di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno. Domandavo la settimana scorsa: come può avvenire che, in un romanzo, la sparizione di una virgola a pagina sette modifichi l’interiorità di un personaggio a pagina quattrocento? In realtà non saprei spiegarlo molto. La mia battuta ricalca una battuta celebre, secondo la quale: il battito d’ali d’una farfalla a Pechino può provocare il crollo d’un ponte a New York. Si fa questa battuta, di solito quando si cerca di spiegare il significato della parola «olistico».
Dalla Garzantina di filosofia: «Olismo, tesi epistemologica secondo cui l’organismo biologico o psichico deve essere studiato in quanto totalità organizzata (in greco hólos significa “tutto, intero”) e non in quanto somma di parti discrete». In effetti è assai diverso considerare una narrazione una «somma di parti discrete», cioè di parti tranquillamente separabili, almeno nel pensiero, l’una dall’altra (non solo un episodio dall’altro ma anche, ad esempio, il registro linguistico dalla punteggiatura, il dialogo dalla descrizione dei movimenti, il lessico dalla sintassi ecc.); e considerarla invece una «totalità organizzata», cioè un sistema nel quale nessun elemento è pensabile come separato dagli altri – nel quale, aggiungo, ogni elemento è una sorta di “precipitato” del sistema tutto (e il sistema tutto ha lo stesso grado di coesione e compattezza, nonché la stessa forma, di ciascun elemento).
In realtà, se io penso a una narrazione come a una «totalità organizzata», corro seriamente il rischio di non riuscire proprio a pensarla, perché potrei pensarla solo “tutta insieme” e “in tutta la sua profondità”: e chi è capace, difronte a una narrazione (come difronte a qualunque cosa) di pensarla davvero “tutta insieme” e “in tutta la sua profondità”? C’è qualcuno capace di pensare “tutto insieme” e “in tutta la sua profondità” un romanzo come I fratelli Karamazov? Credo di no; dubito assai che lo pensasse in tal modo lo stesso Dostoevskij, che pure l’aveva scritto. Ma anche una barzelletta o la più semplice delle favole, non appena le prestiamo attenzione, rivelano profondità insondabili.
E allora? Allora, secondo me è bene cercare comunque di pensare olisticamente a ciò che andiamo scrivendo. Ora dico delle banalità. Sarebbe bello se, in ogni narrazione, la forma soggiacente a ogni singola frase, a ogni scelta di lessico, a ogni segno di punteggiatura, a ogni svolta dell’azione, a ogni battuta di dialogo, a ogni spazio bianco interposto tra uno e l’altro episodio ecc. – fosse sempre la stessa forma, e fosse pure la stessa forma generale di tutta la narrazione

È evidente che un simile grado di controllo è pressoché impossibile. Ma si può provarci, tendere a, andare verso. Molte grandi opere sono onorevoli tentativi, falliti.
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Io scrivo la mia narrazione dal principio alla fine; ma continuamente, mentre progredisco, torno indietro, cambio, aggiusto, tolgo, rifaccio, sposto; e quando bene ho finito torno a lavorare sul tutto, e lavoro sulla mia narrazione come se fosse un oggetto; ne faccio degli schemi che osservo come osserverei una piantina topografica; modifico il “peso” di fatti, parole, azioni, pause ecc. come se dovessi far raggiungere lo stato di equilibrio a una bilancia con non due soli, ma con duecento piatti.
Ma il lettore che legge, non fa mica così. Il lettore che legge parte veramente dal principio e arriva veramente fino alla fine (se la mia narrazione non gli fa schifo). Per me che l’ho scritta la narrazione è un oggetto, una topografia, una stanza piena di bilance; per il lettore che la legge la narrazione è un cammino, un filo, un «avvenne questo… e poi questo… e poi questo…». Anche qualora io racconti più storie intrecciate, o riempia la narrazione di flash-back, o dissemini i fatti nel disordine più assoluto, comunque per il lettore c’è dapprima pagina uno, poi pagina due, poi pagina tre… In fondo I fratelli Karamazov, come tanti romanzi dell’Ottocento, è stato pubblicato dapprima a puntate nei giornali, e solo dopo raccolto in volume.
Allora dobbiamo rassegnarci: per il lettore, la narrazione come «totalità organizzata» è spesso impercettibile. O ne ha, al massimo, una percezione inconsapevole, una specie di “ombra d’intuizione”. Quando andiamo al cinema, e ne usciamo insoddisfatti del film ma senza saper dire perché ne siamo insoddisfatti, forse stiamo intuendo qualche falla nella «totalità organizzata» del film. La differenza tra il lettore comune (o lo spettatore comune) e il critico letterario (o cinematografico) è spesso qui: nella capacità di percepire la narrazione o il film come «totalità organizzata».
Semplicemente perché l’unica differenza che io sia riuscito a percepire, in vita mia, tra chi «è uno scrittore» e chi «non è uno scrittore», riguarda la qualità dell’investimento personale nella scrittura. E l’investimento personale nella scrittura (la «dedizione», potrei dire) non è qualcosa che possa essere incrementato discretamente; a un certo punto c’è un salto, e questo salto c’è chi lo fa e chi non lo fa. Il salto è: tentar di pensare alle narrazioni come a «totalità organizzate», oppure non farlo; e chi lo fa, cioè chi «è uno scrittore», in quel momento smette di essere una persona normale. Non voglio dire che diventi pazzo o asociale; no, smette di essere una persona normale e, ad esempio, si concede uno smisurato egocentrismo; ossia, esclude dalla sua mente qualunque pensiero che non concerna il pensare la sua narrazione come «totalità organizzata».
Narratori così, ovviamente, ce n’è pochi. Io ne so tre, in Italia. Quanto a me, il salto non ho osato farlo. Troppa paura, e poi non ce l’avrei fatta. Alla prossima.
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