Scrivere di sé: giusto? sbagliato? (prime noterelle)

Vincent Van Gogh, Selfie
Vincent Van Gogh, Selfie



di Giulio Mozzi

Una delle domande che mi sento rivolgere più spesso da chi muove i primi passi nella scrittura è: “Quello che sto scrivendo è fondamentalmente autobiografico. Faccio bene? Faccio male?”.

La domanda, si vede subito, è molto ingenua. Per me è forte la tentazione di rispondere: “L’importante è che tu faccia una bella opera. Poi, che sia o che non sia autobiografica, chissenefrega”.

Però questa risposta, e anche qui si vede subito, è poco caritatevole. Ed è anche poco utile. Cerchiamo dunque di approfondire.

“Tutto, in fondo, è autobiografia”

Si dice (dico: si dice, perché la fonte di questa citatissima frase non mi è nota) che Samuel Beckett (che era Samuel Beckett, e che scriveva quello che scriveva) abbia detto una volta (ed era un evento, che Samuel Beckett, taciturno professionista, dicesse qualcosa): “Tutto, in fondo, è autobiografia”.

Nelle “postille” pubblicate in fondo al suo primo romanzo Il nome della rosa Umberto Eco scrive:

All’inizio i miei monaci dovevano vivere in un convento contemporaneo (pensavo a un monaco investigatore che leggeva il “Manifesto”). Ma siccome un convento, o un’abbazia, vivono ancora di molti ricordi medievali, mi sono messo a scartabellare tra i miei archivi di medievalista in ibernazione (un libro sull’estetica medievale nel 1956, altre cento pagine sull’argomento nel 1969, qualche saggio strada facendo, ritorni alla tradizione medievale nel 1962 per il mio lavoro su Joyce, e poi nel 1972 il lungo studio sull’Apocalisse e sulle miniature del commento di Beato di Liebana: dunque il Medio Evo veniva tenuto in esercizio). Mi è capitato tra le mani un vasto materiale (schede, fotocopie, quaderni) che si accumulava dal 1952, e destinato ad altri imprecisissimi scopi: per una storia dei mostri, o per un’analisi delle enciclopedie medievali, o per una teoria dell’elenco… A un certo punto mi son detto che, visto che il Medio Evo era il mio immaginario quotidiano, tanto valeva scrivere un romanzo che si svolgesse direttamente nel Medio Evo. Come ho detto in qualche intervista, il presente lo conosco solo attraverso lo schermo televisivo mentre del Medio Evo ho una conoscenza diretta.

Quindi, sgomberiamo il terreno da una prima questione, fin troppo ovvia: non possiamo trattare una materia
– se non la conosciamo
– e se tale materia non costituisce il nostro “immaginario” (non necessariamente “quotidiano”).

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In realtà, però, la questione non è poi così ovvia. Se ci domandiamo “Cosa significa, conoscere una materia?”, ci rendiamo conto che una risposta precisa non c’è. Se poi ci domandiamo “Quanto a fondo dobbiamo conoscere una materia, per pensare di conoscerla abbastanza?”, àpriti cielo. E qui, in realtà, posso solo rimandare al senso di responsabilità di ciascuno.

Poi: che cosa significa, che una certa materia “costituisce il nostro immaginario”? Qui la risposta è facile. Quando eravamo bambini, talvolta giocavamo identificandoci con Sandokan, Jo March, Sandro Pertini, o 宇宙海賊キャプテンハーロック (ogni generazione ci ha i suoi miti). Avevamo dunque un immaginario: un luogo nel quale potevamo stare come in un altro mondo. E, dirò di più: un altro mondo che, nel gioco, dà al primo mondo, intendo il mondo dell’esperienza, senso e significato.

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E’ probabile che per un monaco del Trecento draghi e sirene fossero reali tanto quanto gatti e cani; o forse addirittura più reali, perché proprio grazie alla loro inattingibilità potevano essere dotati per via d’immaginazione, di narrazioni, di speculazioni, di un surplus di realtà. In fondo, un gatto o un cane non significa nulla; mentre una sirena significa molto, proprio in quanto esiste (nell’immaginario) solo in quanto significa (magari per vie tortuose; magari il significato si è depositato nei secoli e non è più immediatamente percepibile; eccetera; ma c’è).

