100 lezioni di scrittura creativa / 24 (dove si spiega che per fare un editing bisogna andare a spasso con l’autrice)

Scrittura creativa

di Giulio Mozzi

[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

Buongiorno. Scrivo questo pezzo sabato 12 luglio, alle dieci di mattina. Sono stato due giorni in Emilia, ospite di Luisa, che ha scritto un libro assai bello (avrò l’onore di pubblicarlo nel gennaio o febbraio prossimi). [Ricordare sempre che questi articoli sono stati pubblicati diversi anni fa…] Il libro racconta la storia d’una bambina. Ci parlano dentro molte voci. A volte parla la bambina: racconta al tempo presente la sua infanzia. Un’infanzia che sembra veramente d’altri tempi: si parla di campagna, di terra, di bestie, di regole patriarcali, di fame. Eppure Luisa ha forse due, tre anni più di me. La voce della bambina è, ovviamente, scritta dalla donna adulta: ma la sensazione non è quella di leggere una voce adulta che imita una voce bambina; è piuttosto quella di leggere una voce adulta occupata, invasa da una voce bambina.

marialuisabompani_infanziadeaAlla voce della bambina si alternano altre voci. La “voce delle fonti”, ad esempio: una voce cronachistica, appena appena ironica, che riporta antiche filastrocche, cita dai quaderni di scuola della bambina (Luisa – che ovviamente è e non è la bambina; come sempre avviene nelle narrazioni – ha conservato dozzine di quaderni, ritagli, giornaletti, scarabocchi), da vecchi giornalini, da ricordi dei genitori raccolti in età adulta (le preghiere e i canti latini storpiati, le vecchie storielle “da filò”, i “fatti” che si raccontavano). E poi, impressionanti, le fotografie dell’album di famiglia.

La “voce amorevole”, invece, è una voce che fa confusione con i pronomi. Si rivolge alla bambina dandole del tu. Poi dice: io. Poi dice: noi. Cose come: «All’asilo avevi paura. Non avevamo giochi, all’asilo. Non vedevo l’ora di uscire, ma la mamma non veniva mai a prenderci». La voce amorevole dà conforto, è vicina, consola. Tocca la bambina, la avvolge, la accarezza. Non bamboleggia mai, peraltro. Tutt’altro. A volte rimprovera o sollecita, ma sempre per rafforzare.

Infine, a volte parla una voce che Luisa ha chiamata “voce delle radici”. Che è la voce più indecifrabile, per me. Apparentemente è una voce che accusa i genitori, che chiede loro conto. Mi avete fatto questo e questo, dice questa voce. E spesso racconta una rivincita. Ma non si tratta mai di una rivincita contro i genitori; è una rivincita di un’altra direzione. Quand’ero piccola e ogni tanto bagnavo il letto, racconta ad esempio, mi avete instillata la vergogna per i miei liquidi. Bene: oggi non me ne vergogno affatto, anzi; mi piace far pipì dappertutto, anche nei prati, nei parchi, nelle strade. Quando ne ho bisogno ne ho bisogno. «Come i gatti segnano il territorio», ho detto a Luisa. Lei ha riso.

Ma di libri che raccontano l’infanzia, ce n’è a palate. Che cosa fa, di speciale, questo libro di Luisa?

Fa più o meno questo. La bambina è all’inizio un soggetto così trascurabile, per gli adulti, che nemmeno le viene dato il nome, così alieno che nessuno la toccava mai. Alla fine, dopo duecento e passa pagine, la bambina è diventata – per l’adulta – una specie di dea: una dea mediatrice, che consente all’adulta di accogliere, anche amare, il tempo in cui nessuno le dava un nome e nessuno osava toccarla; pur senza cedere, mai, all’invito nostalgico.

Luisa, in somma, ha costruito un vero mito personale. Che è anche, credo, una sorta di mito ctonio. È una cosa non da tutti.

* * *

Lavorare con Luisa è molto bello. In questi due giorni abbiamo chiacchierato sulle generali, esaminate singole pagine, discussi il senso e la lingua di ciascuna delle “voci”, abbozzate soluzioni d’impaginazione.

Abbiamo anche mangiato insalata di riso, melone, tigelle, borlenghi, formaggi, tagliolini.

Abbiamo bevuta moltissima acqua.

Siamo andati al parco del suo paese, dove c’è un laghetto con una coppia di cigni bianchi. Quest’anno la coppia ha figliato: e infatti portavano in giro, un po’ nell’acqua un po’ sul prato, quattro bei cignottini grossi come galline, con il piumaggio ancora incerto e la camminata, sul prato, clownesca.

Siamo andati a vedere il monumento agli scout defunti, che è una cosa che un vicino della Luisa ha costruita nel suo giardino. Una sorta di muro irregolare, alto un paio di metri e largo tre, pieno di nicchie e sporgenze, con incastonate dentro immagini sacre, un presepietto, piastrelle con motti e ammonimenti, crocefissi.

Siamo andati a vedere la casa dell’infanzia della bambina: ossia un condominio/centrocommerciale in puro stile postmoderno emiliano (cioè postomoderno, ma con il mattone a vista), che giace lì dove c’era la casa dell’infanzia della bambina.

Lavorare a un libro, dicevo anche settimana scorsa, significa tentar di condividere un’immaginazione. Un’immaginazione è fatta anche di paesaggio, cibo, luoghi, alberi, monumenti agli scout defunti, case che non esistono più.

Non voglio dire che un buon editor dovrebbe sempre traslocare a casa dei suoi autori. Ma, ogni tanto, è proprio necessario. Non si può entrare nell’immaginazione di Luisa senza entrare anche, almeno per un po’, nei suoi luoghi. Io frequento abbastanza l’Emilia, al suo paese ero già stato, ma di una gita d’un paio di giorni c’era proprio bisogno. Non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello di farla salire a Padova o a Milano. No, sono sceso io.

Poi, Luisa è una donna. E il suo libro, si sarà capito, è un libro differente. Per me, che sono maschio, la faccenda non è semplice. Spesso, semplicemente non capisco. O non capisco, ad esempio, quanto di ciò che dice e racconta Luisa appartenga al suo immaginario, e quanto invece appartenga al suo mondo reale. Non so nemmeno se l’immaginario, per me e per lei, siano la stessa cosa. Se la relazione col mondo, per me e per lei, siano la stessa cosa.

È anche per questo, tra l’altro, che tengo molto a questo libro: perché mi sembra assai bello, ma mi sfugge.

Succede anche questo, all’editor ambulante: inseguire, fino nel profondo dell’Emilia, un libro che gli sfugge. E poi dire, candidamente: «Non so ben che dire». Perché uno dei compiti dell’editor, del non si parla mai, ma è uno dei più importanti, è questo: amare i libri futuri, amarne il mistero. Buona settimana.

Clicca sul naso del ragazzo per leggere il bando della Bottega di narrazione 2015-2016
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Una opinione su "100 lezioni di scrittura creativa / 24 (dove si spiega che per fare un editing bisogna andare a spasso con l’autrice)"

  1. …leggendo mi sono chiesta: ma se per un editor è necessario recarsi a casa dell’autore per capire il suo libro, allora dovrebbe esserlo anche per il lettore futuro di quello stesso libro? Oppure la trasferta è poi servita per “migliorare” il contenuto dello stesso rendendo l’immaginario e il reale distinguibili? o più comprensibili? Oppure ancora è giusto che ai lettori resti questa sensazione di sfuggevolezza?, e la trasferta è solo la conferma della passione provata dall’editor per l’opera?

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