100 lezioni di scrittura creativa / 18 (nella quale si arriva al dunque, anche se non pare)

Scrittura creativa

di Giulio Mozzi

[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

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Buongiorno. Due settimane fa [cioè ieri…], prima di interrompermi per parlare del rumore, dicevo: che l’innamoramento può essere un modello della relazione tra lo scrivente e il lettore; e che come si hanno verso la persona amata sia il desiderio di possederla sia il desiderio che sia totalmente sé stessa, ossia libera, così lo scrivente desidera dominare l’immaginazione del lettore pur sapendo che il lettore, di ciò che egli scrive, farà ciò che vuole.

Mi imbatto continuamente, nei laboratori di scrittura che conduco, in persone che mi dicono: «Io scrivo soprattutto per me». Bene. Scrivere per sé è un’attività completamente diversa dallo scrivere per un altro. Non voglio dire che lo scrivere per un altro sia più lodevole dello scrivere per sé. Dico che sono due cose diverse. Potrei esagerare e dire che scrivere per un altro è letteratura, scrivere per sé non è letteratura. Questo non significa che testi scritti per sé non possano essere assai belli; né significa che testi scritti per un altro siano necessariamente belli.

Mi imbatto continuamente anche in persone che mi dicono: «Scrivo per esprimermi». Esprimersi significa, letteralmente, spremersi fuori, spremere qualcosa di sé fuori di sé. Ecco, io direi che scrivere per un altro è l’attività esattamente opposta: è andare verso l’altro. E confesso che (io sono, come chiunque, prima di tutto un lettore) a me, uno tutto intento a spremersi fuori di sé, m’interessa poco. M’interessa poco perché, alla fin fine, mi pare che a lui interessi poco di me. Invece, uno che viene verso di me, m’interessa: proprio perché viene verso di me.

Claes Oldenburg, accanto a una sua scultura
Claes Oldenburg, accanto a una sua scultura

Nell’innamoramento ci sono, mi pare, entrambe le cose. C’è uno spremersi fuori di sé, e c’è un andare verso l’altro. Ma la prima cosa, è l’andare verso l’altro. Se io vado verso l’altra persona, l’altra persona può accettarmi. Quando l’altra persona mi avrà accettato, allora potrò – di tanto in tanto – spremermi fuori di me. Il mio andare verso l’altra persona avrà prodotta una disponibilità dell’altra persona verso di me; e dentro questa disponibilità (aggiungo: nei limiti di questa disponibilità) io potrò spremermi fuori di me. Altrettanto accade all’altra persona: il suo accettarmi non è altro che un venire verso di me; io allora la accetterò; e dentro questa mia accettazione, questa mia disponibilità, l’altra persona potrà spremersi fuori di sé.

Quando comincio a raccontare, è necessario che io vada verso il lettore. Devo innanzitutto desiderare che il lettore esista. Poi dovrò desiderare la sua persona: la presenza, la compagnia, l’attenzione, la continuità. Poi dovrò desiderare di essere accettato da lui. Poi, se mi avrà accettato, dovrò esplorare questa sua accettazione: misurare la sua disponibilità. A quel punto, conoscerò i limiti entro i quali potrò anche esprimermi, spremermi fuori di me. Se io mi piazzassi là, subito, davanti a lui, e – trac! – mi spremessi fuori da me, il lettore probabilmente mi rifiuterebbe. Non saprei dargli torto.

Le persone che, nei laboratori di scrittura, parlano della propria scrittura come di un’espressione, fanno spesso un paragone: tra la scrittura e il vomito. Quando questo succede, io dico: «Scusa, ma se queste pagine tu le hai “vomitate”, come dici, per quale ragione io dovrei mettermi a leggere il tuo vomito? Che persona pensi che io sia, se mi dai da leggere il tuo vomito?».

* * *

Certo: nell’innamoramento, la persona verso la quale andare è lì. Magari è inaccessibile, magari ci ha già scacciati una dozzina di volte dalla sua presenza, magari è morta, magari non si accorge di noi; tuttavia, è lì. Il lettore, invece, dov’è? Chi l’ha visto? Com’è fatto?

Ma io conosco il lettore. Infatti, come ho detto, e come chiunque, io sono un lettore. So che cosa mi succede, mentre leggo. Nella lettura faccio uno sdoppiamento: leggo, e guardo che cosa mi succede mentre leggo. Spio le mie reazioni. Mi conosco. Mi imparo. «Ma a questo punto», dirà qualcuno, «il lettore sei sempre tu! Quindi hai poco da parlare di una scrittura che va verso l’altra persona!». E invece no. Che conoscenza posso avere, io, dell’altra persona, se non attraverso la conoscenza che ho di me? Gesù di Nazareth diceva, o si tramanda che abbia detto: «Ama il tuo prossimo come te stesso»; anche lui, quindi, che pure proponeva la dedizione all’altro come massima virtù, metteva al primo posto, come amore originario, in base al quale tutti gli altri amori si definiscono, l’amore verso di sé.

«La prima volta che ho fatto all’amore», mi ha detto una volta un ragazzo, in un laboratorio di scrittura, «non avevo la minima idea di che cosa fossero il desiderio, il piacere, il bisogno della ragazza con cui ero. Ho capito poi, che solo attraverso il desiderio il piacere il bisogno miei potevo arrivare a un’intuizione».

Essendo lettore, faccio dunque esperienza dell’innamoramento che colui di cui sto leggendo un testo ha verso di me. Su questa esperienza d’innamoramento subìto, di amore ricevuto – che è originaria – fondo la mia capacità di innamoramento verso colui che leggerà ciò che io scrivo.

Qualche scrittore banalmente dice: «Scrivo i libri che mi piacerebbe leggere». Ma questo è solo un primo passo: eleggo me lettore a modello di tutti i lettori. È ancora una cosa molto egocentrica. Propongo di fare un passo avanti: adopero la mia esperienza di lettura per immaginarmi come possa essere l’esperienza di lettura di un’altra persona.

Si dice spesso: «Vuoi scrivere? Allora leggi!». Il consiglio è buono: ma non perché leggere serva a imparare la buona forma, il lessico, l’arrotondamento delle frasi, l’abilità descrittiva, l’efficacia del dialogo, l’incatenamento della trama; sì, certo, leggere serve anche a questo; ma questa è la parte tecnica della faccenda; leggere serve prima di tutto a costituire la propria esperienza di lettore.

Un lettore mi ha scritto: «Ho smesso di leggere la sua rubrica perché lei non arriva mai al dunque». Bene: secondo me, questo è il dunque. Settimana prossima [cioè domani…] ci torno su. State bene.

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4 pensieri riguardo “100 lezioni di scrittura creativa / 18 (nella quale si arriva al dunque, anche se non pare)

  1. Il parallelismo amore e scrittura è corretto; esasperando il tutto forse lo scrivere per sé è una pratica onanista, mentre lo scrivere per un altro consente una maggiore completezza… chissà.
    Credo che in questa frase tu volessi chiudere dicendo “per sé”: “Non voglio dire che lo scrivere per un altro sia più lodevole dello scrivere per un altro.”

  2. Io scrivo le mie esperienze di vita, i miei dolori, le mie sconfitte, le mie paranoie e la mia dipendenza dal dolore, lo squisito dolore di volere sempre l’uomo inaccessibile… so che ci sono molte persone con le mie stesse esperienze e mi farebbe piacere essere letta e confrontata con le loro vite.

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