Che cosa fa sì che una storia sia “credibile” per il lettore?

di Giulio Mozzi

Cominciamo da un luogo comune. Il poeta britannico Samuel Taylor Coleridge coniò nel 1817 una fortunata formula: il poeta e il narratore devono fornire al lettore

…a human interest and a semblance of truth sufficient to procure for these shadows of imagination that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic faith…

…un interesse umano e una parvenza di verità sufficienti a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria e temporanea sospensione del dubbio [o dell’incredulità], sulla quale si fonda la fede poetica…

In altri termini: il lettore deve essere messo nelle condizioni di “credere” (notate le virgolette) a ciò che gli raccontiamo, quantomeno per il tempo che il racconto dura. Parlo del lettore adulto, naturalmente, visto che i piccoli credono più o meno a qualsiasi storia. Tuttavia ciascuno di noi può trovare, nella vita adulta, esempi di una sorta di permanenza del credere: se guardiamo un film di paura di tipo classico e poi andiamo a letto, e gli scricchiolii dei mobili e il tintinnare dello scaldabagno c’inquietano; se leggiamo una storia passionale e poi ci resta il magone; se andiamo in giro con una t-shirt recante la scritta “Ho visto cose che voi umani..”, eccetera: be’, possiamo dire che la finzione alla quale abbiamo volontariamente creduto pur conoscendone la natura fittizia ha in qualche modo contaminato il mondo reale. Il “tempo” della “volontaria sospensione del dubbio” è durato un po’ più del previsto (ovvero: la “sospensione del dubbio” è rimasta, almeno parzialmente, al di là della volontà di attuarla).

E’ evidente, mi pare, che ogni lettore avrà i suoi criteri per decidere (magari con decisione inconsapevole: ma questo non è importante qui) se sospendere o no il dubbio a contatto con questa o quella narrazione.

E’ evidente, mi pare, che ci saranno in questo differenze individuali, ma anche (forse: soprattutto) differenze culturali (e quindi storiche). Una storia “credibile” per un bellunese non sarà necessariamente altrettanto credibile per un nanchinese: e viceversa.

Perché?

Perché la realtà in cui il bellunese e il nanchinese (per non parlare dei porteñi) vivono è diversa; ma anche perché il modo in cui il bellunese, il nanchinese, il porteño (e ci aggiungiamo anche il losangelino, ve’) si rappresentano la realtà è molto diverso.

Un paio di esempi facili. E’ chiaro che nel “mondo” de I promessi sposi Dio c’è. Non si manifesta con azioni soprannaturali; viene evocato più volte; ma è sostanzialmente un “Dio muto”. Gli eventi “quasi soprannaturali” più rilevanti, avvengono tutti nella coscienza e grazie alla coscienza dei personaggi: e intendo:

– la conversione dell’Innominato, che nasce da un disagio esistenziale (Manzoni non l’avrebbe mai chiamato così) e dopo un concitato colloquio viene attivata da un gesto del Cardinale (il capitolo è il xxiii):

Così dicendo, [il cardinale] stese le braccia al collo dell’innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento.
L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: – Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!

– la salvezza dell’anima di don Rodrigo, che nasce dal perdono di Renzo:

Dopo pochi passi [siamo nel Lazzaretto, cap. xxxv], il frate [Cristoforo] si fermò vicino all’apertura d’una capanna, fissò gli occhi in viso a Renzo, con un misto di gravità e di tenerezza; e lo condusse dentro.
La prima cosa che si vedeva, nell’entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva.
Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.
– Tu vedi! – disse il frate, con voce bassa e grave. – Può esser gastigo, può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione… d’amore!
Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.
Erano da pochi momenti in quella positura, quando scoccò la campana. Si mossero tutt’e due, come di concerto; e uscirono. Né l’uno fece domande, né l’altro proteste: i loro visi parlavano.

L'autore di questa scritta non il lettore ideale per I promessi sposi
L’autore di questa scritta non è il lettore ideale per I promessi sposi
E’ avvenuto qualcosa di soprannaturale? Sì? No? No, probabilmente no. La “conversione” dell’Innominato potrà spiegarsi tutta con la psicologia; e pure don Rodrigo, nei pochi momenti di lucidità, potrà essersi affidato a Dio. Tuttavia è chiaro che il lettore al quale Manzoni si rivolge è un lettore per il quale il mondo è stato creato da un Dio che non ha del tutto abbandonato le sue creature; oppure un lettore “in crisi”, che non riesce a staccarsi dalla credenza in dio e tuttavia non riesce a vedere in che modo Dio si prenda cura delle sue creature. E’ chiara l’intenzione di Manzoni in questi episodi: fornire un racconto del tutto credibile su un piano razionale, e insieme suggerire che vi sia in quegli eventi una “invisibile presenza” soprannaturale: alla quale non è necessario credere per godere la storia. Io posso anche essere un ateo straconvinto, ma niente mi impedisce di pensare che don Rodrigo – uomo del suo tempo – nel vedersi preso dalla peste si sia affidato a quell'(inesistente) Dio che per tutta la vita ha ignorato.

Ora: quand’è che noi pensiamo che qualcosa sia vero?

La domanda è da un milione di punti, per cui offrirò solo la più semplicistica delle risposte: ci sembra vero un discorso nel quale riconosciamo la vita come l’abbiamo sperimentata. Ovviamente possiamo avere diverse, diversissime esperienze di vita: vivere a Milano o a Gerusalemme non è la stessa cosa; lavorare come netturbino o starsene tutto il giorno a guardare Rete4 non è la stessa cosa; essere donna o essere maschio non è la stessa cosa; e così via. La celebre formula di Tommaso d’Aquino:

Veritas: Adaequatio intellectus ad rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio intellectus et rei.

si può tradurre e attualizzare un po’ arditamente:

Un racconto è vero quando corrisponde all’esperienza, quando l’esperienza corrisponde al racconto, quando discorso e racconto si corrispondono.

Ma, dice uno: e il fantasy? Come si può credere, sia pure temporaneamente, alle narrazioni fantasy?

Cercherò di spiegarlo per mezzo di un lunghissimo esempio. Che non c’entra niente con il fantasy, ma va bene lo stesso.

Il 13 novembre 2012 pubblicavo nel mio bollettino vibrisse una storiella intitolata Oro:

Sono a Tencarola, al capolinea del 12, seduto sulla panchetta sotto la pensilina. Aspetto il 12 delle 14.30. Sto leggendo Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale di Loris Della Pietra, edizioni Il Messaggero. Sono a pagina 141.
Pioviggina.
Mi si avvicina un tipo.
“Amico, puoi dare aiuto?”, dice il tipo.
Lo guardo. Ha una giacca di pelle scamosciata che – così a occhio – costa più di tutto quello che ho addosso in questo momento. Ha tre catene d’oro – o almeno sembra oro – al collo. Ha anelli d’oro – o almeno sembrano d’oro – su tutte le dita, quasi tutti con pietre incastonate. Ha occhiali a goccia e a specchio. Ha stivaletti di pelle bicolori, bianchi e neri.
Non resisto.
“Con tutto quell’oro addosso, chiedi un aiuto?”, dico.
“Oro di famiglia, amico. Niente soldi”, dice il tipo.
“Non potesti darne via un po’, prima di chiedere la carità?”, dico.
“Impossibile, amico”, dice il tipo.
“Perché è impossibile?”, dico.
“Oro serve per fare colpo su donne”, dice il tipo.

