di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno, buongiorno. Gianni Bonina, nella prima pagina dello scorso numero di Stilos, parlava di fotografia cominciando così: «Chi, davanti alla macchina fotografica, guarda l’obiettivo, assume una posa, atto che significa cedere volontariamente la propria immagine». Poi Bonina faceva altre considerazioni; ma a me serve solo questa frase qui.
Potrei dire: «Chi scrive un testo affinché (o con la speranza che) sia pubblicato, assume una posa, atto che significa cedere volontariamente la propria immagine». A me piacciono molto le fotografie con le persone messe in posa. Quando guardo una fotografia presa al volo, ho la sensazione di vedere un’immagine rubata: un’immagine tutta di proprietà del fotografo, nella quale la responsabilità del fotografato è quasi nulla. Quando guardo la fotografia di una persona messa in posa, ho la sensazione di vedere un’immagine, diciamo così, cooperata: un’immagine di proprietà tanto del fotografo quanto del fotografato, nella quale la responsabilità è condivisa.

Chi scrive un testo, si mette in posa da solo. È insieme il fotografo e il fotografato. La persona che si mette in posa davanti al fotografo, decide non solo di «cedere volontariamente la propria immagine», ma anche di «offrire deliberatamente una determinata immagine di sé». Certo: ci sono fotografati più o meno consapevoli della faccenda, più o meno capaci di immaginare che fotografia uscirà fuori, più o meno in grado di immaginare i possibili significati che la fotografia produrrà. E ci sono fotografati che non sono in grado di immaginare né questo né quello.
Tuttavia, ciò che mi interessa è soprattutto l’assunzione di responsabilità. «Ci mettiamo qui. No, lì. Guarda di qua. Alza il mento. Apri gli occhi. Guardami da sopra le spalle. Pensa a qualcosa di bello. Non aprire la bocca»: il fotografo potrà potrà manipolarmi quanto vuole; ma avrà sempre il mio consenso, e quindi la mia assunzione di responsabilità.
Ora: il contenuto della fotografia non è la persona ritratta; è l’assunzione di responsabilità che la persona ritratta fa. Una fotografia non mi dice che Tizio è fatto così e/o cosà; mi dice che Tizio si prende questa e/o quella e/o quest’altra responsabilità.
E non parlo di foto eccezionali, eh!: parlo di foto qualunque, normali.
Chi scrive, mette in ciò che scrive la sua persona; ma quando io leggo ciò che Caio ha scritto, ciò che percepisco non è che Caio è fatto così e/o cosà; ma che Caio si prende questa e/o quella e/o quest’altra responsabilità. E non c’è neanche un fotografo con cui condividerla.
Non sto parlando dell’autobiografia o dell’autobiografismo, sia chiaro. Oppure: Samuel Beckett, che scriveva quel che scriveva Samuel Beckett, diceva: «In fondo, tutto è autobiografia»; solo in questo senso, se proprio volete, potrei dire che parlo di autobiografia. Ma preferisco evitare questa parola. Dico: sto parlando del mettere la propria persona in ciò che si scrive.
Io racconto una storia. Dico cose, ometto di dire cose. Uso una certa retorica, ne uso un’altra. Faccio scelte: cioè, mi metto in posa; cioè, mi assumo una responsabilità.
Se una narrazione è un atto di comunicazione (e non venitemi a dire che non lo è) allora (secondo il vecchio motto che «il mezzo è il messaggio») il vero contenuto della comunicazione è la posa che prendo, la responsabilità che assumo. Chi dice: «Io non metto filtri alla mia mente quando scrivo… Lascio che passi tutto… Non do forme precostituite al mio testo…» e/o cose simili, dice veramente: «Non mi prendo la responsabilità di ciò che ho scritto. Rivolgetevi al mio inconscio, o al massimo al mio pusher».
