di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Le ripubblico qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno. Finivo il mio pezzo, la settimana scorsa, scrivendo: “Perché il mondo non va mica imitato. Va inventato. Ma ne riparleremo”. Ne riparleremo, ma non oggi. Oggi ho voglia di raccontarvi un’altra cosa. Che comunque c’entra.
Oggi, cioè sabato 13 dicembre [di qualche anno fa…] (giorno in cui materialmente scrivo il pezzo, alle undici e mezza di sera), sono a Palermo. Leonora Cupane del centro studi Città Invisibili mi ha invitato a condurre un piccolo laboratorio di scrittura: la sera del venerdì, le intere giornate di sabato e domenica. Una ventina di partecipanti. Titolo del laboratorio: “Narrare vuol dire diventare un altro”.
Questa del “diventare un altro” è una delle mie fisse.
Mi sono accorto (mi è anche stato fatto notare…) che ormai in tutte le occasioni che ho di parlare o scrivere (se converso con gli amici, se faccio lezione, se scrivo per Stilos o nel mio diario in rete, e così via) finisco col parlare o scrivere sempre delle stesse cose. Ci sono dei pensieri che mi occupano per settimane e mesi, e per settimane e mesi letteralmente non sono capace di pensare ad altro.
Il problema è che io non penso. Pensare significa, credo, stare lì da soli, e far funzionare il cervello. Magari si può nel contempo fare qualcosa per distrarre il corpo o i sentimenti: passeggiare ai giardini pubblici o in alta montagna, ascoltare buona musica che sappiamo praticamente a memoria, pulire la casa, lavorare al tornio. Io però questo non lo so fare. Da solo, non so pensare. So pensare solo scrivendo. Ultimamente, addirittura, solo parlando.
Nei corsi e laboratori di scrittura il mio lavoro è sempre accuratamente preparato. Come è ovvio che sia. C’è sempre un certo spazio per l’improvvisazione (quando si leggono e commentano i testi prodotti dai partecipanti, non si può ovviamente che improvvisare; e càpita di trovarsi davanti un gruppo che ha bisogni imprevisti od offre opportunità che sarebbe un peccato non cogliere).
Tuttavia, sempre più spesso accade che nel bel mezzo di un corso o di un laboratorio (oppure di una conferenza o di una conversazione) io perda all’improvviso la Trebisonda e cominci a parlare non dell’argomento previsto, bensì del mio pensiero dominante di quel periodo.
La cosa mi preoccupa.
Qualche anno fa ho fissato questo pensiero: “Quando scrivo, io non svelo, io non scopro me stesso. Quando scrivo, io produco me stesso. Prima che scrivessi, non c’ero; dopo che ho scritto, ci sono”. In questi mesi ho fatto un piccolo cambiamento, e dico: “Quando scrivo, io invento me stesso”.
Naturalmente, c’è una contraddizione. Basterebbe domandare: “Scusa, ma chi inventa te stesso? Se tu vieni inventato, vieni inventato da qualcuno; e questo, chi è? E se sostieni che vieni inventato da te stesso, allora vuol dire che ci sei già, prima di inventarti”.
Ho deciso di accettare la contraddizione.
Quando scrivo, invento un me stesso che non è esattamente me stesso. Invento un altro me stesso. Senza questo altro me stesso, non sarei capace di scrivere. Naturalmente ogni attività di scrittura richiede l’invenzione di uno specifico me stesso. Anche per scrivere questo pezzo per Stilos, devo inventare un altro me stesso. Peraltro questa è la quarantaquattresima puntata, e il me-stesso-autore-dei-pezzi-per-Stilos è ormai un soggetto abbastanza stabilizzato.
Quindi: per scrivere, devo inventare un altro me stesso, e dopo averlo inventato devo diventarlo. Devo quindi, in sostanza, diventare un altro; un altro inventato da me, un altro me stesso, ma pur sempre un altro.
[Stavo raccontando giusto queste cose, oggi (mentre scrivo, sono ormai le undici di sera), quando a un certo punto un signore simpatico (uno dei signori più simpatici che mi sia mai capitato di incontrare in queste situazioni) ha levate le braccia al cielo e ha detto: “Aiuto!”. E poi ha aggiunto: “Ma se io comincio a pensare a questo, a pensare che tra me e ciò che scrivo c’è sempre un altro, c’è questo me stesso che fa per così dire da mediatore, e che per ogni testo che scrivo c’è un distinto me stesso che media, eccetera eccetera, sai che cosa succede?”.
“Sì”, ho detto. “Che smetti di scrivere, e stop”.
“Ecco, appunto”, ha detto il signore simpatico. “E allora?”.
“E allora” ho detto, “tu pensi mentre guidi l’automobile?”.
Il signore simpatico ha riso. “Sì, penso. Ed è per questo che vado sempre a sbattere di qua e di là”.
“Ma pensi a guidare o pensi ad altro?”, ho detto.
“Penso ad altro”, ha detto il signore simpatico, ridendo.
“Ecco”, ho detto allora. “Tu guidi senza pensare a quello che fai mentre guidi. È questione di addestramento”.