Che cosa rende credibile (per il pochi secondi sufficienti a leggerla) questa storiella? Una quantità di cose:
– il fatto che da molto tempo (almeno dal 2002) io pubblichi più o meno regolarmente storielle di questo tipo (qui ne trovate altre, molte ne ho addirittura raccolte in un libro), al punto che per il mio lettore più fedele esse costituiscono una specie di mondo a parte; diciamo: “il mondo di Giulio Mozzi”.
– il fatto che nella storiella non avviene niente che sia di per sé incredibile;
– il fatto che nella storiella vi sono due personaggi stereotipati: il mendicante dall’apparenza opulenta e lo scrittore-lettore concentrato nella lettura di un libro inconsueto;
– il fatto che il mendicante fornisce alla fine una risposta argomentativamente attendibilissima, in quanto basata a sua volta su uno stereotipo.

Mentre altri fatti sono del tutto irrilevanti per la credibilità della storiella:
– che effettivamente a Tencarola, frazione di Selvazzano Dentro, provincia di Padova vi sia il capolinea di un autobus recante il numero 12; e che lì vi siano una tettoia e una panchetta;
– che effettivamente in quei giorni io stessi leggendo quel libro.

Tuttavia l'immagine di Google Maps Street View, presa nel novembre 2011, mostra un capolinea del 12 ancora privo di tettoia e panchetta
Tuttavia l’immagine di Google Maps Street View, presa nel novembre 2011, mostra un capolinea del 12 ancora privo di tettoia e panchetta

Tuttavia, forse qualche lettore pignolo sarà andato a controllare se quel libro esista; e aver scoperto che effettivamente esiste forse ha aggiunto qualche punto di credibilità alla storiella.

Il giorno dopo pubblicavo una storiella intitolata Sempre libro:

Sono a Tencarola, al capolinea del 12, seduto sulla panchetta sotto la pensilina. Aspetto il 12 delle 14.30. Sto leggendo Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale di Loris Della Pietra, edizioni Il Messaggero. Sono a pagina 176.
C’è un bel sole.
Mi si avvicina il tipo dell’oro.
“Amico”, dice, “tu qui tutti giorni?”.
“Non tutti”, dico.
“Amico”, dice il tipo, “tu sempre libro?”.
“Sì”, dico.
“Amico”, dice il tipo, “sempre stesso libro?”.
“Questo è lo stesso libro che leggevo ieri”, dico. “Quando lo finisco, ne comincio un altro”.
“Amico”, dice il tipo, “tu legge tanti libri?”.
“Sì”, dico.
“Amico”, dice il tipo, “perché legge tanti libri?”.
Lo aspettavo al varco.
“Per fare colpo su donne”, dico.
“No crede”, dice il tipo.

E’ chiaro che la credibilità della seconda storiella insieme si basa su quella della prima e la rafforza. Anche qui è un gioco di stereotipi. La progressione nella lettura (da pagina 141 a pagina 176) è sua volta, mi pare, un elemento di credibilità (secondo il principio: “Se mi dici che stai leggendo un libro, ti credo poco; se mi dici che libro è, ti credo un po’ di più; se specifichi addirittura la pagina, ti credo del tutto”; ovvero: i dettagli sono un elemento di credibilità).

Terzo giorno, terza storiella, Una

Sono a Tencarola, al capolinea del 12, seduto sulla panchetta sotto la pensilina. Aspetto il 12 delle 14.30. Sto leggendo “Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale” di Loris Della Pietra, edizioni Il Messaggero. Sono a pagina 199.
Rannuvola.
Arriva il tipo dell’oro. Con lui una ragazza. Splendida.

Le tre storie formano una specie di sillogismo retorico (ovvero un entimema):
– l’uomo dall’apparenza opulenta attira le donne,
– l’uomo che legge sempre non attira le donne,
– e infatti è l’uomo con l’apparenza opulenta che arriva con una ragazza splendida.

E così la credibilità dell’una contribuisce alla credibilità dell’altra. Nel frattempo, osserviamo che anche il lettore non abituato al “mondo di Giulio Mozzi” ora comincerà a percepirlo.

Che cos’è il “mondo di Giulio Mozzi”? E’ un mondo nel quale gli entimemi diventano realtà. Esattamente come il mondo del fantasy è un mondo nel quale ci sono i draghi, i maghi eccetera.

Quarto giorno, quarta storia: E poi toca a me.

Sono a Tencarola, al capolinea del 12, seduto sulla panchetta sotto la pensilina. Aspetto il 12 delle 14.30. Sto leggendo Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale di Loris Della Pietra, edizioni Il Messaggero. Sono a pagina 231.
Tira vento, le nuvole corrono nel cielo.
Arriva la ragazza che avevo vista, l’altro giorno, insieme al tipo dell’oro.
Si siede sulla panchetta accanto a me.
Volto pagina.
Le suona il cellulare. Lo prende dalla borsetta, guarda chi è, lascia che suoni. Non risponde.
“E il tuo amico?”, dico quasi senza alzare gli occhi dal libro.
“No più amico”, dice la ragazza.
“E come mai?”, dico.
“Lui noioso”, dice la ragazza.
Il cellulare suona ancora. La ragazza lo afferra e lo spegne.
“Perché noioso?”, dico.
“Lui sempre mio oro qui, mio oro lì, sempre suo oro, e poi toca a me pagare kebab, bilieti autobus, cinema, drink”, dice la ragazza.
“Ho capito”, dico.
Abbasso gli occhi sul mio libro, come per finire la conversazione.
“Anche fare amore con suo oro adosso, pretende, che mi lega con catene di oro”, dice invece la ragazza.
Ho come l’impressione di essere entrato in una intimità nella quale avrei fatto meglio a non entrare. Devo trovare il modo di uscirne.
“Ma non è una cosa eccitante?”, dico.
“Un casso”, dice la ragazza. “A me piace normale”.

Poiché il sillogismo retorico stabilito dalle storie precedenti evidentemente non può reggere più che tanto, qui si produce una svolta nella storia. Ovvero: il personaggio stereotipato del mendicante opulento viene svelato per quello che è (il falso ricco che fa pagare i conti agli altri: altro stereotipo).

Paradossalmente (non sono sicurissimo di quello che dico qui; diciamo che ci speravo) la credibilità di questa quarta storiella viene proprio dall’introduzione di qualcosa di assai poco credibile; ovvero l’intrusione del personaggio che legge nell’intimità della coppia. Perché questo rinforza credibilità? Perché, credo, permette di rifunzionalizzare l’oro; la cui erotizzazione, presente in forma debole fin dall’inizio, è qui esaltata. Ma poiché qua siamo ai limiti del credibile, ecco che la ragazza provvede, con la battuta finale, a riportare tutto nell’ambito di una qualche “normalità”.

Pertanto: il “mondo di Giulio Mozzi” è un mondo nel quale gli entimemi tentano di diventare realtà, ma vengono poi fatti fuori.

Notiamo che nei commenti in calce alla storiella ce n’è uno firmato: “Il conducente dell’autobus”. E dice:

Io ho visto tutto.

