di Giulio Mozzi
Tutti lo facciamo: prendiamo in mano un libro perché attirati dal nome dell’autore, dal titolo, dall’immagine di copertina, alla posizione che il libraio gli ha assegnato, eccetera; lo prendiamo in mano, diamo una scorsa alla bandella o alla quarta, lo apriamo, leggiamo qualche riga, lo mettiamo giù. Oppure non lo mettiamo giù, leggiamo ancora qualche riga, eccetera. E alla fine lo comperiamo o no.
Molti degli acquisti che facciamo sono, per così dire, degli acquisti improvvisati. Fatti sulla base di pochissime informazioni. Certo: chi compera un libro di Andrea Camilleri dopo averne letti otto ha un’idea piuttosto precisa di che cosa cerca e di che cosa troverà; chi compera un libro di Annie Ernaux dopo che sette amiche gliene hanno parlato con gridolini d’ammirazione non ha forse un’idea precisa del libro ma sicuramente ha un’idea precisa dell’effetto che il libro gli può fare; chi ha letto una recensione ben fatta scritta da un critico o da un giornalista che segue da tempo può addirittura essere in dubbio se comperare o no il libro, visto che già ne ha letta una recensione così ben fatta; e così via. Ma, insomma, la cosa più bella è quando adocchiamo qualcosa, ci dedichiamo due minuti, facciamo la scommessa, e poi a casa scopriamo di averla vinta.
Ovviamente a chi fa, come me, il lavoro di scegliere che cosa si pubblicherà e che cosa no (per la precisione: il mio lavoro consiste nel fare proposte all’editore per il quale lavoro; e l’editore poi decide) si chiedono decisioni un tantino più costruite e motivate. Eppure, va detto, la maggior parte delle opere che vengono scartate passano un esame che dura qualche minuto appena. (Quelle che vengono approvate, invece, passano una quantità di esami). La domanda è: come si può, con sicurezza, scartare il 99% (e sono generoso) di ciò che si legge, senza quasi mai leggere per intero, e anzi spesso con poco più di una semplice occhiata?
Qui propongo un esercizio che, pur essendo veloce, sarà un pochino noioso. Premetto che ricevo circa 1.400 dattiloscritti l’anno, e che quindi, per necessità di mia sopravvivenza, una lettura approfondita di tutto ciò che ricevo non è materialmente possibile. Ricordo che io lavoro per un editore, il quale mi paga uno stipendio, e non per chi mi spedisce testi in lettura: ho dei doveri verso l’editore, non ho doveri verso i perlo più a me ignoti speditori.
Comincio. Leggete qui:


Vi dirò dopo di quali libri si tratta, ma non è importante. Vi faccio notare che questi due incipit (ché di incipit si tratta) presentano una dinamica pressoché identica: viene presentato un personaggio nell’imminenza della morte, mentre sta compiendo o sta per compiere un’azione importante; e in entrambi i casi non sappiamo se questa azione sia o no connessa con l’annunciata morte, né sappiamo se il protagonista dell’incipit sia in effetti il protagonista dell’intera narrazione (ossia: non sappiamo se l’attesa della morte del personaggio sarà l’arco narrativo che sosterrà l’intera storia). Entrambi i personaggi sono dotati di una qualifica (parroco l’uno, architetto l’altro), entrambi sono presentati in un ambiente (la cantina della chiesa, la camera da letto), su entrambi sono fornite delle informazioni, eccetera.
La differenza principale tra i due incipit è che il parroco sta evidentemente compiendo un’azione eccezionale (tutti capiamo che sta nascondendo qualcosa) mentre l’architetto sta evidentemente compiendo un’azione banale (svegliarsi). Ma le condizioni del risveglio dell’architetto, nella loro banalità, ci vengono comunque presentate come eccezionali.
Detto questo, il lettore professionale comincia a leggere. Legge, e senza nemmeno pensarci si accorge di tutta una serie di cosette. L’elenco che segue è puntiglioso e noioso, e tuttavia incompleto; tenete conto che il lettore professionale coglie tutto questo con un’occhiata.
– finì di richiudere l’apertura con l’ultima pietra: al di là di quel “ri-chiudere” che potrebbe essere un automatismo come alludere a una chiusura precedente (ma è da dubitarne), è chiaro che l’aggettivo “ultima” è enfatico: se si chiude con pietre, necessariamente si finisce chiudendo con l’ultim pietra.
– gli restavano ancora quattro ore da vivere: al di là di quell’ “ancora” non necessario, e di nuovo enfatico, l’espressione “restar da vivere” fa un po’ film western.
– l’ampio dorso della mano: l’aggettivo “ampio” è un cliché.
