di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

«Lei che è uno scrittore, che cosa farà durante le vacanze?».
«Ma, non lo so, mi pare già una grazia che quest’anno vado in vacanza».
«Scommetto che ne approfitterà per scrivere qualcosa di nuovo».
«Non sono uno di quelli che riescono a scrivere come se fosse un lavoro».
«Allora leggerà».
«Se è per questo, leggo sempre».
«Ma in vacanza che cosa preferisce: leggere o rileggere?».
«Non vedo la differenza».
«Non so, qualcosa come rileggere i classici, o i libri voluminosi che durante l’inverno non è riuscito a leggere, oppure un libro al quale è affezionato e che rilegge spesso».
«Sinceramente: parto domani, ma non ho ancora pensato a che libri mettere in borsa. Ce n’è un paio che devo finire, e poi ne prenderò su qualcun altro. Un po’ a caso».
«Ma per lei la vacanza è un momento d’ispirazione?».
«Anche fare la coda in posta per pagare le bollette può essere un momento d’ispirazione».
«Dunque lo scrittore non va mai veramente in vacanza».
«Ma sì, vado in vacanza, vado a Pantelleria due settimane».
«No, nel senso che la sua mente, le sue piccole cellule grigie, anche durante la vacanza, saranno sempre lì a lavorare, a elaborare storie…».
«A dire il vero, mi piacerebbe proprio stare un po’ senza far niente».
«In fondo la vita dello scrittore è tutta una grande vacanza, no?».
«Come, scusi?».
«Sempre lì, a leggere, scrivere, meditare, a conversare con altri scrittori, a confrontarvi ai convegni…».
«Non so che dirle. Stamattina ero a Verona, 82 chilometri in treno da Padova, mia città, sveglia alle 5.45 del mattino, per quattro ore di lezione sul descrivere luoghi in un master per futuri “manager culturali”. L’altro ieri ero a Milano, 232 chilometri, sveglia sempre alle 5,45, a lavorare in casa editrice, dove abbiamo discusso alcuni aspetti contrattuali d’un autore, progettato un convegno da farsi in primavera prossima, pianificata la campagna stampa per un libro che esce in settembre, inseguito un personaggio illustre dal quale vorremmo una prefazione. Il giorno prima ancora ero a Lignano, sulla costa friulana, non so i chilometri, sveglia alle 6 del mattino, per una lezione sul lavoro editoriale in uno stage di scrittura e narrazione…».
«Insomma, non vorrà lamentarsi».
«No. Infatti. Non mi lamento. Voglio solo far notare che ciò di cui vivo è un lavoro come un altro, una libera professione come un’altra. Come tanti devo alzarmi presto, raggiungere il luogo di lavoro, fare quello che mi è stato chiesto di fare, possibilmente farlo bene, tornare a casa, e sperare che mi paghino. La mia esistenza non è una grande vacanza. È l’esistenza di un libro professionista come un altro».
«Lei quindi si considera un professionista».
«Sì, ma non del raccontare. Mi considero un professionista dell’insegnare a scrivere e narrare, del descrivere luoghi, dello scegliere libri da pubblicare».
«E allora, quand’è che lei crea?».
«Quando càpita, se càpita. Non credo di avere creato tanto spesso».
«Non faccia il falso modesto».
«Non faccio il falso modesto. Di inventare davvero, forse mi è capitato due volte in vita».
«E il resto è tutta professionalità?».
«Il resto sono tentativi falliti, riusciti a metà, non riusciti per niente, non riusciti per un pelo, che quasi quasi ce la facevano, che ce l’avrebbero fatta se fossi stato capace di essere meno simile a me stesso…».
«Lei non è simile a sé stesso?».
«Io sono simile a me stesso. Ma per creare, certe volte, bisognerebbe diventare un altro».
«Lei non ha fiducia in sé stesso».
«Diciamo così: ho fiducia nella mia capacità di diventare, di tanto in tanto, un altro».
«Una specie di dottor Jeckill e mister Hyde».
«Se vuole».
«A questo punto, però, non mi ha ancora detto che cosa farà durante le vacanze».
«Sì che l’ho detto: quello che fanno tutti».
«Montagna o mare?».
«Mare, l’ho già detto. Vado a Pantelleria».
«Le piace leggere sotto l’ombrellone?».
«Ci sono certi libri che sotto l’ombrellone vanno benissimo».
«Ad esempio?».
«I libri lunghi».
«Le piacciono i libri lunghi?».
«Sì. Se un libro è lungo, già solo per quello mi interessa».
«Legge i best-seller americani?».
«No, ci ho provato delle volte, ma mi annoio. Si capisce subito come finiranno le cose».
«Con qualche eccezione».
«Con qualche eccezione, d’accordo, ma l’idea di annoiarmi nove volte su dieci non mi entusiasma».