Nessuna avrà creduto, ovviamente, che sia intervenuto davvero il vero conducente dell’autobus. Tuttavia, quella dichiarazione di testimonianza…

Quinto giorno, quinta storiella: E’ come i romanzi. Già il titolo è sospetto, vero?

Sono a Tencarola, al capolinea del 12, seduto sulla panchetta sotto la pensilina. Aspetto il 12 delle 14.30. Sto leggendo Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale di Loris Della Pietra, edizioni Il Messaggero. Sono a pagina 259.
Il cielo è limpidissimo.
Il conducente dell’autobus esce dal bar, guarda l’ora, si accende una sigaretta.
“E i due piccioncini?”, mi dice.
“Hanno litigato“, dico.
“Bene, bene”, dice il conducente dell’autobus.
“Come, bene bene?”, dico. “Mi pareva una storia così bella, così tenera, così imprevedibile, ricca di aspetti antropologici e di potenzialità narrative, con aspetti comici ma anche tragici…”.
“Si vede che lei è uno che legge libri“, dice il conducente dell’autobus.
“Cioè?”, dico.
“Non capisce un cazzo della vita”, dice il conducente.
“Signor conducente dell’autobus”, dico, “esigo una spiegazione”.
“Subito”, dice il conducente dell’autobus. “Lei ha mai collezionato francobolli?”.
“Da ragazzino”, dico.
“Perfetto”, dice il conducente dell’autobus. “Ha quindi un’idea del fatto che esistono francobolli facili da trovare e francobolli introvabili; e che questi ultimi hanno prezzi altissimi”.
“Sì”, dico, “ho questa idea”.
“Ci contavo”, dice il conducente dell’autobus. “E quindi, ha anche idea dell’agitazione, quasi della frenesia che prende i collezionisti quando vengono ritrovati – in vecchie soffitte, nel corso di vendite all’asta, eccetera – esemplari di francobolli introvabili dei quali non si aveva notizia”.
“Senza dubbio”, dico.
“Bene”, dice il conducente dell’autobus, “passando dall’elegante metafora alla realtà, lei assimilerebbe la signorina in questione a un francobollo facile da trovare o a un francobollo introvabile?”.
“Obiettivamente”, dico, “una simile bellezza non è facile da trovare”.
“Provi dunque”, dice il conducente dell’autobus, “a mettersi nei panni di un collezionista”.
“Di francobolli?”, dico.
“No, di bellezze femminili”, dice il conducente dell’autobus.
“Ok”, dico, “sono nei panni”.
“E per concludere”, dice il conducente dell’autobus, “provi a realizzare quali sentimenti può provare un collezionista di bellezze femminili nello scoprire che una bellezza femminile quasi introvabile, già vincolata a un buzzurro coperto d’oro probabilmente falso, è oggi svincolata e disponibile sul mercato”.
“Ho capito”, dico. “Quella ragazza lì, lei ambisce farsela”.
“Perché, lei no?”, dice il conducente dell’autobus.
“Veramente al momento ero preso da un altro aspetto della faccenda”, dico.
“Quale aspetto, di grazia?”, dice il conducente dell’autobus.
“Ma”, dico, “il fatto che con oro falso si possano conquistare ragazze vere”.
“E’ come i romanzi”, dice il conducente dell’autobus.
“Prego?”, dico.
“I romanzi”, dice il conducente dell’autobus, “raccontano storie inventate: e tuttavia lei ride, o piange, per davvero”.

(Lascio a voi immaginare chi fosse in realtà l’ignoto commentatore apparso in calce alla storiella precedente con la firma “Il conducente dell’autobus”…).

Allora: dal sillogismo entimemico (e dalla sua smentita) qui passiamo al dialogo socratico. E’ chiaro che qui la credibilità della storiella non ha più nessuna relazione col mondo dell’esperienza di un qualunque lettore: è in relazione con l’esperienza che un lettore ha avuto (leggendo le storielle precedenti) col “mondo di giulio mozzi”, che a questo punto può essere descritto come: un mondo nel quale le operazioni retoriche e logiche tendono a stare dentro la realtà.

Il “mondo di Giulio Mozzi” diventa quindi “vero” non nel senso che corrisponde a un’esperienza materiale, ma nel senso che rappresenta – con modi narrativi – delle operazioni retoriche e logiche (delle quali, eh sì, abbiamo esperienza). Tanto che, forse inevitabilmente, si arriva alla fine a mettere esplicitamente in questione la credibilità stessa della storiella:

“I romanzi”, dice il conducente dell’autobus, “raccontano storie inventate: e tuttavia lei ride, o piange, per davvero”.

Ma a questo punto – e direi: giustamente, a questo punto – un lettore insorge e, firmandosi “Santiago”, scrive nello spazio dei commenti:

Scusate ma sono l’unico che non si strappa i capelli su questa “altissima” pagina di letteratura?
Sono l’unico che si rende conto che un conducente di un autobus non parla così? Che non c’è un minimo di vita reale in questa storia?
Che la metafora “ragazze bellissime-francobolli rarissimi” è banalotta e strausata?
Ma soprattutto sono l’unico che non capisce il senso o meglio il perchè sprecarci una pagina su una cosa così? Ripetibile un milione di volte stando solo attenti a cambiare qualche leggera sfumatura?
Mi sa di sì.

Ovviamente “Santiago” ha ragione in tutto e torto nel complesso. Che cosa gli è successo? E’ successo che, evidentemente, a lui il “mondo di Giulio Mozzi” (come sopra definito) dice poco, o risulta non percepibile. Perciò confronta il conducente dell’autobus del racconto con i conducenti d’autobus della sua esperienza, anziché considerare il conducente dell’autobus del racconto come semplice portatore di un’istanza logico-retorica. E perciò non prende gli stereotipi dei quali le storielle sono fatti come elementi di un ragionamento (giocoso, se si vuole e finché si vuole) ma pretende che gli restituiscano, diciamo così, personaggi che potrebbero esistere in carne e ossa.

Ovviamente, il fraintendimento di “Santiago” può derivare da un’insufficienza artistica delle storielle. O da una sua personale indisponibilità a “stare al gioco”. Ma questo non è importante: è importante che “Santiago” sia intervenuto al momento giusto, cioè quando il concetto stesso di credibilità viene messo in crisi.

(Da notare – ma non ci addentriamo, sennò ne usciamo pazzi – che si chiama Santiago anche un personaggio che appare, sempre piuttosto di sfuggita, in tre o quattro miei racconti).

Sesto giorno, sesta storiella: Quelli che la disprezzano.

Sono a Tencarola, al capolinea del 12, seduto sulla panchetta sotto la pensilina. Aspetto il 12 delle 14.30. Sto leggendo Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale di Loris Della Pietra, edizioni Il Messaggero. Sono a pagina 283.
Fa un freddo cane.
Arriva il tipo dell’oro. Senza oro addosso.
“Amico”, dico facendo un gesto sul mio petto come per figurare una collana, “problemi? Hai dovuto vendere l’oro?”.
“No”, dice il tipo. “Lasciato casa”.
“E come mai?”, dico.
“Cambiata vita”, dice il tipo.
“E che cambiamento hai fatto?”.
“Basta ragazze che guarda solo oro”, dice il tipo. “Basta ragazze che si stufa subito. Basta ragazze che lo fa solo normale“.
“Ma a te come piace farlo?”, dico.
“Amico”, dice il tipo, “saranno casso miei”.
Si siede accanto a me sulla panchetta. Da una tasca della giacca di pelle scamosciata tira fuori Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, di Friederich D. Schleiermacher, edizioni Queriniana.
Si immerge nella lettura.
Sbircio. E’ già a pagina 42.

