100 lezioni di scrittura creativa / 17 (dove si parla di silenzio e di rumore)

Scrittura creativa

di Giulio Mozzi

[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

Buongiorno. Interrompo il ragionamento della settimana scorsa [di ieri] (finivo accennando all’innamoramento come modello della relazione tra lo scrivente e il lettore; dicevo che come si hanno verso la persona amata sia il desiderio di possederla sia il desiderio che sia totalmente sé stessa, ossia libera, così lo scrivente desidera dominare l’immaginazione del lettore pur sapendo che il lettore, di ciò che egli scrive, farà ciò che vuole). Interrompo il ragionamento, dicevo, per dirvi che sono appena partito da Bologna (è martedì 13 maggio [di molti anni fa…], sono le dieci e cinque del mattino) e sto andando a Napoli, dove arriverò alle due e mezza. Ho quattro ore abbondanti a disposizione; quindi ho tirato fuori il portatile e mi sono messo a scrivere.

* * *

Corsi di scrittura creativa
Il bando 2015-2016
L’altro giorno una gentile giornalista, intervistandomi al telefono, mi ha domandato: «Ma lei, quando scrive?».
«Nei ritagli di tempo», ho risposto.
«Cioè?».
«Cioè quando posso. Ci sono certi mesi dell’anno che non scrivo nulla se non cose di lavoro,» (questo è uno di quei mesi, e questo articolo è una cosa di lavoro) «altri mesi che ci posso dedicare le giornate. Poi ci sono mesi e mesi che non mi viene niente da scrivere».
«Quindi non ha l’abitudine di scrivere tutti i giorni, magari in certe ore?».
«Mi capita di scrivere la mattina presto, perché per costituzione sono uno che si sveglia presto. Ma altrettanto spesso mi capita di scrivere fino a notte tardi».
«E quando scrive, come si organizza?».
«Be’, mi metto lì e scrivo».
«Ascolta musica? Beve caffè? Fuma?».
«Ma no», dico, «quando scrivo, scrivo. Mi ci concentro».
«E scrive su carta? Su fogli sciolti? Su quaderni? Con la penna? Con la matita?».
«Scrivo con il personal computer».
«Sempre? Anche le prime stesure?».
Apple //e
Apple //e
«Senta: mi sono seduto per la prima volta davanti a un pc nel 1977, quando avevo 17 anni. Era un Apple //e. Ho posseduto un Commodore 64, un Amstraad 1024, un Olidata formato lavatrice, un paio di assemblati anonimi, e adesso finalmente ho un portatile. Nel 1982 ho cominciato a lavorare in un ufficio stampa, dove per prima cosa mi hanno messo davanti a un terminale; e tre anni dopo siamo passati alla rete di personal, gli OS/2 dell’Ibm. In somma, ho attraversata un po’ tutta la storia della scrittura al pc, con qualche incursione nel mondo Apple. Per me la tastiera è il mezzo più naturale per scrivere».
Sento che la giornalista è perplessa.
«Ho detto qualcosa che non va?», domando.
«No», dice, e aggiunge: «Allora lei adesso, col portatile, scrive un po’ dove le capita».
«Ma, sì, mi ci sto abituando; è chiaro però che a casa mia lavoro meglio».
«In che stanza scrive?».
«Ho uno studiolo incasinatissimo».
«Generi di conforto?».
«Nessuno».
«Non sente la nostalgia della carta, della penna che corre sulla carta?».
«No».
Altro silenzio della giornalista. Riattacco: «Guardi, se c’è un’esperienza poco mistica, per me, è proprio quella dello scrivere e del leggere. Viaggio parecchio, sempre in treno, e così il treno è diventato la mia sala di lettura. E può essere sala di scrittura».
«Vuol dire che per lei il treno è diventato necessario?».
«Ma no! Dico che è un posto come un altro, comodo per fare certe cose. Per lavarsi o mangiare non è comodo. Per telefonare nemmeno. Per leggere e scrivere sì».
«Non ha problemi a concentrarsi?».
«Quando lavoravo in ufficio stampa, eravamo quattro in una stanza. Io ero la “macchina per scrivere” dell’ufficio, scrivevo quasi tutto. Il capo stava attaccato al telefono, perché il suo era lavoro di relazioni. Quello che impaginava le riviste girava attorno al tavolo luminoso, ritagliava, incollava, chiamava la tipografia, leggeva i testi a bassa voce per trovare i refusi. Quello della pubblicità (facevamo delle riviste tecniche, finanziate dalla pubblicità) stava anche lui sempre al telefono, quando non era in giro. Poi arrivava gente, parlava con me, con il capo, andava via. Lì dentro io confezionavo ogni giorno le mie dieci-quindici cartelle».
«Ma era un’alta cosa…».
«Non ci vuole meno concentrazione, per scrivere un articolo sulle nuove norme del ministero tedesco della sanità circa il confezionamento del gelato da passeggio, o per spiegare il meccanismo delle tariffe a forcella per l’autotrasporto di collettame umido…».
«Ma che ufficio stampa era, scusi?».
«Un’associazione artigiana».

* * *

Sono qui sul treno per Napoli, e scrivo. Attorno a me c’è gente che chiacchiera, telefona, fuma, va e torna dalla carrozza bar. Due bambini giocano agli indiani. Due tipe quarantenni (l’età mia [di allora…]) si scambiano giornali tipo Chi e Oggi, commentando gli articoli. Tre napoletani giocano a carte strepitando. Un signore massiccio, a occhio sessantenne, alla mia sinistra, guarda fisso la ragazza che mi dormicchia difronte (non più di ventiquattr’anni, maglietta rossa attillata, capezzoli prominenti). Una studentessa molla il libro e prende il game-boy, bip-bip-bip. Più in là, quattro soldatini in licenza schiamazzano. Dietro di me un giapponese strilla nel telefono, velocissimo, a scatti, ripetendo tutto due volte (anche se è giapponese, capisco che ripete tutto due vole).

In una nota in fondo a Senza sangue Alessandro Baricco ringrazia l’istituzione che lo ha ospitato durante la stesura dello stesso Senza sangue (un museo statunitense, se non ricordo male) per avergli garantito (cito a memoria, sono in treno) «quel silenzio senza il quale nessuna opera può nascere».

Dostoevskij scriveva tutto il giorno per le riviste, la sera si ubriacava di brutto, giocava e perdeva a carte, a volte gli veniva un attacco epilettico; sua moglie andava a raccoglierlo da sotto il tavolo dell’osteria, lo tirava a casa, gli metteva la testa sotto l’acqua fredda; e lui allora si metteva buono buono a scrivere i Karamazov. Che relazione ci sarà mai, tra il silenzio e il rumore, tra l’opera e il silenzio e il rumore? A me piacciono di più i libri scritti in mezzo al rumore, credo. E mi sembra di sentirlo, mentre leggo. Viva il rumore! Sono le undici e cinque, finito l’articolo. 6.000 battute esatte. A risentirci.

Fëdor Dostoevskij, colto in un momento di sobrietà
Fëdor Dostoevskij, colto in un momento di sobrietà

3 pensieri riguardo “100 lezioni di scrittura creativa / 17 (dove si parla di silenzio e di rumore)

  1. Odio il rumore… Questa volta, caro Mozzi, mi associo a Baricco. Comunque, noto, suggerisce al sottoscritto, per scrivere concentrato, di svegliarsi alle quattro del mattino e poi si scopre che lei scrive a tarda notte sui treni? Mi pare una bella discordanza, scusi. 🙂

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