di Giulio Mozzi
Domanda: chi è il vero autore dei Promessi sposi?
Risposta: lo sanno tutti, è Alessandro Manzoni.
La risposta, ahimè, è sbagliata (sul piano finzionale; sul piano reale è giusta, ma il piano reale non ha molta importanza).
* * *
Tutti ricordiamo (perché più o meno tutti, volenti o nolenti, abbiamo letto I promessi sposi) che nella prefazione Manzoni dichiara di aver trovato un manoscritto anonimo secentesco; di averlo letto, trovando assai bella la storia raccontata; di averne iniziata la trascrizione; di essersi presto stufato di ricopiare frasi del tipo
E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti,
e di aver deciso finalmente di
prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura,
ossia trascriverlo in una lingua più leggibile.
Manzoni è dunque (prendendo per buona quella che sappiamo tutti essere una finzione) l’autore di una pura e semplice “traduzione” in “italiano corrente” di un manoscritto antico?
No. Perché, sempre nella prefazione, egli dice:
Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianzefont, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.
Quindi abbiamo:
– naturalmente, un manoscritto;
– un trascrittore che nel trascriverlo ne rifà la dicitura;
– ma, nel contempo, non si perita di controllare (per sé) e di integrare (nel testo) le informazioni fornite dal manoscritto stesso.
In questo modo, come ognuno vede, si crea una sorta di distanza tra il manoscritto e il testo che noi leggiamo sotto il titolo di I promessi sposi. Una distanza nella quale un soggetto che noi banalmente identifichiamo con Alessandro Manzoni, ma che sarebbe più corretto identificare con il Narratore – proiezione di Manzoni nel testo ma distinto da lui – trova modo di installarsi e di far sentire la sua presenza. Sia producendo qua e là degli espliciti excursus (a es. quello all’inizio sulle “gride” contro i bravi; poi i due capitoli dedicati alla storia dell’ingresso della peste a Milano; ecc.); sia commentando al volo, qua e là, il testo che sta trascrivendo:
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. (cap. v)
Qui c’è un gioco ironico: il Narratore critica l’anonimo per la sua reticenza nel fornire informazioni che permettano di collocare storicamente e geograficamente la storia; ma è il Narratore stesso che, per infilare la storia e i suoi personaggi in mezzo ai fatti di quei tempi, ha bisogno di una certa vaghezza.
Oppure:
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne [l’uomo che ha condotte Agnese e Lucia fino al monastero: l’abbiamo incontrato qualche pagina prima] ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. (cap. ix)
Qui il Narratore fa il furbo, perché alla fin fine se la sua conclusione fosse vera, uno storico potrebbe andare a controllare se davvero il feudatario di Monza avesse una figlia eccetera eccetera; ma, presentando questa conclusione come comunque dubitativa (dice: “potremmo anche”, non dice: “possiamo senz’altro”), ottiene l’effetto di illudere il lettore (il lettore è portato a credere che il racconto, o almeno questa parte del racconto cioè la biografia di Gertrude, sia storia e non romanzo); e nel contempo si mette al riparo dalle critiche degli storici. Peraltro, quali siano le “alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là”, “accozzando” le quali uno storico potrebbe verificare o falsificare l’ipotesi, si guarda bene dal dirlo.
Altre volte la distanza tra l’anonimo e il Narratore permette di produrre qualche tipico effetto di “non detto”, così utile a far sospettare cose terribili. Per esempio:
Dal castellaccio di costui [l’Innominato] al palazzotto di don Rodrigo, non c’era più di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d’accordo con lui. Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. (cap. xix)
Rileggiamo: “Gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più)”. E’ facile e anche ovvio, per noi, immaginare che tali “servizi” siano stati turpissimi; ma il Narratore, nascondendosi dietro il silenzio dell’anonimo, ci risparmia l’esibizione di un eccesso di romanzesco.
Talvolta il Narratore si diverte a prendere le distanze dal moralismo dell’anonimo. Per esempio:
Que’ pochi bicchieri che [Renzo] aveva buttati giù da principio, l’uno dietro l’altro, contro il suo solito, parte per quell’arsione che si sentiva, parte per una certa alterazione d’animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po’ esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n’allontani, se ne risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola. (cap. xiv)
“Conti quel che può contare”: vi rifilo la considerazione morale, e mentre ve la porgo me ne ritraggo attribuendola all’anonimo. E, verso la fine del romanzo, ancora più scopertamente:
L’uomo (dice il nostro anonimo: e già sapete per prova che aveva un gusto un po’ strano in fatto di similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a esser l’ultima), l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione. (cap. xxxviii)
Il colpo basso è: “Ma in fondo ha ragione”. Racconto la storia, faccio la morale, prendo le distanze dalla morale, e poi vi dico che la morale è buona e va considerata. Un vero burlone, questo Narratore.
Ma c’è un punto, secondo me davvero emozionante, nel quale tra anonimo e Narratore si arriva al massimo della distanza. Il cap. xxv finisce così:
[Il cardinale a don Abbondio] «Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?»
E tacque in atto di chi aspetta.