Se un testo è (immaginariamente, non realmente) come una mia fotografia, allora c’è poco da girarci attorno; il materiale è quello, la carne è quella; tutto sta nella posa, nel come disporrò la carne nello spazio dell’inquadratura.
Che poi il testo produca davanti al lettore cose raccontate che vengono dalla cosiddetta realtà, dai cosiddetti vissuti personali, dalla cosiddetta vita vissuta; oppure cose raccontate di pura invenzione; non cambia niente. Beckett direbbe: «In fondo, è pur sempre autobiografia».
* * *
Vi ricordate il professore del film L’attimo fuggente? Quello che portava i ragazzi a passeggiare in cortile, e diceva loro (più o meno): l’andatura è lo stile, lo stile è l’uomo, l’andatura è l’uomo. Ecco: il vostro stile è l’andatura del vostro testo (che, immaginariamente, corrisponderà all’andatura del vostro corpo). Ma l’andatura di un testo è un effetto illusorio: perché il testo è fermo (si muove il lettore). Il testo è la fotografia di un corpo in posa. L’essere in posa, postura, è, volendo costringere le parole a dire proprio quello che ci serve, una sorta di andatura da fermo.
Dove voglio arrivare? Ma, voglio tornare al principio, alla frase di Bonina: «Chi, davanti alla macchina fotografica, guarda l’obiettivo, assume una posa, atto che significa cedere volontariamente la propria immagine». Guardate le singole parole. Macchina. Obiettivo. Assumere una posa. Atto. Cedere. Volontariamente. Immagine. Paragonate ciascuna di queste parole a ciò che avviene con il testo scritto. Pensate al lettore come a una macchina. All’obiettivo come a ciò che serve al lettore per “mettere a fuoco” il vostro testo, ossia comprenderlo. All’assumere una posa come a un assumere responsabilità. Al testo come a un atto. Alla lettura come a una cessione. Alla volontarietà, non indispensabilità, del vostro atto di scrivere e far leggere. Pensate al testo come a un’immagine di voi, carne e ossa: distinta quindi da voi, poiché un’immagine è un’immagine e voi siete voi; della quale vi prendete la responsabilità; della quale, ciò che vedo io lettore, è soprattutto questa responsabilità che vi prendete. Ne riparleremo.

Credo, questa, la riflessione più accurata e interessante che abbia letto/sentito finora sulla scrittura creativa. Scrivere è una posa… davvero interessante!
Non amo farmi fotografare perché sia che la mia immagine venga rubata, sia che io mi metta in posa, il risultato è sempre diverso da come mi vedo. E non mi piace. Ma amo fare fotografie. E in questo caso sono sempre molto combattuta. Da una parte amo la posa nel momento in cui voglio valorizzare l’oggetto fotografato oppure renderlo meno volgare, o più accattivante, o al contrario, più brutto, vecchio, triste… Eppure detesto la posa quando lo scopo dello scatto è il comunicare una realtà, come nei reportage.
La differenza potrebbe essere la stessa che passa tra narrativa e saggistica. Ma l’autobiografia in quale di queste due categoria rientra? Ecco la domanda che mi sono posta dopo aver letto questa lezione. Non che io sia interessata a scriverne una, di autobiografia, per nulla. Me lo chiedo solo per capire meglio. E perché a suo tempo scrissi un reportage narrativo, prendendomi qualche piccola libertà. Da una parte si parla spesso di “sincerità“, dall’altra, di “invenzione“ (così io interpreto il termine creatività, che va oltre la capacità produttiva). Ebbene ora di questo reportage narrativo è in corso la stesura di una sceneggiatura per un lungometraggio, e ancora mi chiedo quanto sia lecito “inventare“ per far funzionare “meglio“ una storia? Faccio un altro esempio.
