Perché la Bottega di narrazione non può sostituire anni e anni di analisi

di giuliomozzi

Recentemente una persona ha scritto, in calce a una mia noterella in Facebook, una frase del tipo: “Ho il sospetto che un solo anno di Bottega di narrazione possa fare lo stesso effetto di anni e anni di analisi”. Si tratta ovviamente di un’iperbole, ovvero di un’affermazione del tipo:

Pietro disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello, se pecca contro di me? fino a sette volte?”. E Gesù: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Mt 18,22).

Nel nostro caso, però, si tratta di un’iperbole che contiene una similitudine, a sua volta iperbolica: un anno vale come tanti anni (iperbole), Bottega di narrazione come analisi (similitudine), Bottega di narrazione come più “potente” dell’analisi (conseguenza dell’iperbole: in quanto fa in un anno ciò che l’analisi fa in anni e anni).

Spogliata la battuta del suo valore enfatico, resta però una cosa: che la frequentazione della Bottega di narrazione viene paragonata all’analisi: viene detto che è come l’analisi, salvo essere più potente (o più spiccia).

Ora, io voglio contestare questa similitudine. La Bottega di narrazione non può essere paragonata all’analisi per una quantità di ragioni:

– perché chi la conduce non ha alle spalle un percorso, né formale né informale, di formazione all’analisi;

– perché, in ogni caso, chi la conduce non ha una supervisione;

– perché, a prescindere dagli esperimenti (e dai pasticci) fatti nei terribili anni Settanta, l’analisi è una cosa che avviene tra analista e analizzando: non in gruppo;

– perché uno dei fondamenti dell’analisi è uno specifico uso del tempo, e nella Bottega il tempo viene usato in tutt’altro modo (conoscete qualcuno che abbia fatto un’analisi in incontri mensili da 8 + 8 ore ciascuno?);

– perché (e qui parlo anche a nome di Gabriele Dadati, di Claudia Grendene, di Demetrio Paolin) chi conduce la Bottega non ha nessunissima intenzione di trasformarla in uno strampalato set analitico.

Dopodiché: che nella Bottega di narrazione, come in qualunque corso o scuola di narrazione, come in qualunque corso o scuola, come in qualunque situazione formativa della vita, possa accadere qualcosa che somiglia di lontano a ciò che avviene in un’analisi: concesso. Ma è come dire che il dentista somiglia al neonato, perché entrambi appena possono ti ficcano le dita in bocca (il neonato anche negli occhi).

In realtà, sgombrato il campo da qualunque cosa possa far sospettare un abuso di professione, adesso provo a dire perché, per alcuni, determinate esperienze formative, e forse la Bottega più di altre, possono far legittimamente venire in mente certe situazioni d’altro genere.

Riporto qui uno dei “princìpi n. 1” che si insegnano in Bottega di narrazione (poiché risulta impossibile stabilire delle gerarchie tra princìpi, tutti sono n. 1):

Se nella tua narrazione c’è qualcosa che non torna, che non s’incastra minimamente col resto, la cui presenza manda in crisi tutto il resto, hai due possibilità:
– elimini quel qualcosa,
– oppure fai di quel qualcosa il centro di tutto.

Chi abbia un’idea di che cosa sono (in psicoterapia, scuola eriksoniana e watzlawiana) le “prescrizioni del sintomo” e le “ingiunzioni paradossali”, riconoscerà in questo “principio n. 1” qualcosa di simile. Chi non ne ha un’idea può, se vuole, frugare nel web o leggere un buon libretto divulgativo.

Ma la cosa più importante è che qui siamo, se vale l’analogia appena suggerita, in prossimità del territorio delle psicoterapie brevi ad approccio strategico: tutt’altra cosa, quindi, dall’analisi. Le psicoterapie brevi si danno lo scopo di rimuovere un sintomo (es. classico: gli attacchi di panico), l’analisi si dà tutt’altri scopi.

D’altra parte, il trucco – ebbene sì: il trucco – di distogliere l’attenzione dell’allievo da un certo oggetto, o da un certo modo di affrontare un problema, in maniera abbastanza aperta da permettergli poi di reindirizzarla liberamente e diversamente, be’: lo conoscono tutti i formatori. Anche gli allenatori di pallacanestro, i cuochi di Masterchef, i professori di fisica, eccetera (gli insegnanti di catechismo, almeno per la mia esperienza, fanno clamorosa eccezione: chissà perché).

Poi, certo, nelle classi avvengono i transfert (“il processo di trasposizione inconsapevole, nella persona dell’analista, di sentimenti provati dal soggetto nei riguardi di persone che ebbero importanza nella sua vita infantile”: Google), ma è risaputo che il maschio medio italiano s’innamora di una donna che gli ricordi, magari per un dettaglio, per un certo oggetto piccolo (a), ec. – la mamma, che è sempre la mamma. E non per questo sospettiamo che ogni coppia sia un set analitico (sì, lo so: certe lo sono. Poveretti).

Peraltro, mi è successo una quantità di volte di sentir dire: “Per me la scrittura è (come) una terapia ecc.“. Ho notato che le persone che dicono cose del genere spesso paragonano l’attività di scrittura al vomito: “Vomito sulla pagina quello che ho dentro ecc.” (mi sono sempre chiesto, en passant, come certe persone possano pensare che il loro vomito possa interessare a qualcun altro). Da un’idea di scrittura come terapia all’idea di un corso o laboratorio o seminario di scrittura come set terapeutico, mi rendo conto, ci vuol poco.

Ma è sbagliato.

Con ciò, non voglio dire che la Bottega di narrazione, come qualunque altra occasione formativa, non possa cambiare un po’ le persone. Ma nella Bottega ci si occupa primarissimamente, e credo con professionalità, di opere da scrivere. Per il resto siamo dilettanti, come tutti.

Grazie per l’attenzione.

Un set estremo: 80.000 terapeuti per un solo paziente 🙂

2 pensieri riguardo “Perché la Bottega di narrazione non può sostituire anni e anni di analisi

  1. Esaustivo. E poi secondo me una bottega di narrazione assomiglia a (non è come) uno studio dentistico. Con l’analisi c’entra poco. Ogni progetto è come un dente da togliere: finché non è tolto fa male. Il bottegaio/dentista ti da una mano a togliertelo: “guarda che bel dente che è venuto fuori! Ora lo mostriamo a un po’ di case farmaceutiche” oppure “prevenire è meglio che curare” etc. Ne consegue che, secondo me, non è umanamente possibile tirare fuori più di 32 progetti a testa.

I commenti sono chiusi.