Torniamo dunque a noi. Raccontare a partire dalla propria esperienza di vita – ovvero, come si usa dire, fare dell’autobiografia o inserire nell’opera qua e là elementi autobiografici – ha senso nel momento in cui noi, alla nostra esperienza di vita o a parte di essa o ad alcuni avvenimenti specifici della nostra vita, conferiamo (o ci accorgiamo di aver conferito, o forse anche decidiamo di conferire) un surplus di realtà.

Nella mia vita (parlo proprio di me), che dura da cinquantacinque anni, ci sono avvenimenti che tornano continuamente alla mia memoria. La morte della giovane donna che amavo, e mi amava, quando avevamo vent’anni; la scomparsa di un’altra donna amata, resasi irreperibile da un giorno all’altro, molti anni dopo: ecco due eventi che in più di uno dei miei racconti sono evocati, allusi, o raccontati esplicitamente. Che uno dei due sia un evento immaginario – e non vi dirò quale dei due – , è poco rilevante per chi legge: entrambi gli eventi hanno ricevuto da me, non volontariamente, un surplus di realtà. Che si tratti evidentemente di due perdite, vorrà dire qualcosa: ma non tocca a me scovare il senso e il significato della faccenda.

Le prime righe di Città di vetro, in Trilogia di New York di Paul Auster
Le prime righe di Città di vetro, in Trilogia di New York di Paul Auster

“La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo”. Mi pare abbastanza chiaro. Il problema di molte narrazioni ingenue (autobiografiche o no) è proprio la presenza di un eccesso di spiegazioni. Leggiamo il conosciutissimo sonetto di Dante:

  Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
  Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
  Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;
  e par che de la sua labbia [il viso] si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

Visto? Nessuna spiegazione. Dante ci dà solo dei fatti: gli effetti che la vista della giovane donna produce su di lui (e anche sugli altri); anzi, ci dice che questi fatti non può “intenderli”, cioè capirli, se non chi li “prova”, cioè li sperimenta.

Scrivere di sé e pedagogia, scrivere di sé e terapia

Sgomberiamo il campo da una cosa. Il racconto di sé, orale o scritto, è parte integrante di numerosi interventi pedagogici o terapeutici. Bene. Qui non stiamo parlando di quello. Se volete leggere qualcosa di intereressante e utile sullo scrivere di sé in una prospettiva pedagogica, vi invito a leggere l’articolo Scrivere di Sé. Il piacere di raccontarsi di Silvia Montevecchi. Non so se è il testo migliore sull’argomento; a me pare chiaro, sommario ma completo, non troppo lungo né troppo breve.

Da numerosissime persone sento pronunciare la fatidica frase: “Per me scrivere è come una terapia”; e quasi tutte queste persone non scrivono che di sé, e spesso sostengono apertamente di scrivere “per sé”. Ora, io mi permetto di essere convinto che non esiste terapia senza relazione, o più esattamente che la relazione è la terapia. Mi pare che la scrittura abbia un certo potere di “fissare” pensieri e immaginazioni, e la fissazione in sé non mi pare necessariamente un bene. Scrivere “per sé”, cioè scrivere non in una relazione (immaginaria, a distanza, temporalmente dislocata ecc.) è il contrario di una “terapia”.

Che raccontare per iscritto cose della nostra vita (o della vita delle persone a noi più vicine) produca delle conseguenze sulla vita stessa, questo mi pare indubbio. Ma queste conseguenze, se ciò che stiamo cercando di fare è qualcosa di bello, non possono essere lo scopo della scrittura; o almeno non sono lo scopo principale.