Tempo fa mi recai in Pakistan per lavoro (come giornalista munita di macchina fotografica) per osservare lo stato della città di Muzaffarabad un anno dopo il terremoto. Il viaggio fu organizzato da una capace fotografa professionista (amo le sue foto) per conto dell’Associazione Sos Villaggi dei Bambini. Per farla breve, a un certo punto ci siamo ritrovate entrambe a scattare delle foto a una madre putativa alle prese con due piccole agitate: una tirava il velo della donna, mentre l’altra aveva voglia di giocare.
Dovevamo ritrarre qualcosa di “vero“ per un reportage “reale“, non per una mostra fotografica. Eppure, dopo qualche scatto, la fotografa intervenne per farli mettere in posa… lo erano già – si erano sedute tutte sul divano di proposito -, ma voleva ottenere un’espressione materna dalla donna, che madre davvero non era. Una forzatura, di effetto, certo, ma non sincera. Ecco, mi chiedo quanto sia giusto, quanto sia sacrificabile la realtà per trasformare, o migliorare una storia.
…aggiungo che lo stesso dilemma mi è sorto durante un paio di servizi fotografici per matrimoni. Odio mettere tutti i parenti in posa, perché non raccontano il giorno, né la festa, né l’amore, né le tensioni, né i loro pensieri. Di solito rubo tutte le immagini con uno zoom bello potente. Eppure in un paio di occasioni – siccome non si accorgevano di venir comunque fotografati – sia sposi sia invitati mi hanno assillato chiedendomi di scattare loro delle foto dopo essersi messi in posa. Le fotografie dell’album più apprezzate però sono state quelle “a sorpresa“, cioè quelle rubate.
Ma.Ma.:
La dico diversamente: una finzione. Il reportage ha dunque smesso di essere un “reportage”, un “riporto” della “realtà”; e si è trasformato in un “romanzo”. Che comunica non “la realtà” ma un pensiero, un sentimento, un’idea del mondo della fotografa.
(Il problema è che se poi quella roba lì viene spacciata per “reportage”…).
(Tuttavia: anche le tue fotografie “rubate” comunicano non “la realtà” ma il tuo pensiero, il tuo sentimento, la tua idea del mondo… L’idea che la “verità” si possa cogliere solo – o soprattutto – “di sorpresa”, per dire, non è un’idea da poco).
Che cosa pensi della fotografia di Lewis Hine che ho inserita nell’articolo?
Penso che una volta, ai tempi, lo strumento della fotografia non fosse noto a tutti, non come oggi. Penso che si tratti di una posa più sincera di quanto non si potrebbe ottenere oggi. Penso che già il solo fatto che non stiano tutti sorridendo come ebeti dia un’idea di “autenticità“. Penso che la consapevolezza del soggetto (dei soggetti) non passi – in questo caso – da una reale presa di responsabilità. È come se avessero accontentato il fotografo, fregandosene dello strumento e soprattutto del risultato. Hanno fatto quello che è stato loro chiesto di fare. E magari l’hanno fatto anche un po’ in fretta per poter tornare a giocare. Qualcuno di loro sarà stato strattonato dal fratellino più grande e qualcun altro avrà preso uno scappellotto. Immagino che la madre si sia resa disponibile per intascare qualche spicciolo e che l’essersi vista in seguito stampata su un pezzo di carta le abbia dato quella consapevolezza che, probabilmente, in un secondo scatto l’avrebbe fatta apparire meno naturale. Penso che proprio la mancanza di consapevolezza e di responsabilità renda questa immagine e le altre di questo maestro fotografo, grandi espressioni di un’epoca, degli scorci importanti della storia, nonostante la posa. Ma oggi può essere ancora così? Nella fotografia ho seri dubbi. Tra quelli contemporanei – tanto per dire – amo le opere di Sebastião Salgado (ha visto il suo film-documentario “Il sale della terra“? Trovo che sia un capolavoro).
PS: la forza di Salgado, secondo me, sta nell’essersi spinto a cercare soggetti “ancora inconsapevoli” o per ignoranza o per necessità o per priorità o per condizione innata; la natura, ad esempio, se ne frega sia del fotografo sia dell’obbiettivo.