di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Le ripubblico qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Si parlava di trame. E dicevo: in fatto di trame, c’è poco da imparare. E non credo che si possa insegnare gran che. Si può provare, forse, a indicare qualche regola generale. Che peraltro vale quel che vale.
Una trama deve avere un capo e una coda. Sembra una banalità, e in effetti lo è. Ci sono capolavori della narrativa mondiale che non hanno né capo né coda (Gargantua e Pantagruele di Rabelais, ad esempio; oppure Orlando di Virginia Woolf): ma certe cose, sia detto in confidenza, lasciamole fare a chi se le può permettere. Che una trama abbia un capo e una coda, significa in pratica questo: la situazione che si produce alla fine deve essere in una qualche relazione (narrativa, simbolica, allegorica, morale…) con la situazione dalla quale il racconto è partito. Se all’inizio abbiamo un giovinotto e una giovinotta che vogliono sposarsi, e un cattivone che lo vuole impedire, non possiamo avere alla fine i marziani che invadono la Patagonia. Tra le centinaia di dattiloscritti speranzosi di pubblicazione che leggo, i casi così sono dozzine.
Una trama vive di azioni raccontate al tempo presente o al passato remoto. Leggo continuamente romanzi, o pretesi tali, in cui gran parte degli avvenimenti è raccontata all’imperfetto. «A quei tempi Mario abitava a Quingentole ed era innamorato di Maria. Gironzolava davanti casa sua tutte le sere, trovava una scusa per attaccare bottone, le offriva un caffè al bar, casualmente si trovava nell’ufficio postale o dal droghiere quando lei doveva appunto spedire una raccomandata o comperare il detersivo». Una narrazione all’imperfetto non racconta mai un fatto preciso, determinato, unico; racconta avvenimenti ricorrenti; e non c’è niente di male a fare ricorso, di tanto in tanto, a queste “narrazioni condensate”: ma il regime dell’imperfetto non può essere dominante.
Il tempo ha i suoi tempi. Le azioni hanno bisogno di tempo per avvenire. Umberto Eco, nelle «Postille» aggiunte, dalla prima edizione in poi, al Nome della rosa, dice di aver calcolato i tempi di certe conversazioni tenendo conto del fatto che esse avvengono durante spostamenti dei personaggi da una parte all’altra dell’Abbazia nella quale è ambientato il romanzo: spostamenti che richiedevano, secondo le distanze, certi precisi tempi. Se un personaggio va da Roma a Bologna in treno, ci metterà quelle tre ore circa; se deve imparare l’inglese, avrà bisogno del suo tempo; se invecchia, gli servirà un certo numero d’anni. Anche questa è una banalità; ma la vedo spesso dimenticata.
Una trama è un concatenamento di avvenimenti. Non è un semplice susseguirsi. Don Rodrigo vuole possedere Lucia perché ha fatto scommessa con il conte Attilio, suo cugino; perciò manda i bravi a spaventare don Abbondio; a causa della sua amicizia competitiva con il conte Attilio, non può rinunciare alla cosa (gli importa molto meno di metter le mani su una ragazza belloccia che di far brutta figura col cugino); perciò, man mano che le cose si fanno sempre più difficili per lui, finisce con l’intricarsi in relazioni sempre più problematiche (arriva fino a quel grande boss della criminalità organizzata che è l’innominato). Il comportamento di don Rodrigo è guidato dalla legge dell’escalation, del continuo aumento della posta; ma, secondo questa legge, è rigorosamente conseguente. Renzo e Lucia vogliono sposarsi; hanno una prima reazione emotiva che li porta a tentare il matrimonio clandestino; quando questo fallisce, solo allora capiscono che è meglio per loro fidarsi di fra Cristoforo che dei loro istinti; perciò fuggono e si separano, andando incontro a svariate avventure. Ora: che il cattivone debba persistere nella sua cattiveria, è una regola generale: quando desistesse, la storia finirebbe lasciando tutti insoddisfatti. E che i due amanti debbano essere separati per vivere svariate avventure (e subire tentazioni, avere incidenti ecc.) lo sapevano già i romanzieri ellenistici, duemil’anni fa. Ma, in ogni narrazione, questi fatti che per così dire devono avvenire, devono avvenire per ragioni proprie, interne alla situazione di partenza. Devono essere, nel migliore dei casi, conseguenza di quel fucile che avevamo visto appeso al muro nella prima scena…
Una narrazione è un montaggio. Nei film pornografici, la cosa essenziale è mostrare l’atto sessuale; tuttavia, le diverse scene in cui si realizza (con estrema facilità) l’atto sessuale, sono comunque “tenute assieme” da sia pur labilissime scene di raccordo; e l’azione principale (l’atto sessuale in corso) è spesso interrotta, intercalata, da altre scene (con atti non sessuali), che hanno lo scopo di attizzare la curiosità dello spettatore sottraendogli ciò che più gli interessa. Se perfino nei film pornografici abbiamo scene di raccordo, montaggi alternati di scene della storia principale e scene delle storie collaterali, e così via, non potremo esimerci di usare questi strumenti nelle nostre narrazioni (che sono, o vogliono essere, mi auguro, più serie di un film pornografico). Riprendiamo il discorso, da questo punto, tra sette giorni. Saluti.

L’ha ribloggato su Flavio Firmo's Blog.