ho nella mia esperienza.

* * *

Altri lettori e altre lettrici mi domandano se insegno nel «laboratorio di scrittura» che spesso pubblica inserzioni pubblicitarie in Stilos. Rispondo: no. È un laboratorio che non conosco.
Per questa settimana, dunque, è tutto; gli esempi di imitazione da Oceano mare sono ulteriormente rimandati, e siete autorizzati a dubitare che ve li proporrò mai. A rivederci.

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