100 lezioni di scrittura creativa / 23 (dove si spiega che per fare un editing bisogna diventare un altro)

Scrittura creativa, Corsi di scrittura creativa

di Giulio Mozzi

[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

Buongiorno. Scrivo questo pezzo sabato 5 luglio, alle 9 di mattina. Sono in Toscana, ospite d’un ragazzo che ha scritto un libro interessante e imperfetto. Sono qui per parlarne con lui. Abbiamo due giorni a disposizione. Io naturalmente ho letto e riletto il libro. Sui margini del dattiloscritto ho segnate un sacco di cose: espressioni che non mi sembrano del tutto chiare o abbastanza efficaci; frasi che mi sembrano perfettibili; aggettivi sui quali ho da ridire; svolte delle storie che mi lasciano un po’ perplesso; dialoghi che mi sembrano, volta a volta, troppo pesanti o troppo leggeri; eccetera eccetera. Ma di queste cose, credo che non parlerò con M**.

Il libro di M** è interessante. Si tratta di una serie di racconti legati tra loro da una questione (la parola “questione” mi sembra la più adatta). In ogni storia avviene qualcosa che è spiegabile in un solo modo: immaginando un intervento divino. Eppure, i protagonisti (e i narratori) delle storie, a questo intervento divino non possono credere. Non dico che non vogliono: non possono. Per cui ogni storia si chiude con un movimento, ripetitivo ma ogni volta diverso, di “scarto”: la soluzione-dio viene scartata, aggirata, elusa, dimenticata, lasciata in sospeso, messa in dubbio, nemmeno pensata – come se fosse una cosa troppo terribile, pensarla.

Già. Perché il dio che c’è e non c’è in queste storie, non è mica il dio-consolatore, il dio-buono. E’ piuttosto il dio-dio: quello le cui scelte sono imperscrutabili, e spesso francamente incomprensibili. Quello di Giobbe, per dire: che prima fa una scommessa col diavolo (dio dice al diavolo: “Guarda Giobbe come mi ama”; il diavolo dice: “Per forza, lo hai coperto di beni e ricchezze; làscialo a me, che gli faccio qualche disgrazia, e poi vedremo”; dio dice: “Va bene, basta che non me l’ammazzi”) e poi, quando Giobbe s’alza in piedi e dice: “Dio mio, perché mi hai fatto questo?”, dio prima se ne infischia, e poi s’alza in piedi, squarcia i cieli, guarda Giobbe e gli dice: “Chi sei tu per chiedermi conto delle mie azioni?”.

Un dio difficile da digerire, dunque, quello che appare-scompare nelle storie di M**. E per questo, a mio avviso, un dio interessante. Ma la cosa ancor più interessante, è che le storie che M** racconta non sono inventate. Non da lui, almeno. Nel suo libro M** (che è un appassionato di storia, di fumetto, di narrativa fantasy e di soldatini) ha “rivisitate”, come si usa dire, un certo numero di storie già note, già raccontate. Storie che appartengono alla storia, storie che appartengono alla fantascienza o al fantasy, storie che appartengono alla tradizione favolistica e leggendaria, e così via: dalla nascita di Gesù in Betlemme alla storia della legione romana scomparsa, dal pifferaio magico alla crociata dei bambini. Nel ri-raccontare tutte queste storie, M** ha fatto sì che, appunto, in ciascuna venisse alla luce la “questione”: se dio sia, se dio intervenga nella storia, o se dio non sia, o magari sia ma non intervenga nella storia.

È quasi come se (devo andarci cauto, perché questo è un pensiero mio, non di M**) M** avesse voluto aggiungere qualche storia alle storie, già numerosissime, della Bibbia. Solo che le storie di M** sono più parenti dei libri inquietanti della Bibbia (Giobbe, appunto, o il Qoèlet) che non di quelli confortanti. Se la Bibbia è la storia dell’incontro e della relazione amorosa tra dio e il suo popolo, le storie di M** sono storie di un incontro che per lo più non avviene: di sfioramenti, di occasioni mancate.

Ogni storia poi ha un suo trattamento stilistico specifico. Una storia ha per protagonista Carlo Magno, è in forma drammatica ed è intessuta di citazioni shakespeariane. Una storia è una storia di briganti toscani, ed è scritta in uno splendido italiano contaminato dal parlato. Un’altra storia ricalca modi borgesiani, un’altra ancora nasce da una citazione di Ballard; e così via.

* * *

Che cosa farò con M**? Mi metterò, dattiloscritto alla mano, a discutere di singole frasi, singole parole, microsvolte narrative, aggettivi, pronomi, consecutio temporum? Non credo.

Con M**, parlerò di massimi sistemi. Del modo in cui la “questione” è venuta alla luce in lui. Del modo in cui si può fare “sentire” al lettore la profonda unitarietà del libro che M** ha composto, al di là della deliberata diversità stilistica. Del modo in cui si può far percepire al pubblico naturale di questo libro (i lettori di fantascienza, fantasy e annessi & connessi) la presenza della “questione”. Del modo in cui si può far “aprire” questo libro a lettori estranei al suo pubblico naturale (non parlo di marketing; parlo di azioni interne al libro). Del modo in cui si possono inserire, o far apparire con più risalto, dentro al libro, “segnali” che guidino il lettore da una storia all’altra, da un versante all’altro della “questione”, dallo scetticismo più assoluto al desiderio di dio.

Ci metteremo quindi in giardino, poseremo i dattiloscritti sull’erba (il mio, con tutti i miei segni da “maestrina con la penna rossa”; il suo, con segnate tutte le cose che vorrà chiedermi), e preliminarmente parleremo dei massimi sistemi. Perché un libro è, sì, senz’altro, lavoro artigianale, connessioni, raffinatezza linguistica, coerenza narrativa, tutte quelle cose lì: ma è, prima di tutto questo, un’immaginazione che ha senso, dà senso, ha bisogno di senso. E tutto il resto, una volta che di questo senso si sia venuti a capo, è semplice lavoro.

M** ha le idee chiare. Io, credo, anche. Dobbiamo esplorare ancora un po’ le nostre immaginazioni, per poter lavorare insieme. Perché io sono il suo editor. E devo entrare completamente nella sua immaginazione, imparare a simularla. Finché avrò la mia immaginazione attiva, a poco servirà parlare; e non si potrà discutere nemmeno di virgole.

Il mestiere dell’editor, detto in due parole, è questo: diventare provvisoriamente un altro. Cosa assai divertente, e affascinante. Arrivederci.

Scrittura creativa, Corsi di scrittura creativa
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