Si scrive sempre per qualcun altro

La scrittura ha sempre un destinatario. Non ha senso raccontare di sé se non si racconta per un destinatario, per qualcuno che ci sta ad ascoltare o che ci leggerà. Come noto, esistono numerose opere senza autore – ovvero, delle quali l’autore è del tutto ignoto – e che hanno grande importanza nella nostra tradizione culturale (dall’Odissea al Qohèlet, dalla Rhetorica ad Herennium a Lazzarillo del Tormes. Non si ha notizia, invece, di opere senza lettore: poiché nessuno le ha lette, esse non esistono.

Sto forzando un po’, spero sia evidente, e tuttavia non posso esimermi dal dire che l’autore non è indispensabile, il lettore è indispensabile. Scrivere di sé non significa invadere il lettore: significa mettersi al suo servizio.

La vostra vita non è interessante

Ricevo spesso narrazioni autobiografiche da persone che sono convinte, e lo dicono nella lettera d’accompagnamento, che la loro vita sia interessante. “Come un romanzo”, aggiungono spesso. A me una narrazione autobiografica in senso proprio – cioè una narrazione nella quale l’autore si impegna a raccontarmi cose vere e solo cose vere – può interessare solo se non è “romanzesca”: e la ragione mi pare evidente. Nel momento in cui sento puzza di romanzesco, smetto di credere all’autobiografia in quanto tale e comincio a “credere” (notare le virgolette) al romanzo in quanto romanzo, cioè opera di finzione (vedi anche l’articolo: Che cosa fa sì che una storia sia “credibile” per il lettore?).

Ci sarà una ragione se, dei tanti libri di memorie scritti da chi è sopravvissuto ai campi di concentrazione, pochi si leggono ancora; e sopra a tutti Se questo è un uomo di Primo Levi. Perché quel libro sì e gli altri no? Se tutti quei libri di memorie testimoniavano la stessa cosa, perché solo uno ci risulta, oggi, “interessante”?

Le risposte possono essere due, credo:
– perché in realtà non tutti quei libri di memorie testimoniavano la stessa cosa,
– perché l’interesse di un libro di memorie non dipende solo dalla “materia” della memoria.

Adesso che le ho scritte, mi viene il dubbio che le due risposte siano la medesima risposta. In realtà basta confrontare Se questo è un uomo con il pur amabilissimo Diario clandestino di Giovannino Guareschi per rendersi sconto da un lato che, effettivamente, i due libri non testimoniano la stessa cosa; e dall’altro che tra le due opere c’è una differenza artistica e di valore incolmabile.

La grande burla dell’autofiction

Dico “grande burla” perché mi pare che, se come canterellava Pessoa “il poeta è un fingitore”, mi pare che il narratore autofinzionale sia molto spesso un narratore trompeur. E’ vero che da quando un narratore (eccellente) che è anche un accademico si è messo a scrivere narrazioni autofinzionali – parlo di Walter Siti, ovviamente – l’autofiction è diventata per la critica accademica una categoria importantissima.

L’autofiction (da pronunciarsi alla francese, perché dal francese viene la parola) è una pratica narrativa nella quale l’autore stesso compare, con nome e cognome (e la narrazione può essere in prima come in terza persona; con alcune varianti interessanti come certi racconti di Tiziano Scarpa dove un io narrante nomina un certo Tiziano Scarpa, ecc.) e con riferimenti evidenti alla sua vita reale per quanto nota al lettore; e tutta via ciò che viene narrato non corrisponde alla vita dell’autore.

A volte questa non corrispondenza è dichiarata, come fa appunto Siti quando comincia un romanzo (Troppi paradisi) con le parole: “Mi chiamo Walter Siti, come tutti”; dove non solo ogni lettore capisce subito che il “Walter Siti” di quella storia è un Signor Chiunque o un Signor Tutti, e non il Walter Siti il cui nome compare sulla copertina del libro; ma un certo numero di lettori (non tanto grande, credo) coglie subito l’allusione a un grande mistificatore, il compositore francese Erik Satie, che cominciava la sua (menzognera) autobiografia con le parole “Je m’appelle Erik Satie, comme tout le monde”.

In Italia, dove le narrazioni autobiografiche contemporanee non godono – chissà perché – di buonissima stampa, l’autofiction oggi è propriamente di moda. Ma di questo, che è una faccenda complicata, parleremo un’altra volta.