Qualcuno, non ricordo chi, scrisse una volta che una storia è fatta di un inizio, una fine, e di una certa quantità di roba messa in mezzo per tenere lontana la fine dall’inizio.

Questa storiella ha sostanzialmente lo scopo di posticipare la fine della vicenda (che arriverà infatti nella storiella successiva e ultima). Ma serve anche a fare una cosa che tutte le narrazioni tradizionali (o stereotipate) fanno: sistemare i personaggi.
Il nostro mendicante ex opulento, sconfitto dalla rivolta dell’entimema, cede e si assimila al personaggio lettore. Ma anche questo è l’inizio un sillogismo retorico:

– con l’oro non conquisto ragazze,
– proviamo con i libri.

E rimaniamo quindi sempre nel “mondo di Giulio Mozzi”, dove le operazioni logiche e retoriche stanno nella realtà.

Arriviamo quindi alla fine, dal titolo garbatamente ironico (visto quanto detto finora): Nella vita.

Sono a Tencarola, al capolinea del 12, seduto sulla panchetta sotto la pensilina. Aspetto il 12 delle 14.30. Sto leggendo Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale di Loris Della Pietra, edizioni Il Messaggero. Sono a pagina 311.
Accanto a me è seduto il tipo dell’oro, anche oggi senza oro. Legge Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, di Friederich D. Schleiermacher, edizioni Queriniana. E’ a pagina 75.
Il sole scalda, ma c’è un venticello freddo e sottile.
Arriva Santiago.
“Ragazzi, ma cosa diavolo leggete nella vita?”, dice.

Chi è “Santiago”? E’, diciamo, un omonimo del commentatore contestatore di cui sopra. E’ un personaggio che non ci sta al gioco del narratore. E’ un personaggio che rompe tutto, e determina quindi la fine della storia. Mettendola insieme in crisi, perché se “Il conducente dell’autobus” che si sporgeva a testimoniare è abbastanza scopertamente un intervento dell’autore, i lettori di tutta la serie hanno ben esperito “Santiago” come personaggio ammantato sì di mistero (non se ne conosce la vera identità), ma tuttavia ben reale. E trovarlo qui, che dice qualcosa di tutto sommato coerente con i suoi interventi nei commenti…

Conclusione.

Vale il principio di Tommaso d’Aquino,

Un racconto è vero quando corrisponde all’esperienza, quando l’esperienza corrisponde al racconto, quando esperienza e racconto si corrispondono,

ma con una importante correzione-integrazione: che l’esperienza di riferimento non è soltanto l’esperienza della vita; ma è anche l’esperienza delle storie; e, in particolare, l’esperienza della storia stessa che il lettore sta leggendo.

Ovvero: la “credibilità” è anche, e in certi casi (come quello esemplificato) soprattutto, una faccenda di coerenza. Se il “mondo” di una narrazione sta in piedi, ossia è coerente, allora quella narrazione potrà essere (volontariamente, temporaneamente) “creduta”. Perfino nei casi limite (come quello esemplificato), nei quali la narrazione finisce col richiedere, per propria coerenza, la smentita della propria credibilità.

E voi capite che se può essere resa credibile una storia in cui il “mondo dell’esperienza” sia il mondo delle operazioni retoriche e logiche, rendere credibile un mondo con draghi e maghi è altrettanto possibile. Certo: nel momento in cui a un drago squillasse il telefonino, entreremmo di botto in tutt’altro mondo…

34 pensieri riguardo “Che cosa fa sì che una storia sia “credibile” per il lettore?

  1. Sulla sospensione dell’incredulità. Stamattina sulla spiaggia un gruppetto di bambini (e bambine) ha preparato un vero e proprio banchetto di polli di sabbia, ananas di sabbia, pere di sabbia, torte di sabbia e caffè di sabbia. Nessuno di loro ha assaggiato alcunché.

  2. Giulio, una domanda: quanto occorre preoccuparsi dell’accuratezza dei dettagli? È possibile che ci siano tanti livelli di accuratezza quanti sono i miei potenziali lettori (o almeno: categorie di lettori)? E come arrivare a un compromesso che sia dignitoso ma percorribile? Un esempio per spiegarmi meglio: ho sempre pensato che frate e monaco fossero sinonimi. Invece, grazie a un libro di Birattari, scopro che no, che i monaci erano eremiti che, sotto l’impulso di San Benedetto, si riunirono a fare vita comunue nei monasteri, mentre i frati erano membri degli ordini mendicanti nati nel tredicesimo secolo per iniziativa, ad esempio, di san Francesco e san Domenico. Finora, tutte le volte che ho trovato frate e monaco usati come sinonimo non ho fatto una piega (d’altro canto sbagliano pure certi dizionari http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/F/frate.shtml). Credo invece che, da oggi in poi, la cosa finirò per notarla, ricavandone un’impressione negativa. Altro esempio, anzi due: 1. In I 15.000 passi di Trevisan (vado a memoria, spero di non sbagliare) Thomas descrive con cura i suoi scarponi con suola in gomma Vibran. Peccato che il marchio sia Vibram (da Vitale Bramani, il fondatore), e non Vibran. Alla prima occorrenza ho pensato a un refuso, alla seconda ho capito che era proprio un errore. 2. In un tuo racconto pubblicato nel Male Naturale (anche qui vado a memoria e spero di non prendere svarioni) si parla del piacere che il protagonista prova spremendo e spalmando il Vicks Vaporub sulla schiena di Miro. Ma per quel che ricordo (potrei sbagliarmi), il Vicks Vaporub è sempre stato distribuito in vasetto (successivamente in sciroppo): com’è possibile spremerlo? Ora: per il lavoro che faccio mi accorgo facilmente di incongruenze nella descrizione di prodotti. E queste incongruenze, forse trascurabili per i più, finiscono per minare un poco la mia volontaria e momentanea sospensione del dubbio. Mi sfuggiranno sicuramente molte altre cose che invece attirano l’attenzione di altri lettori. E dunque: chi scrive come fa a regolarsi? Perché: o si scrive solo ed esclusivamente di cose che si conoscono alla perfezione (la propria vita, in sostanza) o, volendo documentarsi, ci sarà sempre un limite alla quantità di nozioni che si è in grado di maneggiare (ci sarà sempre uno specialista che ne sa più di noi). Per cui: come ci si regola?

