di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno. Scrivo questo pezzo giovedì 17 luglio, alle quattro meno venti (del pomeriggio). Ho appena tirata fuori la posta dalla casella, e ho trovato il nuovo numero della rivista Fernandel (n. 3/2003) pubblicata dalla casa editrice Fernandel. La rivista Fernandel è sempre molto interessante, e anche i libri che fa la casa editrice Fernandel sono molto interessanti. In questo numero della rivista Fernandel c’è una interessante (e divertente) intervista di Sergio Rotino a Tiziano Scarpa. Tiziano Scarpa ha appena pubblicato un libro di racconti (Cosa voglio da te, Einaudi: un bel libro) e Sergio Rotino gli fa delle domande sullo scrivere racconti, confrontato allo scrivere romanzi. «Scrivo contemporaneamente racconti e romanzi», dice a un certo punto Tiziano Scarpa. E aggiunge, parlando un po’ in generale: «I racconti sono scritti meglio, si possono correggere e riscrivere un mucchio di volte. Mentre è difficile governare fino all’ultima virgola una cosa di quattrocento pagine. E da un libro di racconti si possono escludere quelli meno riusciti, mentre magari un romanzo ha bisogno di alcuni capitoli di raccordo che possono essere meno potenti rispetto al resto del libro, ma necessari».
Proprio stamattina, mentre viaggiavo in treno da Milano a Padova, in un recente manuale universitario (Franco Brioschi, Costanzo di Girolamo, Massimo Fusillo, Introduzione alla letteratura, Carocci) leggevo quasi la stessa cosa, ma a rovescio (cioè dal punto di vista del lettore): «La differenza principale tra lungo e breve consiste probabilmente nel fatto che, nel genere breve, il lettore o l’ascoltatore ha la possibilità di un controllo mnemonico totale o pressoché totale degli elementi narrativi presentati, mentre questo non può avvenire nella stessa misura in una narrazione lunga come un romanzo. Ma c’è anche una differenza di modalità di ricezione: un racconto può essere letto o ascoltato in una volta, mentre la lettura o l’ascolto di un romanzo presuppone normalmente, per la sua estensione, delle pause» (p. 139).
Non mi interessa, ora, qui, mettermi a discutere della differenza tra racconto e romanzo (tra l’altro io, a differenza di Tiziano Scarpa, so scrivere solo racconti; quindi sullo scrivere romanzi non ho alcuna competenza diretta). M’interessa mettervi sotto gli occhi questo semplice fatto: nel comporre una narrazione, lunga o breve che sia, tener conto del tempo (del proprio tempo di scrittura, del tempo di lettura), dell’attenzione (della propria attenzione, e di quella del lettore), della possibilità materiale (propria, e del lettore) di tenere tutto il materiale narrativo sempre presente.
Se io, nel comporre, faccio fatica a tenere sotto controllo tutto il materiale, a ricordare con precisione tutto ciò che faccio avvenire, a far durare le “sessioni di scrittura” abbastanza a lungo da scrivere ogni volta una porzione significativa della mia narrazione, mi conviene pensare che esattamente gli stessi problemi, probabilmente, li avrà anche il lettore.
Ieri sena, a cena con persone gentilissime, si discuteva un po’ sul serio e un po’ scherzando, su quanto tempo ci voglia a leggere un romanzo di ottocento pagine. Chi diceva sedici ore, chi diceva dieci. E qualcuno ha detto: «Eh, era bello quando si era ragazzi, che si aveva il tempo di mettersi lì magari due giorni interi, da mattina a sera, e far fuori certi volumoni…». Sono convinto che certe letture di grossi libri fatte da ragazzo, che mi sono rimaste impresse indelebilmente, mi siano rimaste impresse indelebilmente appunto perché potevo permettermi lunghissime sessioni di lettura. Ricordo di aver letto Guerra e pace in neanche due settimane. Vabbè, avevo quattordici anni, ci capivo da qua fin là: però la storia, almeno quella, e certe situazioni (la morte del principe Andrej!) me le ricordo come se avessi chiuso il libro cinque minuti fa. Per leggere Alla ricerca del tempo perduto ci ho messo da novembre 2002 a febbraio 2003: sono più pagine di Guerra e pace, certo, ma una lettura diluita in quattro mesi, d’un libro peraltro che ha singole scene della durata anche di trecento pagine, è una lettura veramente malfatta.
E allora? Dicevo: mentre scrivo la mia narrazione devo pensare, una volta di più, a chi la leggerà, e a come la leggerà. Ieri, in casa editrice, discutevo con Giorgio un suo testo che pubblicheremo all’inizio del 2004: è un libro di racconti (anche se sono racconti per modo di dire: si potrebbe chiamarli «brani di testo descrittivi del mondo» e, bruttezza della formula a parte, si sarebbe più precisi) tutti centrati su un numero ristretto di ambienti situazioni tipologie di personaggi, ma variabilissimi nella forma, che lui nel suo dattiloscritto ha impaginati come se fossero paragrafi di un romanzo. Ci siamo trovati a discutere l’opportunità di questa scelta (sulla quale, a dire il vero, forse lui non aveva meditato più che tanto). Ci piaceva l’idea che tutti questi racconti molto legati tra loro fossero sulla pagina quasi una “colata” d’inchiostro (e di narrazione); d’altra parte ci pareva che fosse il caso di inserire, qua e là, quasi delle “pause caffè” per il lettore, dei possibili luoghi di sosta durante la lettura. Altrimenti, ci siamo detti, rischiamo di ammazzarlo, questo povero lettore.
Ecco: l’amore per il lettore (del quale ho parlato più volte, in queste pagine) consiste anche nel non chiedergli più di quanto chiederemmo a noi stessi. Se abbiamo composta una pagina in cinque giorni di duro lavoro, ricordiamogli che lui (come anche noi, quando siamo lettori) si aspetta di poterla leggere in un paio di minuti. Se abbiamo voglia di scrivere un romanzo con cinquecento personaggi, ricordiamoci che così come noi avremo il problema di ricordarceli tutti, lo stesso problema ce l’avrà anche il povero lettore. Perché, da questo punto di vista, come da altri, il narratore e il lettore, questo va detto, sono nella stessa barca. Arrivederci.