Esperimento: l'esplosione dell'Ego
Esperimento: l’esplosione dell’Ego

10 pensieri riguardo “Scrivere di sé: giusto? sbagliato? (prime noterelle)

  1. È un argomento molto interessante, aspetto le prossime puntate. (Ti segnalo un refuso: “evienti”)

  2. Post molto, molto interessante. E proprio per questo, come al solito, ho un dubbio.
    Giulio, tu scrivi:
    «Non possiamo trattare una materia se non la conosciamo e se tale materia non costituisce il nostro immaginario.»
    E poi:
    «Il problema di molte narrazioni ingenue (autobiografiche o no) è proprio la presenza di un eccesso di spiegazioni.»
    E ancora:
    «L’autore non è indispensabile, il lettore è indispensabile.»
    E dunque: che rapporto ci deve essere tra la mia conoscenza della materia, la conoscenza e/o le aspettative che di questa ha il lettore e la necessità di non stordirlo con un eccesso di spiegazioni?
    Chiarisco, spero, con un esempio.
    Poniamo che mi venga il guizzo di scrivere un romanzo ambientato nel Settecento. La protagonista del mio romanzo è una contadina di 25 anni che ha quattro figli. Il più piccolo, di circa due mesi, muore per un’epidemia di scarlattina (gli altri tre si ammalano ma, più grandi e più forti, sopravvivono). Ora, per scrivere detto romanzo mi documento sulla famiglia e la genitorialità e gli usi e costumi del Settecento (dico per dire: non è il mio caso) e m’imbatto in queste parole dello storico François Lebrun: «La morte di un bimbo, purché battezzato, è considerata, sul piano religioso, come una liberazione, perché il neonato ha avuto la grazia di accedere direttamente al paradiso senza conoscere l’amarezza della vita terrena e senza rischiare la salvezza spirituale; sul piano umano, un banale incidente, cui porrà rimedio un’altra nascita.» Oggi è inconcepibile che la morte di un bambino venga vista come una liberazione e/o un banale incidente e qui mi scontro dunque con le aspettative e il vissuto del mio lettore. Come devo comportarmi: attribuire alla mia protagonista sentimenti a lui comprensibili (dolore e afflizione estremi), oppure mantenermi coerente con la contestualizzazione storica? In questo caso, però, il lettore finirà per giudicare negativamente la mia protagonista e il senso che io voglio dare alla storia potrebbe uscirne completamente travisato.
    Potrei allora decidere di aprire man mano delle parentesi per dare al mio lettore tutte le informazioni che presumibilmente non possiede. Manzoni lo fa: introduce i bravi, e apre una parentesi per spiegare chi fossero e cosa facessero nel Seicento questi bravi. Mette in bocca all’Azzecca-garbugli un’allusione al ciuffo, e apre una parentesi per spiegare che cosa fosse questo ciuffo e che significato avesse all’epoca. Ma non rischio di tediare il lettore con un eccesso di informazioni? (per carità: Manzoni non tedia, ma non tutti siamo come Manzoni).
    In sostanza: come si bilanciano i tre aspetti di cui sopra? (sempre se ha senso porsi un problema simile).

  3. Valentina: se vuoi fare narrativa “popolare”, sii anacronistica. Se vuoi fare qualcosa di più “alto”, mantieniti coerente con la contestualizzazione storica. Le spiegazioni tipo Manzoni (“tra parentesi”, diciamo) erano normali nei romanzi di quel tempo; non lo sono più (se non, ecco, ancora, nella narrativa “popolare”…) nel nostro tempo. Cercherai piuttosto di far passare quelle informazioni attraverso appropriate scene, dialoghi, eccetera.
    E alla domanda finale posso solo rispondere: col buonsenso, a partire dallo scopo dell’opera, dalla sua natura, dal pubblico al quale ti rivolgi,, dalle tue intenzioni, dalle tue ambizioni e così via.

    Peraltro non prenderei per oro colato la frase di Lebrun: da altre letture (es. certi libri di Adriano Prosperi) io ho ricavato un’impressione diversa.