  3. “ Martedì 26 marzo 1996 – Gli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta la vita mi sorrideva. È una colpa? (La vita? Mi sorrideva la scuola, andarci attraversando i giardini deserti, imbiancati di brina, nel silenzio della mattina presto, denso, animato di presenze che non si vedono, mi sorrideva la campanella, il grembiule nero e il fiocco blu, i ragazzi ricchi e i ragazzi poveri, così ricchi e così poveri da sembrare finti. Mi sorrideva la penna e il pennino, che scrive doppio se sulla punta c’è un pelo, e per levarlo ogni volta ti si fanno nere le dita, ma il pelo, ogni volta, ritorna, mi sorrideva la carta assorbente, e le righe rosse dei quaderni, e i quadretti – un po’ meno -, e il panino, col burro e la marmellata, che a mangiarlo le dita ti si fanno appiccose. Mi sorridevano le sbucciature alle ginocchia, e le croste, e il sapore dolce e un po’ nauseante del sangue. Mi sorrideva il freddo sulle gambe nude, mi sorrideva il Vicks Vaporub, mi sorrideva la febbre alta, e tornare a scuola più alto e più magro, e trovare tutto un po’ strano, come se fosse passato un secolo. Mi sorridevano le vacanze, i regali di Natale, il presepio con la borraccina vera e i laghetti di specchio, mi sorrideva l’estate, arrivare sul mare, vedendolo di lontano, brillare come un gioiello, come una donna che ride. “ [*]
    [*] Lsds / 519

  4. Paolo: la sospensione dell’incredulità ha dei limiti

    Valentina: nel mio caso, la frase incriminata è

    …si metteva a cavalcioni della mia pancia, mi spremeva il Vicks Vaporub sullo sterno e poi, a mani affiancate, cominciava a massaggiare…

    dove tu hai ragione; la svista potrebbe anche essere nell’aver scritto “spremeva” anziché “stendeva” (perché, come è fatto il Vicks Vaporub, ce l’ho ben presente; tuttavia non potrei giurare di averlo avuto presente diciotto-diciannove anni fa, quando scrissi quel racconto).

    La tua domanda è ragionevolissima. La mia risposta è deludente: si fa quello che si può. Inevitabilmente si commetteranno degli errori.

    L’importante è non commettere errori in qualcosa che determina la visione della scena o, peggio, l’andamento della narrazione. In questo senso l’errore mio è più dannoso di quello di Trevisan, perché modifica la visione della scena (il suo – vado anch’io a memoria, non ho il libro sottomano – mi pare di no).

  5. Eh, caro te che ti firmi “woilà”: hai fatto cadere dal’alto la tua scempiaggine. Contento?

    E’ una scempiaggine, perché ci sono tre secoli almeno di storia della narrazione in Europa che dicono il contrario: ossia che la fortuna del romanzo deriva proprio, in grandissima parte, dalla sua capacità di raccontare delle storie “credibili”, nei quali i lettori ritrovano – per frammenti o per sostanza – la loro esperienza di vita.

  6. Grazie Giulio. Per la verità credo che il tuo errore sia più veniale di quello di Trevisan: certo, la visione della scena ne esce modificata, ma questo non si ripercuote né sulla visione che si ha del narratore, né sulla visione che si ha di Miro, e tantomeno si ripercuote sulla visione che si ha della relazione fra i due. Resta una svista e basta.
    Diverso è il caso di Vitalian. Lì Thomas definisce sé stesso, fisicamente, grazie a due prodotti: il giaccone che il padre portò con sé dalla ritirata di Russia e, appunto, gli scarponi. Entrambi gli oggetti Thomas ci tiene a descriverli bene, perché fanno parte del suo costume (non stile, proprio costume). Ora: se ti identifichi tanto con i tuoi scarponi non puoi, secondo me, sbagliare la marca della suola. A me, visto il duplice errore, è cambiata un po’ la visione del personaggio: mi è sembrato meno autentico, più atteggiato. Ma forse sono io a dare troppa importanza alla cosa…
    Vorrei invece portare il caso di un libro che ho interrotto proprio perché la (secondo me) mancanza di credibilità rendeva la lettura insostenibile. Il libro però è fra i premiati al Calvino: mi fido più della giuria del Calvino che della mia capacità di giudizio, dunque il mio modo di valutare la credibilità di un testo ha sicuramente qualcosa che non va (e la cosa mi preoccupa non poco, ecco il perché di tante domande).
    Il libro in questione è La vita accanto di Mariapia Veladiano. Abbiamo questa protagonista brutta, ma proprio brutta. « Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà. Ho tutti i pezzi al loro posto, però appena più in là, o più corti, o più lunghi, o più grandi di quello che ci si aspetta.» Dunque un donna bruttissima ma non deforme: non una freak, un fenomeno da baraccone, una donna-elefante. Eppure tutto quello che le capita (almeno, la parte che sono riuscita a leggere) è proprio da freak, da fenomeno da baraccone, da donna-elefante: la madre che non la vuole vedere e non la allatta (e qui potrebbe starci pure una nevrosi della madre), i bambini della scuola materna che hanno gli incubi a vederla, i genitori di suddetti bambini che chiedono alla maestra di escluderla dalla classe… Insomma, io tutte queste reazioni le giustifico con la presenza di una deformità grave (sembrano quasi le reazioni descritte in Frankenstein di Mary Shelley alla comparsa del mostro), non con una semplice bruttezza, per quanto esasperata. Però c’è quella frase: «Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà.» E io con quella frase in testa non sono più riuscita a continuare la lettura.

  7. “ Lunedì 12 marzo 2007 – « Raccontarsi è attraversare se stessi. E poi dirlo agli altri, senza imposizione alcuna, solo con la voglia di conoscersi e condividere. Chi sono… domanda difficile. Domanda bellissima. Io sono le parole che amo, le storie che racconto, gli amici più cari che mi accompagnano in questa vita. Sono nei colori di un fiore che cresce ostinato al bordo di una strada asfaltata. Vivo dentro al cielo, quando al tramonto si tinge d’arancio, sempre diverso, sempre se stesso. Sono nei quadri che dipingo, nella penna che uso quando scrivo, in un piccolo regalo che scelgo per fare una sorpresa. Sono nel piacevole tepore di un maglione d’inverno e nella libertà di una maglietta estiva, nel caldo sole d’agosto. Mi ritrovo nelle pagine degli scrittori che amo, nei fotogrammi di un film che mi commuove. Mi perdo negli occhi di chi amo e mi ritrovo in quelli di chi mi fa sorridere e sa ridere di sé. Sono le cose che amo: l’amicizia e la lealtà, la solitudine e la compagnia degli amici, il silenzio e lo scoppio improvviso di una risata. Correre in moto, quando la visiera del casco è alzata ed entra il vento. Parlare senza dire niente, perché gli occhi hanno già svelato tutto. Mangiare una brioche calda alla crema, bere una buona birra. Nuotare nel mare: quello salato d’estate e quello turbolento e dolce dei sentimenti. Penso che le persone siano onde: mai né vincenti né perdenti. Solo onde. Che mi portano via, mi affascinano, mi spingono e sollevano. E non so mai a quale spiaggia mi faranno arrivare. Ognuna delle persone che incontro è un’onda in cui mi tuffo volentieri. E mi piace chi sogna, chi sorride, chi vive e non sopravvive, chi non perde fiducia ed entusiasmo, chi pensa che un tramonto non sia una fine ma un inizio. E tutto questo non è questione d’età. Amo la curiosità quando è voglia di conoscere e non invadenza. Sono curioso “ come una donna “, dicono a volte i miei amici. E io rido. Ma credo che la curiosità sia una cosa bella, e comunque, che non appartenga ad una sola categoria. Amo il darsi del “ Tu “: è come darsi del “ Lei “. Dipende sempre e solo da come lo si fa. Poi, come diceva J. Prevert, “ non volermene se ti do del tu: io do del tu a tutti quelli che si amano anche se non li conosco. “ Amo il mio essere adulto oggi, perché è frutto del ragazzo che ero ieri. Che ha provato dolore, gioia, solitudine, delusione, voglia di reagire, speranza. Nessuno ti ascolta se non sei credibile. E sei credibile quando non nascondi il tuo universo. Amo i brividi che mi attraversano quando qualcuno mi ha capito e si ritrova in ciò che scrivo. K. Gibran affermava che “ il significato di un uomo non va ricercato in ciò che egli raggiunge, ma in ciò che vorrebbe raggiungere “. Ed io ci credo. – Federico Moccia è nato a Roma nel 1963. Lavora per il cinema come sceneggiatore e per la televisione come autore di testi per grosse produzioni dell’area intrattenimento. » (Dal web) “ [*]
    [*] Lsds / 520