– si appoggiò all’indietro alla parete umida e fredda:
è chiaro che la coppia di aggettivi “umida e fredda” non è veramente descrittiva, ma serve solo a produrre una sensazione di inquietudine basata sul cliché che tutto ciò che è sotterraneo è “umido e freddo”.
– un’occhiata nervosa: l’aggettivo “nervosa” è cliché.
– stretta scala a chiocciola: le scale a chiocciola sono normalmente strette; l’aggettivo serve solo a produrre una sensazione di inquietudine.
– che saliva verso l’alto: mai vista, fuorché in qualche incisione di Escher, una scala che salga verso il basso.
– Qualcosa: come “la cosa”, “quella cosa”, eccetera, si tratta di un altro cliché dell’inquietudine, consistente nel trasformare un vivente in un non-vivente.
– Ci fu un altro scricchiolio, come se qualcuno si spostasse furtivo: “cricchiolio” e “furtivo” sono altri cliché dell’inquietudine.
– sulle assi del pavimento della chiesa: quante sono le chiese con pavimentazione in “assi” (di legno)? Mica tante. Se poi sotto c’è la pietra… D’altra parte, la pietra non può “scricchiolare” (vedi sopra).
– Non per nulla…: un modo davvero goffo per dire che, appunto, si stava lavorando per sistemare la chiesa. Tecnicamente: si porta la conseguenza (i lavori in corso) al posto della causa (la chiesa vecchia e pericolante). Peraltro, un edificio può essere pericolante anche senz’essere particolarmente vecchi, e viceversa: l’accoppiata è solo enfatica.
– che crollasse proprio nel bel mezzo di una messa: bastava dire “che crollasse”, il resto è enfasi.
– Una violenta bufera di neve ululava: “violenta” è enfatico, perché si parla di “bufera” proprio se la faccenda è violenta. Quanto all’ “ululare”, è cliché. La tempesta ululò, il lupo ululà.
Il lettore professionale coglie tutte queste cose al volo, e compie una scelta. Può decidere che questa roba va bene, anzi benone, per un lettore che preferisca sentirsi impartire istruzioni circa le emozioni che deve provare; così come può decidere che questa roba non va bene, per niente, per un lettore che voglia assistere a una storia e provare le emozioni che gli va di provare. E il lettore professionale, a seconda del suo gusto e/o della sua posizione lavorastiva, può scegliere per un sì o per un no.
L’opera in questione è stata pubblicata, e potete leggerne una recensione entusiasta qui. La storia è inverosimile al punto giusto, ma questo non è un problema di per sé (vi pare verosimile l’Orlando furioso?).
Vediamo il secondo incipit.
– il martedì di giugno: l’indicazione temporale, per quanto vaga, serve evidentemente a provocare un effetto di realismo (e, lo dico una volta per tutte: il realismo è un effetto, e stop).
– fu assassinato: anche il primo esempio introduceva (lo so io, fidàtevi) un assassinio; tuttavia la minaccia qui è più precisa. Altro effetto di realismo.
– guardò l’ora molte volte: diversamente dal primo esempio, qui il personaggio compie un gesto banale. Altro effetto di realismo.
– oscurità fonda: “fondo” è un aggettivo, in questo impiego, meno frequente e meno “facile” di “profondo”. Si tratta quindi di una scelta, per così dire, preziosa.
– finestra ben tappata: idem. Una finestra “tappata”, aggettivo poco frequente in questo impiego, è più chic di una finestra semplicemente “con le tapparelle abbassate” o simili.
– Mentre la sua mano: mentre il prete del primo esempio usava la sua mano, qui la mano sembra avere vita autonoma. E’ un effetto di dettaglio, quasi un’inquadratura ravvicinata.
– maldestra per impazienza: una formula piuttosto elegante, abbastanza sfoggiata.
– risaliva lungo le anse del cordoncino: insieme, un effetto di realismo (il cordoncino a cui è appeso l’interruttore è messo proprio sotto ai nostri occhi) e un preziosismo (la parola “anse” è qui inconsueta).
– paura irragionevole: questo è più un cliché dell’inquietudine.
– l’ora della telefonata: come il prete del primo esempio nasconde qualcosa che non sappiamo cosa sia, qui l’architetto attende di ricevere (o di fare) una telefonata non si sa a proposito di cosa. E’ un po’ lo schema, identico nei due esempi, del “ve lo dico e non ve lo dico”.
– per lui, che di solito dormiva fino alle dieci e oltre, era un chiaro sintomo di nervosismo: il personaggio è presentato come un qualcuno che apprende i propri movimenti interiori dai propri gesti (qui, il gesto – involontario – di svegliarsi presto). Soluzione modernista (vi ricordate Lo straniero di Camus?).
