di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Le ripubblico qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Continuiamo a parlare di avventure e disavventure dell’autore. Ma faccio una divagazione. La settimana scorsa avevo finito con una domanda; settimana prossima tenterò una risposta. Oggi voglio parlare di quest’altra cosa qui.
Il settimanale L’Espresso ha pubblicato un pezzo di Mauro Covacich intitolato: «Ho le vertigini da fiction». Il testo intero dell’arsticolo Covacich scrive tra le altre cose:
La nostra è un’epoca di meraviglie. Il cielo si è abbassato al punto che gli aerei entrano nelle costruzioni più alte. Maestri di scuola si vestono di tritolo e salgono sugli autobus per farsi brillare. Attori diventano governatori. Cantanti diventano primi ministri. Presidenti della Camera diventano conduttrici televisive. […] Ogni cosa per essere reale dev’essere trasmessa, ma non solo – questa ormai è roba vecchia – anche ogni esperienza di vita è reale solo se pensata da chi la vive coi ritmi, le sequenze e le inquadrature di una fiction. Il concetto la vita come un romanzo ha cambiato più volte faccia fino ad arrivare a la vita come un reality show.
E poi interroga:
Perché gli scrittori italiani si sottraggono a tutto ciò? Perché lo ignorano mentre raccontano le loro storie? […] Perché non riusciamo a prendere il mondo per le corna? Perché non riusciamo a raccontare storie – non importa se inventate, vere, realistiche, surreali – in grado di spremere la vita, di metterla sotto torchio?
Mauro Covacich è uno scrittore che pubblica dal 1993. I suoi libri sono tradotti in varie lingue. Il suo ultimo romanzo, A perdifiato, uscito nel 2003 per Mondadori [l’ultimo quando scrivevo questo pezzo… Il più recente oggi è La sposa, molto bello], è stato ampiamente lodato. Il suo articolo, in sostanza, riprende uno dei “discorsi circolari” della società letteraria italiana; un discorso che periodicamente rispunta, e che è l’esplicitazione di una sorta di “complesso d’inferiorità” della narrativa italiana rispetto alle altre narrative, soprattutto quella anglosassone; l’inferiorità consistente, volta a volta, nella minore capacità di produrre solide trame, nello scollamento con la società reale, nella mancanza di senso epico, nell’elitarismo bellettristico o, come nella versione esposta da Covacich, nell’incapacità di «spremere la vita, metterla sotto torchio»: mentre gli scrittori statunitensi, si dice, non fanno altro tutto il giorno.
Nei giorni scorsi ho riassunto e commentato il pezzo di Covacich nel mio diario in rete [che non è più in rete…]. Le reazioni, tra i lettori del diario, sono state le più varie. Ne riporto alcune, scegliendole tra quelle che esprimono disaccordo.
Un lettore che si firma Mario Zero scrive:
Ma siamo davvero sicuri che nei libri cerchiamo brani di realtà? Io non ne sono affatto convinto. Leggiamo forse Dante o Shakespeare o Tolstoi per avere un’immagine precisa del medioevo o dell’Inghilterra elisabettiana o dellka Russia dell’Ottocento? Non mi pare. La letteratura è l’opposto della realtà. Nella realtà, soprattutto in quella “sociale”, tutto appare confuso, insensato, mentre nell’arte le parole formano una bellezza, un senso, ed è per questo che le amiamo. Il mondo è uno sgabuzzino soffocante, l’arte prova ad aprire una finestra, ad aggiungere aria e un senso ulteriore. L’arte, da sempre, partecipa al regno dello spirito, non a quello della baraonda sociale. […] Agli artisti chiedo di aprire il mondo, non di raddoppiarlo.
Una lettrice che si firma Anonima Sequestrata scrive:
A Mauro Covacich direi che, naturale, dicesse, facesse e pensasse quel che vuole. Soprattutto gli dicevo di curarsi di casi suoi […] sforzandosi lui stesso, in qualità di scrittore, di far lo scrittore nel modo che più lo aggrada, giusto scrivendo. La domanda che si fa per mestiere perché richiesto da un giornale letto da migliaia, […] m’augurerei che se la ritorcesse, principalmente quando pensa gratis tra sé e sé, modificandola dunque in questa quasi identica: perché mi sottraggo a tutto ciò? Perché lo ignoro mentre racconto le mie storie?
Un lettore che si firma Demetrio scrive:
Cosa manca, agli autori italiani? Forse l’onestà. Non so ma tutte le volte che leggo […] noto un deficit di onestà. Dire la cosa che conta. Dare un segno alla realtà, darne una voce. Organizzare una storia che abbia una voce che sia sentita reale da parte di chi ci legge. Forse dovremmo avere più tempo e meno impegni. La scrittura e il gesto dello scrivere è un’azione lenta e antica. E forse questo tempo sdegnato e veloce non ci permette di trovare il giusto ritmo e la giusta voce. Essere onesti forse è quello che manca agli scrittori. Onesti nel dire: abbiamo grandi pensieri, magnificenti concetti del vivere, ma caro lettore noi andiamo di fretta e quello che possiamo offrirti è questo testo. Così. Smozzicato, spizzicato e storticato. E’ il massimo che possiamo offrirti. Forse questo nostro atto (dico nostro nel senso più ampio) di umiltà potrebbe darci la forza di scrivere un testo che morda la realtà.
Un lettore che si firma Ardito Piccardi (don Ardito Piccardi è il protagonista del romanzo Il cielo e la terra di Carlo Coccioli: un uomo che si è fatto prete non per amor di Dio, ma in odio a Satana) scrive:
Dato che la realtà è il segno utilizzato dalla verità per manifestarsi. Dato che la verità non si capisce ma si incontra. L’importante è che lo scrittore sia onesto. Onesto, artista, e per il resto libero di essere così com’è. Il mondo può discutere, ma poi nella vita ci si innamora di una donna brutta e stronza, di un uomo che ci stava sulle palle, e si scopre un libro che ci tocca nervi sconosciuti. Credo si debba solo distinguere tra letteratura e virtuo-trucchetti-simil-questo-o-quello. Se uno scrittore dà il sangue, quello è uno scrittore, anche se alla shampista non piace.
Che cosa, dunque, intendo suggerire, allineando questi estratti di reazioni al pezzo di Mauro Covacich? Una cosa sola. Quando l’autore si interroga su ciò che fa, e si azzarda a manifestare questo interrogarsi in pubblico, stia attento. Perché spesso l’autore si fa, su ciò che il suo lavoro è per i lettori, delle idee un pochettino immaginarie. Ma anche di questo riparleremo.