E il successivo (xxvi) comincia così:
A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s’era ingegnato di risponder qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de’ nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
Questa è una vera messa in scena del Narratore: con quel manoscritto davanti, con una penna in mano; gli mancano solo il lume acceso e la papalina in testa. Certo: l’espediente serve per far accettare al lettore un personaggio decisamente troppo “completamente buono”; e la frase “Quelle cose erano dette da uno che poi le faceva” si sostiene sulla competenza storica che il Narratore ha più volte esibito (come dicesse: qui parlo da storico, non da Narratore). Ma, soprattutto se pensiamo a cos’erano i romanzi dell’epoca, è stupefacente il coraggio di un Narratore che manipola così la disponibilità a credergli del lettore, e che gioca così astutamente tra finzione (il racconto di Renzo e Lucia), finzione nella finzione (il manoscritto anonimo) e… realtà esibita (da storico) per confermare l’attendibilità della finzione.
Roba da postmoderni, potrebbe dire qualcuno. Eh sì: roba da postmoderni. Ma bisogna pur sempre ricordare che il primo romanzo pienamente postmoderno fu pubblicato tra il 1760 e il 1767 (dico Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, di Lawrence Sterne).
Ma il titolo dell’articolo che state leggendo dice: “Alessandro Manzoni non è il vero autore dei Promessi sposi”. Titolo scherzoso, ovviamente; ma se avete cominciato a pensare che l’ “autore” dei Promessi sposi sia l’anonimo, vi sbagliate di grosso.
Perché, proprio in uno degli ultimi capitoli (in cauda venenum), leggiamo:
Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua [di Renzo, che stava rientrando al paese dopo i fatti di Milano, la peste e i mesi passati sotto falso nome all’estero] mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.
Come la facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fossero quelli che l’aiutassero a trovar sempre la buona, o se l’indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; ché lui medesimo, il quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte, non se ne rammentava che come se l’avesse passata in letto a sognare. Il fatto sta che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell’Adda. (cap. xxvii)
Avete capito? Il vero autore del romanzo è Renzo Tramaglino. Poi sono venute le due trascrizioni: quella dell’anonimo, dall’orale allo scritto (ma a uno scritto secentesco, del quale avete avuto un assaggio prima); e quella del Narratore (o di Manzoni, se volete) dallo scritto secentesco a quello che leggiamo.
Ma quando ci si possa fidare delle trascrizioni, lo stesso Narratore ce l’ha detto: nel capitolo xxvii, quando racconta dello scambio di lettere faticosamente avviato tra Renzo e Agnese:
In somma, s’avviò tra le due parti un carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.
Ma per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.
Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po’ a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto.
Ora, il caso de’ nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto.
E il caso nostro? Di noi, che leggiamo la trascrizione in un italiano d’invenzione personale di Manzoni (perché questo è, tutto sommato, l’italiano dei Promessi sposi), divenuto poi lingua letteraria la nazione, una storia copiata da un manoscritto secentesco che mette per iscritto una reiterata narrazione orale…
Eh, tutto è certo. Fuorché questo: che le cose siano andate proprio come il libro che teniamo in mano, e che s’intitola per esteso I promessi sposi / Storia milanese del secolo xvii / scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, ce le racconta.
* * *
Facciamo un salto di qualche secolo, e accenniamo a un romanzo recente: al primo romanzo, La città di vetro, che compone il volume di Paul Auster Trilogia di New York.
Nelle prime pagine un narratore in terza persona ci presenta un uomo, Daniel Quinn, che scrive gialli sotto lo pseudonimo di William Wilson. Il protagonista di questi romanzi, e narratore in prima persona, è l’investigatore Max Work. Per una serie di eventi che non sto a riassumere, Quinn viene cercato da un uomo che cerca Paul Auster, l’agenzia investigativa Paul Auster. Dopo qualche esitazione, Quinn decide di accettare l’incarico che gli viene proposto, fingendo quindi di essere l’investigatore Paul Auster: basterà che io ragioni e agisca come Max Work, pensa Quinn, e potrò risolvere il caso. A un certo punto, sentendosi un po’ in colpa per l’inganno, Quinn va in cerca del vero Paul Auster: scopre che è anche lui uno scrittore e gli si confida. Paul Auster gli dà qualche suggerimento e incoraggiamento. Poi alla fine tutto finisce male, molto male; nell’ultima pagina del romanzo il narratore improvvisamente dice “io” e racconta di essere andato in cerca di Quinn, caduto in un vortice autodistruttivo, insieme al suo amico Paul Auster (che accusa peraltro di aver tenuto un atteggiamento irresponsabile verso Quinn).
Appena un po’ più complicato di ciò che in pieno Ottocento aveva fatto Manzoni. C’è una differenza di intensità, se volete, ma non di natura dell’operazione.
Col dettaglio in più, che William Wilson (ossia: William figlio di William) è il nome di un personaggio di un racconto di Edgar Allan Poe: che, perseguitato da una specie di amico che si chiama esso pure William Wilson, finisce – nel tentativo di ucciderlo – con lo sparare a sé stesso…
[Nota: Naturalmente, un manoscritto è il titolo della prefazione a Il nome della rosa di Umberto Eco].
L’ha ribloggato su Il peso dei sogni.
Molto interessante! Sto studiando I Promessi Sposi per un esame di letteratura italiana e credo proprio che il tuo ragionamento non faccia una grinza 😉
Be’, è comunque più una suggestione che un vero e proprio “ragionamento”.
Ho letto su una rivista di qualche anno addietro che il manoscritto secentesco è stato realmente trovato, ma non sono in grado di ricordare la fonte da cui ho attinto tale notizia. Sarei grato a chiunque mi fornisse informazione al riguardo, sono interessato a tale ricerca per un’analisi che ho svolto sulla figura di Padre Cristoforo. Ribadisco che sarei veramente grato di ricevere una mano.
Preside, non mi risulta.