di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Le ripubblico qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].

L’altro giorno stavo in una biblioteca, e facevo più o meno i discorsi sulle trame che ho fatti nelle ultime settimane qui in questa rubrica. A un certo punto una ragazza bionda e con le guance rosse alza la mano e dice: «Ma insomma, in sostanza, come si fa a capire quando una trama è una buona trama?».
«Non ne ho idea», dico io.
L’aula si mette in agitazione.
«Come sarebbe, che non ne ha idea?», dice un ragazzo con il maglione celeste. «Ci sta parlando da due ore e adesso ci viene a dire che non ha idea?».
«Be’, sì», dico. «È così».
E sto zitto. Perché io, quando voglio, sono una peste.
Il confabulamento aumenta. Tutti parlottano. C’è aria di rivolta.
«Senta», dice un ragazzo lungo lungo, alzandosi in piedi. «Ci ridarebbe indietro i soldi?».
Risate. Che tipo di risate? Risate cordiali, sdrammatizzanti? Risate ostili? Risate d’imbarazzo?
«Posso rinunciare al compenso che la biblioteca mi ha promesso», dico, «ma se volete i soldi indietro, dovete fare causa alla biblioteca. Io non so neanche quanto avete pagato».
«Trenta euro», dice una signora sulla sessantina con i capelli biondi tinti.
«Trenta euro per ciascuna delle quattro lezioni o trenta euro in tutto?», domando.
«Trenta euro in tutto», dice la signora.
«E allora», dico allargando le braccia, «che cosa pretendete per trenta euro? Se volete sapere come si fa a capire quando una trama è una buona trama, dovete spenderne almeno trecento. Forse tremila».
Non ride nessuno. Anzi, tutti ammutoliscono.
«In che senso?», sbotta un tipo dall’aria incazzata (ma aveva l’aria incazzata anche la volta prima: sarà uno che ha quest’aria di suo).
«Nel senso», dico, prendendo il tono di quello che smorza i conflitti, «che magari in teoria si possono formulare delle regole, dei criteri. Ma poi, in fondo, è sempre un fatto di esperienza e sensibilità».
«Insomma, la solita storia», dice il ragazzo col maglione celeste. «Sta per dirci che dovremmo spendere trecento o tremila euro in libri, farci le ossa leggendo, e allora poi magari», e fa un gesto in alto con la mano destra, come a dire: E poi, magari, chissà….
«No», dico. «Non voglio dire questo. Voglio dire che davvero certe cose non si insegnano, o almeno non si insegnano in situazioni come queste. Però si imparano. Ma si imparano se c’è davvero un investimento personale. Ad esempio: a me il cinema piace. Però non ci vado mai. Non trovo mai il tempo. Stasera sono qui con voi, domani sera sarò a Vercelli per un incontro, poi vado a Milano, poi vado a Reggio Emilia… Chi ce l’ha, mi dico, il tempo di andare al cinema? E così, di fatto, non investo seriamente nel cinema. Mi piacerebbe anche scrivere un romanzo. So di che cosa avrei bisogno, per provare seriamente a scrivere un romanzo: di tre mesi di isolamento. Mi servirebbero per cominciarlo, per farmi un’idea sulla quale potrei poi lavorare anche non in isolamento. E tre mesi di isolamento, potrei anche prendermeli. Me li posso permettere, nonostante il mutuo». (Ridono. Bene). «Però non me li prendo, questi tre mesi di isolamento. Avrei anche la solidarietà di tutti: la mia compagna, le persone con cui lavoro, eccetera, se dicessi loro: guardate, mi servono tre mesi di isolamento per cominciare un romanzo, cercherebbero di agevolarmi. Ne sono sicuro. Però io non lo faccio. E così resto quello che sono: uno scrittore di racconti».
Vedo che sono impressionati. Bene.
«E perché ci fa questo discorso proprio a proposito delle trame?», dice la signora sulla sessantina con i capelli biondi tinti.
«Ma», dico, «potevo farlo anche a proposito d’altro. Me lo tenevo di scorta, per quando qualcuno mi avesse chiesto di formulare delle regole, dei criteri certi. È del tutto normale desiderare dei criteri certi», dico rivolgendomi alla ragazza bionda e con le guance rosse (non voglio metterla sotto accusa), «ma in certi casi bisogna adattarsi all’idea che non se ne possono avere. Che bisogna farne a meno. Che bisogna provare e riprovare, e vedere che cosa succede. I trecento o i tremila euro», e qui mi volto verso il ragazzo col maglione celeste, «potranno anche servirvi per comprare libri, oppure per andare al cinema, o per visitare mostre e musei – che sono tutte cose altrettanto utili e istruttive – ma intendevo dire, prima, soprattutto, visto che si dice che il tempo è denaro, che vi occorre tempo. Dovete trovare il tempo di provare e riprovare. Di scrivere e di riscrivere. Di fare e di buttare via. Di costruire e poi guardare che cosa avete costruito. Lei», mi rivolgo al tipo incazzoso, «quanto tempo dedica, settimanalmente, a esercitarsi nella scrittura e nella narrazione?».
«Non saprei», dice il tipo.
«Cinque ore?», incalzo, «Dieci ore?».
«No, no», dice il tipo. «Magari un paio d’ore la settimana. Una sera la settimana, ecco».
Tutti capiscono che probabilmente il tempo è ancora di meno.
«E lei?», dico al ragazzo lungo lungo.
«Più o meno siamo lì», dice.
«E lei», dico a una ragazza con i capelli nerissimi e gli occhiali tondi, «quant’è lunga, la cosa più lunga che ha scritta?».
La ragazza esita, poi dice: «Quattro pagine».
«E lei?», dico a un ragazzo con tre peli di barba, ma lunghissimi.
«Eh», dice, con un enorme sospiro, «qualcosa di più… Anche quindici pagine… Tutte cose non finite, comunque».
«Ecco», dico.
Tutti tacciono. Tira un’aria da esame di coscienza collettivo. Per un istante mi attraversa il ricordo dei campi scuola dell’Azione Cattolica.
«Io ho scritto trecento pagine», dice rompendo il silenzio un signore con i capelli bianchi e le rughe.
«Quanto ci ha messo?», domando.
«Eh, forse cinque anni. È la storia di tutta la mia vita».
«E ha una buona trama?», insisto.
Il signore ride. «No. Ma chi se ne importa. La leggeranno i miei nipoti. L’ho scritta per loro. Non è una vita avventurosa, è solo…», ha un’esitazione piccolissima, «è solo la mia vita, ecco. La vita del loro nonno. Io ho fatto i figli tardi, mia figlia ha fatto i figli tardi. Sono vecchio. Adesso mi saltano sulle ginocchia, quando saranno grandi e io non ci sarò, mi conosceranno. Mi pare una cosa bella».
«Cinque minuti di pausa», dico.