  8. Valentina: la frase «Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà» significa, secondo me: la mia è una bruttezza non descrivibile, difronte alla quale non sono possibili reazioni culturalmente prescritte o accettate; e questo è coerente con le altre pagine “descrittive” della bambina, nelle quali Mariapia in verità non fornisce nessuna descrizione. Non dunque una “deformità grave”, ma una “bruttezza indescrivibile”, dalla quale deriva una inaccettabilità sociale (esistono invece “bruttezze descrivibili”, che una loro accettabilità sociale ce l’hanno). Inoltre a Mariapia serviva una bruttezza che non stimolasse in nessun modo il desiderio di aiutare (quindi non la zoppìa, ecc.).

    Poi, se quella frase brutale ti ha fatto interrompere la lettura, non ho niente da dire se non: che è una frase brutale, appunto, e capisco che possa far gettare via il libro. Anch’io, quando lessi il romanzo la prima volta (dattiloscritto, la notte dopo il Calvino), provai una qualche irritazione. Ma alla fine mi pare una frase-chiave di tutta l’opera.

  9. a proposito di Paolo: però l’altro giorno quando la mia bambina aveva preparato manicaretti di sabbia e erba e io con una mossa un po’ da prestigiatore le ho fatto credere di stare mangiando la sua robetta veramente, mi ha guardato con un certa meraviglia più che sbigottimento e mi ha detto ma no non si mangia si fa per finta. Piene consapevolezza quindi che non si tratta di cosa vera ma di gioco, di finzione. Era stata messa in piedi una storia in realtà, si era fatta autrice di una storia la cui credibilità come in tutte le storie non dipende da un confronto con ciò che sta fuori ma dalle regole del gioco che ci si è dati e dalla coerenza interna della finzione in base alle regole che ci si è dati (io mangiando sul serio ero uscito fuori dalle regole date ed è questo che un autore credibile non deve fare)

  10. “ Martedì 1 settembre 2015 – Vado in cerca di notizie su Franco Buffoni – che ha vinto il Viareggio per la poesia. Trovo, sul suo sito, la copertina di un suo libro: O Germania – è una raccolta di poesie del 2015. Il buffo – è il caso di dirlo – è che a guardarla si legge: « Buffoni o Germania ». E bravo il poeta. O è meglio dire il grafico? Penso che potrei scrivere un saggio: Perché non possiamo non dirci buffoni. Oppure fare un film: Buffoni-Germania 4-3. Etc. Etc. (Sur la lecture, n. 86352) “ [*]
    [*] Lsds / 521

  11. Cristian, scrivi:

    io mangiando sul serio ero uscito fuori dalle regole date ed è questo che un autore credibile non deve fare.

    E dieri che meglio non si poteva dirlo.

    Ovviamente poi ci sono le storie deliberatamente incredibili. Nella mia serie di storielle, l’apparizione finale di Santiago (che giustamente pone fine a tutto) è una violazione plateale delle regole. La letteratura del Novecento è piena di esempi, anche molto illustri, di violazione delle regole. La letteratura popolare però non le ammette.

  12. forse più che d violazione dovremmo dire smascheramento; un altro campo di regole quello di regole- smascheramento-delle- regole o ilcampo i del superamento impossibile di ogni regola perchè se il testo è un testo (textus) comunque sia non può essere caos ma cosmo

  13. Giulio, non è che io abbia interrotta la lettura per la brutalità della frase. L’ho interrotta perché non sono riuscita a trovare una risposta coerente (secondo me) alla domanda: «Quella bambina è un mostro oppure no?». Ora, se per mostro intendiamo (come fa Foucault qui http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/gli-anormali/) l’essere che trascende le classificazioni, la risposta che troviamo nel testo della Veladiano è ambigua. Posto che la concezione del mostro evolve storicamente (nel Medioevo, ad esempio, il mostro era il misto tra uomo e animale, poiché era difficile stabilire se potesse ricevere il battesimo oppure no), possiamo noi considerare la protagonista un mostro secondo la concezione odierna? D’istinto direi di sì: la sua bruttezza è indicibile (dunque non classificabile) e le reazioni altrui sono di estremo respingimento. Però poi troviamo non una, non due, ma diversi altri personaggi (il padre, la zia, la maestra, l’amica grassa, la pianista…) che accettano la bambina senza grosse difficoltà, non le difficoltà o le resistenze perlomeno iniziali che un mostro presupporrebbe (o che io mi aspetterei). È questo che mi ha mandato in confusione. Però sono forse io a pormi problemi inesistenti e questa faccenda del mostro non c’entra proprio nulla…

  14. Valentina: la bambina è percepita da alcuni come un “mostro”, e da altri no. Nei primi capitoli si autodefinisce come “bambina brutta” perché interiorizza la marginalizzazione.
    Riesco a spiegarmi?

  15. Sì, Giulio. Tuttavia mi manca ancora un passaggio: perché da alcuni è percepita come mostro e da altri no? E allora mi do questa spiegazione: non viene percepita come mostro (o come deviante rispetto alla norma) dalle persone che presentano, a loro volta, tratti di mostruosità o devianza: la zia bellissima e matta, la pianista vecchia e matta pure lei, l’amica grassissima… La coerenza interna sta in questo: che la devianza più grande e indicibile (quella della bambina) giustifica devianze più piccole e dicibili (quelle, appunto, di chi la accetta). Può essere o è troppo cervellotico? E in linea generale: ha senso quando si legge (e si scrive) pretendere e imporsi coerenze di questo tipo o si deve accettare, come nella vita, che ci sono cose che succedono perché succedono e amen? Grazie per la pazienza (lo so, sono una rompipalle).

  16. Ma, Valentina: di solito nelle narrazioni c’è una coerenza assai maggiore che nella realtà. Se non altro perché le narrazioni finiscono, hanno un approdo, mentre la realtà non finisce mai.

    La bambina grassa è grassa, ma nella narrazione (vado a memoria) non mi pare venga marginalizzata per questo. Pesa su di lei, piuttosto, e qui la marginalizzazione s’intravede, la situazione familiare. La maestra non mi pare sia oggetto di marginalizzazione.