    (Scrivo al volo, in treno, con la pila quasi scarica…).

  4. Peraltro, non va dimenticato che nel Settecento la popolazione maschile era, in Europa, nettamente superiore a quella femminile: perché le donne morivano di parto (più esattamente: a parte le morti nel parto, comunque frequenti, morivano per infezioni contratte durante il parto o poco dopo). Più o meno un parto ogni cinque comportava la morte della donna (sono molto approssimativo, ma è per dare un’idea).

    Ora: se tu sei al mondo per obbedire al marito e fare figli, e se fare figli significa morte una volta su cinque, puoi essere indifferente alla perdita di un figlio?

    E peraltro ancora: bisogna vedere che tipo di Narratore vuoi che ci sia nell’opera. Manzoni, ‘sto furbastro, si inventò non solo la faccenda del manoscritto ma anche la messa in scena di lui stesso che trascrive il manoscritto e man mano lo commenta. Il capitolo xxv s’interrompe nel bel mezzo del cazziatone che il Cardinale fa a don Abbondio:

    – Torno a dire, monsignore, – rispose dunque, – che avrò torto io… Il coraggio, uno non se lo può dare.
    – E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piùttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? […] Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? […] Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
    E tacque in atto di chi aspetta.

    Voltiamo pagina, un po’ stuccati forse da tanta esibizione di virtù a parole, e leggiamo:

    A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s’era ingegnato di risponder qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de’ nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.

    Ecco: un narratore così, che non ha timore di mettersi nella scena in questo modo (mancano solo il lume di candela e la papalina in testa…) può prodursi in tutti gli spiegoni che vuole. E lo fanno, ma parodisticamente, ancora, certi narratori che poi vengon detti postmoderni

  5. Ti ringrazio, Giulio: ora è molto più chiaro. Ho sempre pensato che le parentesi o gli spiegoni manzoniani contribuissero molto alla leggibilità del romanzo: se le cose me le spiega lui, che le sa spiegar bene (e per cose intendo: la contestualizzazione storica e quel che ne deriva), non saranno necessarie le spesso tediose, per quanto necessarie, note di commento.
    Mi viene in mente, per confronto, un’opera come Gli Ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (Adelphi, 1980) (mi viene in mente perché l’ironia studiata e tagliente di Kraus mi ricorda a volte quella manzoniana, ma forse è un collegamento tutto mio): il dramma è così legato alla quotidianità, alla politica e al costume viennese durante la Grande Guerra che, a meno di non conoscere a menadito la storia (e la cronaca) di quel periodo, molti passaggi sono veramente difficili da cogliere e apprezzare.

  6. Caro Giulio, ho letto questo post nel pomeriggio del 5 settembre, e mi ha colpito anche perché nell’intervento che avevo appena fatto al festival dell’Autobiografia di Anghiari mi era capitato di osservare quanto la scrittura e lo scrivere fossero per chi scrive, spesso, qualcosa di molto diverso da un esercizio di cura di sé, e anzi fossero luogo e atto di perdizione, di autopunizione, di autocostrizione, in una parola di sofferenza. Soprattutto, mi sembrava che la relazione tra scrittura ed io fosse sempre o quasi sempre conflittuale, anche quando si manifesta come espressione di un sé (autobiografico, diaristico, memorialistico) in modo piano.
    Per quanto riguarda la prospettiva dell’ autofiction, la cosa mi sembra un po’ più complicata che un banale trucco: ti invito a dare un’occhiata all’ultimo numero di Agalma. Rivista di estetica e studi culturali, edita da Mimesis (vedi anche sito della rivista), dedicato proprio a AUTOFINZIONE/AUTOINGANNO e dove la prospettiva letteraria ed estetica si mescola con quella psicoanalitica. C’è un bel po’ di materiale che sono certo ti interesserà così come i tuoi lettori e allievi.
    Un saluto, Fabrizio

  7. Sono contento del ruolo positivo di ogni burla! (ma io volevo fare un po’ di pubblicità a Agalma, mica fare lezioni!) ciao e grazie

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