– Calma, s’era raccomandato: il personaggio, modernisticamente diviso in due, parla con sé stesso (senza virgolette, alla moda d’oggi).
– Sua madre: segue una serie di informazioni sul personaggio: non solo è dormiglione, ma vive con la madre che lo serve, si lava poco, e si rade forse ancora meno spesso.
– Meticolosa lentezza: un’accoppiata non infrequente ma nemmeno del tutto banale.
Il lettore professionale che cosa può inferire da questo inizio? Che l’autore sa scrivere, certo, e probabilmente ci tiene a fare sfoggio di una certa eleganza – solo eleganza, peraltro, non sublimità. Forse, addirittura – e questo sarà da capire leggendo – questa eleganza è ironicamente impiegata; il che renderebbe forse l’opera più difficile ma non troppo. In sostanza: abbiamo probabilmente difronte un prodotto classicamente midcult, molto adatto a quei lettori che vogliono, mentre leggono, avere la sensazione di essere bravi e colti a leggere quella roba lì che stanno leggendo.
Il romanzo è questo.
Chi abbia letto il primo o il secondo romanzo il cui incipit abbiamo velocemente esaminato potrà valutare appieno quanto il lettore professionale (che poi: sono io) ci abbia preso. L’esercizio voleva solo mostrare come anche da poche righe, se lette con attenzione (e con la vigile sensibilità di chi legge per mestiere) si possa ricavare un’impressione precisa sull’opera. Naturalmente non ci si può fidare della lettura di solo poche righe; ma magari di qualche pagina sì.
CONDIVIDO PIENAMENTE L’OSSERVAZIONE.
GRAZIE PER L’ILLUMINAZIONE
MADDALENA FRANGIONI
Il giorno 8 agosto 2018 15:46, Bottega di narrazione – Corsi e laboratori
Lettura veloce di un articolo, indici di velocità di scrittura, o di mancata rilettura: “schricchiolio” “realsimo”.
P.S. Il primo è una traduzione dal tedesco. Forse le brutture sono dovute alla traduzione?
Grazie per la segnalazione degli errori; ora correggo. Che il primo esempio sia una traduzione non cambia nulla: evidentemente l’editore non ha sentito il bisogno di avere qualcosa di diverso.
Ecco. Io seguirei un intero corso composto da una cosa così: cioè dall’esame di testi commentati con questo tipo di argomentazioni. Tra l’altro per alcuni lettori basta anche solo il titolo: forse non a convincere ma a scoraggiare. Io ricordo che “Il nome della rosa” mi ispirava una storia romantica d’amore, magari d’ampio respiro che sfociava in una saga famigliare; per cui me ne tenni alla larga per anni. 😊 (Poi a volte si sbaglia… magari, ma non sono tutti Eco 😉 )
Piccolo refuso manca una “e” dove dice “Sua madre: seguna…”
Peccato che i sue corsi siano principalmente a Milano se l’approccio è questo sarebbero utili anche ad avere una lettura più consapevole
Il primo è stato facile, per chi ha seguito almeno un tuo corso. Ho indovinato ogni osservazione. Il primo testo non mi piace molto, è sciatto ma mi cattura, vorrei proprio sapere se quella cavolo di chiesa casca in testa al prete col nome strano oppure no. Insomma è un testo trash che mi cattura. Il secondo è molto più bello, ci sono immagini belle, il cordoncino con le sue ansie e l’ansia della mano, e meno belle il fatto che il protagonista parli a se stesso – a me non piace quasi mai – ma mi cattura meno. Mi importa assai di cosa succederà a quel bamboccione puzzolente. Come mai, secondo te? Stavo pensando: meglio un dichiarato trash che un midcult?
Grazie di questi interessanti spunti di riflessione. Sono andata a guardare la versione originale del libro di Pötzsch (conosco bene il tedesco), e devo dire che il testo tedesco non presenta gli inestetismi elencati (a parte le assi di legno, che sono di legno anche in tedesco). La traduttrice (Alessandra Petrelli?) ha lavorato pure per altre grandi case editrici. La mia domanda è solo: i grandi editori non hanno un lettore professionale che valuti le traduzioni?
(Non c’era un esempio di testo in italiano? Ho capito che ai fini della discussione è lo stesso, ma non è forse tanto onesto nei confronti di questo Pötzsch; io non ho letto nulla di lui né in tedesco né in italiano, magari scrive male in ogni caso, ma comunque…)
Deliziata. L’unico corso che frequenterei sarebbe il tuo, Giulio.
E vado subito a rileggermi La donna della domenica.