«Quindi in valigia metterà dei libri lunghi?».
«Non credo».
«E allora?».
«E allora, guardi, se proprio vuole: ho tirato giù dallo scaffale, proprio mentre parlavamo, La penombra che abbiamo attraversato di Lalla Romano, Einaudi, che ho comperato una vita fa ma non ho ancora letto; Gli esordi di Antonio Moresco, Feltrinelli, che ho letto e vorrei rileggere; Il peccato e la paura, di Jean Delumeau, il Mulino, un saggio sull’idea di colpa tra Medioevo e Rinascimento che ho cominciato tre volte senza mai venirne a capo; Paterson di William Carlos Williams, Lerici, un poema che ho già letto tre o quattro volte; Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Einaudi, un classico dell’urbanistica. Penso che potrebbero andare, e bastare».
«Qual è il più lungo?».
«Il Delumeau, che fa mille e otto pagine».
«Ma perché legge un libro di mille pagine sul senso di colpa?».
«Dice che non dovrei?».
«No, non lo dico, ma mi sembra strano che uno scrittore legga un libro del genere».
«Perché strano?».
«Perché non è letteratura, è… è… non saprei neanche dire che cos’è, un libro del genere, di storia del senso di colpa. E quello di urbanistica, poi, che cosa se ne fa?».
«Ma, non lo so. Non è che me ne faccio qualcosa direttamente. Sono una persona umana, ho dei sensi di colpa, vivo in una città, perché non dovrei imparare qualcosa sui sensi di colpa e sulle città?».
«Ma non dico che non dovrebbe. È che pensavo che gli scrittori leggessero solo libri di scrittori».
«E i farmacisti leggono solo libri di farmacia?».
«No, non faccia apposta a non capire».
«Infatti, ho capito benissimo».
«E che cos’ha capito?».
«No, meglio se non lo dico».
«No, lo dica, invece».
«Lo dica».
«No».
«Lo dica, sì».
«No».
«Sì».
«No».

…cinque libri, di cui uno di oltre mille pagine, in due settimane? Di vacanza, certo. L’ho capito. Ma avrà pur dovuto anche mangiare e dormire. Alla faccia del dolce non far niente. Che dire? La stimo, sì, decisamente.
Non solo mangiare e dormire, ma anche cucinare e fare il bucato. I vantaggi del dormir poco.
Pure io dormo pochissimo (tre volte a settimana, sveglia alle 05.30, gli altri giorni verso le 07.30) e la sera mi corico verso le 23.30 (poche volte riesco prima), ma davvero non ce la potrei fare, nemmeno in vacanza. Solo una volta ho letto un librone in 10 giorni di ferie: Il nome della Rosa. Ero in un alberghetto sulla spiaggia. Ho letto fino allo sfinimento tutti i giorni, tutto il giorno (salvo mentre mangiavo). E per me è un record. 😀 So di non far parte dei lettori veloci (giocoforza, per motivi miei) – e proprio per questo la mia ammirazione si mescola a una sana invidia – ma lei è sorprendente.
Ah, Il nome della rosa. Sono passati tanti anni, ma il mio ricordo è questo: comperato in libreria nel pomeriggio; letto fino alle due o tre di notte; ripreso nel pomeriggio del giorno successivo; finito di leggere alle due o tre di notte.
Per Infinite jest: una settimana in montagna (facendo anche le passeggiate, ecc.).
Non so se sono un buono o cattivo lettore. So che spesso rileggo (e le riletture sono molto più lente).
Ecco questa è una domanda che mi faccio sempre: ma con tutti i libri che ci sono davvero mi metterei a rileggerne uno se fossi in grado di divorare pagine su pagine senza problemi? (Finora rileggo solo di tanto in tanto il monologo di Novecento, ma soltanto la parte in cui il protagonista descrive quel che ha provato quando decise di non scendere a terra; l’adoro). Non lo so… Una volta sono finita in un trip poco divertente. Prima di dedicarmi ai romanzi amavo leggere solo testi di filosofia, psicologia e altri saggi. Ogni libro mi apriva molte porte verso altri libri e ogni volta invece di sentirmi “appagata per aver imparato qualcosa”, mi sentivo “frustrata” perché mi rendevo conto che non sarei mai riuscita a leggere tutto quel che c’era da leggere per imparare davvero. Mai sentita tanto ignorante come in quel periodo. È un po’ come la passione per il viaggio. Ogni volta che ho amato un luogo mi sono ripromessa di farci ritorno, poi non l’ho mai fatto perché è ancora troppo il mondo che devo scoprire. Perché rilegge i libri già letti? Intendo, ovviamente perché le piacerà il libro in questione… ma più nel dettaglio?
L’ha ribloggato su bibolottymomentse ha commentato:
Grazie!