“Mah”, ha detto il signore simpatico.]
Ma che cosa sono, questi altri me stesso? Sono dei complessi di modi stilistici, di parole, di punti di vista sul mondo, di forme narrative, di contenuti narrativi e di pensiero, eccetera eccetera.
Quando dico queste cose, c’è sempre qualcuno che salta fuori a dire: “Vabbè, ci stai semplicemente dicendo che per ogni tipologia di testo che fai, installi nella tua mente una proiezione di te come scrittore dotata di specifiche caratteristiche stilistiche e narrative”.
Magari è così. Magari questo è il modo più economico per dire la cosa. Ma non mi soddisfa. Perché questi altri me stesso, io non me li sento mica come delle funzioni del testo. Me li sento, piuttosto, come dei veri e propri mediatori, che mi consentono di fare cose che in loro assenza non saprei fare.
E allora mi vien da dire che la primaria, e forse principale, attività del narratore, consiste nell’inventare e nel produrre intorno a sé un certo numero di altri se stessi, di mediatori in somma, ciascuno dei quali si rende disponibile nel momento in cui c’è bisogno di lui.
Bene. In questo momento, dunque, sono invaso da questo genere di pensieri. Per questo ho deciso di parlarne oggi. Peraltro la cosa c’entra con l’argomento promesso la settimana scorsa. Tra inventare altri se stessi, inventare altre persone, inventare mediatori, e inventare mondi, non è che ci sia poi tanta differenza. La prossima settimana [cioè domani…], comunque, riprendiamo il filo.

Credo che una qualsiasi lezione, a volte, sia più utile quando genera nuove domande pur dando già diverse risposte. E questo “corso” è proprio stimolante. Leggendo me ne sono sorte tante di curiosità. Ad esempio, che sia per questo che a volte può capitare di rileggere un proprio testo e pensare di non essere stati noi ad averlo scritto? Oppure, di fatto, uno scrittore bravo si inventa un nuovo sé stesso con tanta consapevolezza da poterlo controllare? (Il che vorrebbe dire che rileggendosi dovrebbe riconoscersi sempre, in un modo o nell’altro). E poi ancora. Potrebbe semmai essere utile – per diventare un autore capace di re-inventarsi di volta in volta – fare un corso di recitazione? Un soggetto patologicamente riconosciuto con un disturbo della personalità (che in genere comporta la presenza di più “individui“ nella stessa persona) potrebbe essere più avvantaggiato? Oppure potrebbe rischiare – facendo il giochino di inventare un altro (ancora) sé stesso – di non riuscire più a capire “chi è davvero”? (sembra ironica, ma non lo è). Tutte queste domande ruotano attorno allo stesso nocciolo: quando guido non penso a quel che faccio, tanto che a volte “mi porto” in luoghi abituali, o comunque diversi rispetto alla corretta destinazione; oppure, mi dimentico proprio di trovarmi in auto. Eppure per riuscirci sono dovuta passare da una presa di coscienza dei gesti da automatizzare. In questo reinventarsi quanto c’è da imparare per farlo e quanto è invece ascrivibile a una sorta di intuizione interiore, di modalità automatica innata?
inventarsi un’altra me stessa mentre scrivo. C’è una specie alter ego quando scrivo perchè so che nel contenitore del nuovo personaggio c’è qualcosa di mio, che però in qualche modo prende una struttura diversa dalla me che cucina o guida. Quel personaggio ha la capacità di stupirmi perchè in parte vorrei essere come lui o lei e in parte so che è solo una piccola parte di quella che non sono. Nell’ultimo mio scritto, in cerca di una casa editrice, un romanzo corale a due voci, un ragazzo e una ragazza si alternano a descrivere quello che è il mio nodo:Il mondo interiore che passa per il mondo esteriore. Io sono entrambi, ma allo stesso modo sono due cose diverse che parlano di una visione del mondo interno ed esterno diverso da quello che vivo tutti i giorni. Due voci ma io sono sola a narrare e a esprimerli. Però non è uno sforzo come se contenessimo tante voci, ma al momento parliamo solo una lingua per comunicare, conoscendo un altro modo per farlo, cambiamo voce, intonazione.
Scusami, ma questo discorso interessantissimo dell’inventare se stessi mentre si scrive (che è un po’ il mio modo) come si coniuga con quell’altro discorso, quello dell’esitare?
Non si coniuga, Salvatore: fa un’unione civile.
🙂
Seriamente, Salvatore: ci sono delle cose che accadono, o possono accadere, solo prima di mettersi a scrivere. E ce ne sono altre che accadono, o possono accadere, solo mentre si scrive.
Immagina di corteggiare una persona. Ci vuole del tempo. In quel tempo te la immagini, la pensi, e ti sembra anche di diventare tu stesso diverso. Ma solo nel momento in cui farete l’amore tu capirai chi sei diventato nella relazione con quella persona.
Samantha ha descritto bene la cosa, mi pare.
Manuela: non si tratta di “sostenere una parte”, ossia di recitare, ma proprio di diventare un altro. Di scoprire di essere non solo sé stessi, ma anche un altro o un’altra.