    E’ curioso che tu parli di “devianza” (cioè di qualcosa che pertiene al personaggio X) mentre io parlo di “marginalizzazione” (cioè di qualcosa che gli altri personaggi fanno al personaggio X).

    L’importante, nel romanzo di Veladiano, non è che la bambina sia veramente “brutta”. L’importante è che c’è un certo numero di personaggi (a cominciare dalla madre) che a causa di qualcosa di cui lei non è minimamente responsabile la mettono al margine, la tolgono dal loro mondo.

  17. Cristian, la tua formula

    forse più che d violazione dovremmo dire smascheramento; un altro campo di regole quello di regole- smascheramento-delle- regole o ilcampo i del superamento impossibile di ogni regola perchè se il testo è un testo (textus) comunque sia non può essere caos ma cosmo

    è detta in un modo un pochino contorto, ma mi pare accettabile. Faccio notare però che introduce un giudizio di valore mascherato da criterio distintivo: è un testo ciò che è cosmo, non è testo ciò che è caos; ma dire “questo è cosmo, questo è caos” è appunto un giudizio di valore.

    Credo.

  18. Ti ringrazio, Giulio. Effettivamente io considero la marginalizzazione come il prodotto di una devianza subita o voluta (e il rimedio alla marginalizzazione per me coincide sempre con un processo parziale o totale di “normalizzazione”). Comunque adesso la faccenda mi è più chiara. Avrei un’altra domanda (no, non sul romanzo della Veladiano) sul rapporto tra coerenza interna al testo e coerenza con le aspettative e/o il vissuto del lettore, ma credo di aver abusato fin troppo della tua pazienza e me la tengo per quando scriverai un altro post sull’argomento 🙂

  19. certamente sì giudizio di valore, estetico-morale: platonicamente ciò che è bello è buono ciò che è buono è bello; il caos è brutto e non buono, il cosmo è bello e buono (poi certamente se nella fissità platonica introduciamo un po’ della dinamicità della fisica contemporanea sappiamo che perché si dia il fenomeno ci deve essere chi fa in modo che il fenomeno ci sia – questo ha a che fare un po’ con quanto chiedeva Valentina in fondo all’ultimo intervento). Il criterio estetico-morale può essere semplicemnete: sii coerente (come si diceva sopra), non imbrogliare consapevolmente o meno (criterio morale); non costruire cose sgraziate (non mettere insieme per es uno zoccolo e una scarpa) (criterio estetico)

  20. Da ignorante matricolato, che non dovrebbe nemmeno azzardarsi a pronunciare la parola “letteratura”, mi sono gustato parecchio questa lezioncina (il vezzeggiativo è affettuoso e non diminutivo). Facendo un parallelo col meta-teatro, mi pare che l’esperienza della tua serie di storielle si possa definire come un’esempio di “meta-letteratura 2.0”, per la presenza dell’elemento social network.
    Mi hai fatto tornare in mente un episodio risalente al 2004, che qui di seguito trascrivo così come raccontato sul mio blog:

    «Tempo fa lessi con molto piacere “Se una notte d’inverno un viagggiatore”, originale romanzo di Italo Calvino sul piacere di leggere (e di scrivere). Il racconto comincia in una stazione dei treni, dove un misterioso viaggiatore attende non si capisce bene chi o che cosa. La narrazione assume ben presto un ritmo bizzarro, saltando da un punto di vista all’altro, suscitando continue interferenze tra l’immaginario – chi vive il racconto – ed il reale – chi legge il racconto – fino alla conclusione del primo capitolo. Nel secondo, la storia si interrompe ed il testo comincia a dare del “tu” al lettore – cioè a “me”, chiamandomi in causa direttamente. Si rivolge proprio a me, l’io-lettore, che sono un accanito consumatore di romanzi, così eccitato nel tenere tra le mani una copia nuova di zecca dell’ultimo, attesissimo romanzo di Italo Calvino: “Se una notte d’inverno un viaggiatore”!
    Ed ecco – continua Calvino dandomi del “tu”, io-lettore riprendo la lettura, avidamente, desideroso di conoscere gli sviluppi della vicenda appena incominciata. Ma all’improvviso, stranamente, ho come l’impressione di leggere frasi già intese, di vedere immagini e udire suoni che ho già incontrato poc’anzi: così, con grande sorpresa, io-lettore mi accorgo che le stesse prime pagine si ripetono identiche per tutto il resto del libro! Un imprevedibile errore di stampa, ma… che scocciatura tremenda! Decisamente contrariato, io-lettore mi precipito di foga a cambiare il libro dal negoziante e… a questo punto mi fermo, perché comincia l’avventura vera e propria.
    Tuttavia, quell’invenzione letteraria mi colpì così tanto che dopo aver letto tutto il libro ci scrissi sopra un articoletto da pubblicare sul blog quando si sarebbe presentata l’occasione.
    Intanto, però, il tempo è passato e venerdì scorso me ne stavo sdraiato a leggere le ultime trenta pagine de “Il deserto dei Tartari”, di Buzzati, tutto contento per essere ormai vicino alla conclusione. Ad un tratto, passando da una facciata all’altra, mi accorsi di sfuggita che c’era una frase che non tornava: la rilessi un paio di volte, ma niente, non aveva proprio senso. Poi, come in un lampo, mi tornò in mente il romanzo di Calvino e l’occhio mi cadde sui numeri di pagina… Ebbene, dopo pagina 160 il libro riprendeva da pagina 139 ripetendole tutte fino alla 160! Poi basta, le pagine finivano e con esse la speranza di concludere il romanzo! Errore di stampa? Scherzo del destino?
    Non vi dico la meraviglia di quel momento: perché nel suo romanzo – dandomi del “tu”, Calvino mi aveva già mostrato me stesso vivere la medesima scena!»

  21. Eh, Personaggio col cappuccio di carta. La prima edizione (presso Theoria) di Un mondo meraviglioso di Vitaliano Trevisan fu disastrata da un errore clamoroso. Il testo era stato prima impaginato in corpo 12 e poi, poiché il libro veniva troppo grosso, in corpo 11,5. Fu mandato a stampare un libro che per i primi tre sedicesimi era in corpo 12 e per i successivi in 11,5. Ma le due parti non erano congiunte: pertanto il racconto nei primi tre sedicesimi non arrivava fino al punto in cui, nel quarto, riprendeva (spero di essere riuscito a spiegarmi).
    Segnalai l’incidente a un accademico che stava facendo un lavoro sulla narrativa veneta contemporanea. Scoprii che lui non s’era accorto della differenza di corpo e aveva interpretato il “salto” da una pagina all’altra come uno straordinario espediente narrativo…

  22. Uno straordinario espediente narrativo, eh? Interessante, d’ora in poi venderò così anche i miei orrori di stampa!
    Del resto, il cappuccio con le orecchie d’asino me lo sono auto-inflitto proprio a causa di un clamoroso errore di battitura

  23. non so se il blog è ancora attivo…
    sto leggendo proprio in questi giorni, cioè da ieri sera, “un mondo meraviglioso”, ed. theoria, e mi sono accorto stamattina che a p. 120 si interrompe un periodo che non so dove continua, per quanto abbia ispezionato attentamente le restanti 20 pp.
    p. 121 infatti inizia con la fine di un periodo che non c’entra niente col precedente, addirittura è diverso anche il soggetto. poi mentre a p. 127 sembra finire un capitolo, p. 128 inizia a metà periodo, con lettera minuscola.
    insomma, mi sa che l’unica è ricorrere all’edizione einaudi. comunque, mai visto un libro così disastrato! (cioè, in realtà sì, ne ho visti di peggio, ma non erano libri importanti, per me).

