di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Le ripubblico qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Una narrazione, dicevo la settimana scorsa [cioè ieri…], è una concatenazione di avvenimenti. La cosa è banale. Adesso dico un’altra cosa banale: una narrazione è una selezione di avvenimenti. Vediamo un po’.
C’è un esempio che Umberto Eco ha fatto in un qualche suo libro (non ricordo quale). Gli rubo l’esempio. In un film, diceva Umberto Eco, noi vediamo una persona che si sveglia, si lava, si veste, esce di casa, sale in automobile, va, arriva dove deve arrivare, esce dall’automobile, entra in un palazzo. Bene. Noi però, nel film, non vediamo tutte queste cose minuziosamente raccontate. Il film può mostrarci una stanza buia con una sveglia che suona; poi un tipo che si lava la faccia in bagno; poi lo stesso tipo che esce di casa e attraversa la strada per raggiungere l’automobile; poi l’automobile in mezzo al traffico; poi l’automobile che si ferma e il tipo che ne esce fuori; poi il portone del palazzo con il tipo che ci entra dentro. Questo è normale.
Noi ci accorgiamo che il film che stiamo guardando è un brutto film, diceva Umberto Eco, soprattutto se ci accorgiamo che questo montaggio di avvenimenti è sbagliato. Ad esempio, se un passaggio è troppo lungo o troppo corto; o se manca un passaggio essenziale; o se è presente un passaggio inessenziale. In sostanza, concludeva Umberto Eco (ma qui sto usando parole mie, diverse dalle sue, che erano molto tecniche) una buona narrazione è fatta di elisioni e di allusioni ben funzionanti. Tutto ciò che per lo spettatore (o per il lettore: è uguale) è assolutamente ovvio, oppure ricostruibile a posteriori, può essere tranquillamente omesso: anzi, deve essere omesso, a meno che non si voglia costruire una narrazione specificamente puntata sugli avvenimenti ovvii, trascurabili, insignificanti. Nel qual caso, forse si potrà fare una buona narrazione, probabilmente si farà una narrazione assai difficile da leggere (sia chiaro: nessuno è tenuto a scrivere narrazioni facili da leggere; qui stiamo facendo dei discorsi attorno alle narrazioni per così dire “medie”).
Allora: il punto sta proprio nell’imparare a selezionare efficacemente gli avvenimenti da rappresentare, e nel saper valutare la capacità del lettore (o dello spettatore) di riempire i vuoti che lasciamo nella narrazione. Come si impara questo? In un solo modo: leggendo narrazioni che ci sembrino buone, e osservando in quali modi il narratore che ci piace seleziona e monta gli avvenimenti. Proviamo, mentre leggiamo, a tenere d’occhio i vuoti della narrazione. Osserviamo come il narratore, narrandoci l’avvenimento A e l’avvenimento C, induca noi lettori a immaginare, tra A e C, l’avvenimento B che non viene raccontato. Osserviamo come il narratore continuamente alluda a cose che bene o male conosciamo, e come questo suo far ricorso alle nostre competenze gli permetta di correre via spedito, senza fermarsi continuamente a precisare questo e quello. Osserviamo, soprattutto, non tanto quello che il narratore fa, quanto quello che facciamo noi lettori. Siamo noi che abbiamo in mente il filo della narrazione, che connettiamo tutto ciò che leggiamo per mezzo di questo filo, che riempiamo i vuoti, che interpretiamo tutto ciò che avviene nel testo sotto i nostri occhi (o sullo schermo davanti ai nostri occhi) come se facesse parte di un’azione unitaria, e non come se fosse una sequenza di avvenimenti slegati.
È dal nostro comportamento come lettori, insomma, che impariamo come dobbiamo comportarci come narratori.
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Naturalmente ogni narrazione ha un modo tutto suo di elidere (cioè di non raccontare certe cose) e di alludere (cioè di raccontare certe cose per sommi, sommissimi capi). Ma tutti questi modi diversi sfruttano lo stesso fatto: che il lettore mentre legge (o lo spettatore mentre guarda), automaticamente integra la narrazione e ne prevede gli svolgimenti.
Io, sprofondato nella mia poltrona, pensai rapidissimamente: “Sì; è come nei film di Buster Keaton; ora la porta si aprirà di colpo e sbatterà sul naso di Kidman”. In quell’istante la porta si aprì di colpo e sbatte sul naso di Kidman, mandandola lunga distesa per terra. L’intero cinema sobbalzò per lo spavento. Io mi feci scappare una lunga risata solista.
Cos’era successo? Semplice: io, per puro caso o grazie alla mia abitudine a lavorare su narrazioni, ero stato capace di prevedere l’avvenimento; di conseguenza, quando l’avvenimento si realizzò, lo percepii in maniera del tutto diversa da quella di tutti gli altri. Pensateci un attimo: la scena della porta che prima, per quanto tirata e spinta, non si apre, e poi si spalanca da sola colpendo in faccia il protagonista, non è forse una scena classica da film di Fantozzi? Sì: in ogni film di Fantozzi ci sono due o tre scene fatte esattamente in questo modo. Ma il regista di The others poteva tranquillamente far conto che, essendo The others un film molto diverso dai film di Fantozzi (o di Buster Keaton), gli spettatori non si sarebbero aspettati una “mossa” di quel tipo. Quanto a me, sono l’eccezione che conferma la regola.
In sostanza: ogni volta che fate un passo avanti nella narrazione, immaginate che cosa potrebbe avvenire nella testa di un lettore. È davvero molto semplice, ed è tutto qui. Arrivederci.

Efficace l’uso della parola “elidere”, secondo me.