  24. Certo che il blog è attivo!

    Purtroppo la prima tiratura di “Un mondo meraviglioso” fu disastrata. Se osservi bene, noterai che il testo è composto, prima e dopo le interruzioni, in corpo diverso. Si fece una ristampa al volo, si tentò il ritiro delle copie distribuite, ma naturalmente qualcosa sempre sfugge…

  25. in ogni caso ho letto l’edizione einaudi e il libro mi è piaciuto moltissimo. così come ho adorato “i 15.000 passi”, “il ponte” e “works” (finito l’altro giorno) e, naturalmente, ancora di più, tutto il bernhard “romanziere”… la dico tutta: ci sono rimasto un po’ male, scoprendo trevisan, perché pensavo d’esser stato io il primo ad avere avuto l’idea di “scrivere alla bernhard” (è una droga: non riesco a smettere!). certo, trevisan lo fa molto meglio di me. soprattutto riesce a dare un taglio più narrativo, rispetto a molti libri di bernhard, che gli permettono di pubblicare e vendere. io temo che se bernhard, per il quale ho una specie di venerazione, scrivesse oggi in italia non troverebbe uno straccio di editore (ma se è per questo nemmeno kafka o beckett, e forse neppure céline). infine ho apprezzato anche il trevisan attore in “primo amore” (e anche lei, mozzi, nei panni dello psicologo della mutua – se non ricordo male), anche se il film mi ha lasciato nel complesso insoddisfatto (ma io di cinema non ci capisco granché)… ho apprezzato di più il ritratto di garrone in “grotteschi e arabeschi”!

    p.s.: ricordo un libro sui marlene kuntz con una velina allegata che avvisava che al posto di ogni H era stato stampato per errore il simbolo della lira, o qualcosa del genere…

  26. mi scusi, mozzi, ma già che ci sono abuso della sua pazienza e le pongo una domanda – forse non è questo lo spazio più consono, nel caso mi scuso di nuovo – che da qualche anno ormai mi ruzzola in testa.
    io ho lavorato per una decina d’anni in piccole e medie case editrici (poi ho gettato la spugna perché nel frattempo sono diventato grande e ho dovuto iniziare a camparmi seriamente da solo), occupandomi solo occasionalmente di narrativa. inoltre ho pubblicato anche un paio di raccolte di racconti con micro editori, però onesti, nel senso che non mi hanno chiesto soldi (la mia unica condicio sine qua non). ecco, nessuna di queste esperienze, tuttavia, è riuscita a far sì che trovassi risposta a questa domanda: come si fa, e come hanno fatto molti autori, a fare il salto verso editori in grado di arrivare con buona frequenza alle librerie? non credo che la strada sia quella che ho tentato finora (anche con una specie di romanzo), vale a dire, semplicemente, quella dell’ufficio postale. né tantomeno quella delle agenzie letterarie delle quali (a torto?) non mi fido. anche leggendo le autobiografie di molti autori contemporanei (v. anche “works”) mi sembra che nei passaggi in cui questi raccontano la loro ascesa verso gli editori con distribuzione nazionale ci sia una specie di “omissis” o comunque qualcosa che la mia mente (forse solo per nascondermi la semplice verità, cioè che sono io a non avere le qualità) percepisce come un salto. insomma, sempre di più vado formandomi l’opinione che si arrivi a un punto in cui il guardiano chiude la porta e se non sei destinato a varcarla non ci sono santi, resti fuori e amen.
    lei, che da tempo è stato iniziato ai misteri dell’editoria italiana, saprebbe indicare a uno che semplicemente scrive e non conosce nessuno, come si fa anche solo a bussare alla porta di editori di una certa rilevanza (non dico mica rizzoli o einaudi!) ed evitare che la porta venga chiusa ancor prima che le nostre nocche abbiano la possibilità di risuonare sul legno? (perdoni l’orrida metafora, mi sono fatto trascinare…).
    sono abbastanza certo che lei abbia risposto più volte a questa o a domande consimili, perciò, nel caso, sarà sufficiente un rimando a qualche pagina web.
    ancora tante scuse per il disturbo, ma, se non a lei, questa domanda proprio non avrei saputo a chi rivolgerla.

    la ringrazio e la saluto,
    m

  27. Marco, ho cominciato a leggere “Works”, ma non sono ancora arrivato al punto in cui Vitaliano racconta gli inizi della sua “vita editoriale”.
    Comunque andò così. Io all’epoca avevo pubblicato un libro di racconti con Theoria. Lavoravo come fattorino in una libreria scientifica. Nel magazzino di un distributore, mentre attendevo una fattura mi cadde l’occhio su un piccolo libro: “Trio senza pianoforte”, di Vitaliano Trevisan, pubblicato da una casa editrice minuscola e locale. Ne lessi le prime righe. Decisi di acquistarlo, e lo misi nel mucchio dei libri da fatturare. La sera, a casa, lo lessi. Lo trovai molto bello. Nel risvolto era scritto dove abitava Vitaliano, era nell’elenco, e cominciai a cercarlo al telefono. Lo trovai finalmente qualche settimana dopo. Vitaliano mi disse qualcosa del tipo: “Ah, sei tu? Avevo in mente di chiamarti”.
    Ci incontrammo.
    Dopo non molto Vitaliano mi fece leggere un suo romanzo. Portai tutto in Theoria. Theoria pubblicò “Un mondo meraviglioso” e ripubblicò “Trio senza pianoforte”, aggiungendovi la pièce teatrale “Oscillazioni”. Nel frattempo (in maniera del tutto imprevista) il mio secondo libro fu acquistato da Einaudi. Feci leggere un altro romanzo di Vitaliano in Einaudi: “I quindicimila passi”. Era il 1997, se non ricordo male. “I quindicimila passi” fu pubblicato da Einaudi nel gennaio del 2002.
    Potrei essermi sbagliato nella cronologia, comunque il tempo d’attesa fu lungo. Il contratto fu stipulato nel 1998, arrivò a scadenza, e proprio quando Vitaliano stava pensando di rivolgersi altrove in Einaudi cominciarono la lavorazione.

    Per me le cose furono più semplici. Mandai un racconto a Marco Lodoli nel dicembre del 1991. Nel marzo del 1992 avevo davanti due proposte di due editori diversi, e potei scegliere.

    Ma erano altri tempi.

    Per il resto, rimando a questo articolo (dove è da leggere la discussione, con pazienza).

  28. grazie per la risposta, è stato molto gentile. e paziente.
    in realtà in works si accenna appena alla vita editoriale dell’autore. non le dico altro ma, se non lo ha ancora finito di leggere, troverà una bella sorpresa (ma forse non è una sorpresa per lei). comunque, con tutto il rispetto, per me è celati!
    (mi ritroverà “altrove”, nell’arco di un paio di mesi. e anche di questo mi scuso)

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