144 modi per non dire “disse”, uno per non dirlo proprio e uno per dirlo sempre

Come scrivere un dialogo efficace

di Giulio Mozzi

Mi sono imbattuto per caso in un articolo di Daniele Imperi, nel blog Penna blu, intitolato Dialoghi: 144 alternative al classico “disse”. Nella breve premessa, Imperi fa una considerazione sullo scrittore Philip K. Dick: “Nei suoi romanzi è raro trovare il tradizionale verbo ‘dire’ in un dialogo, perché i suoi sono tutti strutturati in modo da rendere contestuali i verbi che esprimono la conversazione dei personaggi”. Imperi ha dunque spulciato almeno un romanzo di Dick, poi si è dato da fare, ha compulsato un dizionario dei sinonimi, eccetera, e poi ha prodotto delle liste di “verbi di comversazione” (chiamiamoli così), divisi in sottoliste: Verbi di risposta, Verbi di contestazione, Verbi che esprimono contentezza, Verbi che esprimono ira, Verbi che indicano una modulazione nel tono della voce, Verbi informativi, Verbi che provocano una relazione, Verbi che danno inizio al discorso, Verbi che chiudono o completano il discorso, Verbi di pensiero e assertivi; e per finire, naturalmente, Altri verbi non classificabili. In tutto sono 144 verbi, e potete andarvi a vedere le liste complete nell’articolo di Imperi. Qui, a titolo di esempio, fornisco la lista dei Verbi che indicano una modulazione nel tono della voce:

lamentarsi
piagnucolare
frignare
farfugliare
balbettare
biascicare
tartagliare
blaterare
grugnire
bofonchiare
ronzare
bisbigliare
sussurrare
mormorare
sbuffare
borbottare

Il gioco avviato da Imperi potrebbe estendersi, volendo, agli avverbi e alle forme avverbiali, nonché ai gerudi e simili. Sempre restando nell’ambito delle modulazioni del tono della voce, potremmo avere

flebilmente
sottovoce
con insistenza
lentamente
impercettibilmente [*]
quasi inudibile
sovrastando il brusio circostante
sotto i baffi
cincischiando le parole

eccetera. “Lamentarsi flebilmente” e “Lamentarsi cincischiando le parole” sono due cose ben diverse, così come “Blaterare con insistenza” e “Blaterare sovrastando il brusio circostante”. E qui mi fermo con gli esempi.

Ovviamente, è una faccenda di gusto. Imperi trova “piuttosto noiosa” la “ripetizione continua del disse“; e loda, alla fine dell’articolo, quegli scrittori che riescono addirittura a fare a meno del verbo di conversazione. Io mi sono divertito a fare un intero libro nel quale il “dice” e il “dico” (sono tutti raccontini in prima persona) ricorrono ossessivamente, fino a parossismi del tipo:

“Dica”, dico.
“Come ha detto?”, dice.
“Ho detto ‘dica’”, dico.

Ovviamente, una volta fatto un libro così, non si può che tentar di fare qualcosa di completamente diverso: e nel testo lungo (non oso chiamarlo romanzo, perché ancora la sua forma mi sfugge) al quale sto lavorando da qualche anno non c’è alcuna traccia di verbi di conversazione. E ho ancora in mente, come una specie di incubo, un lavoro di editing su un romanzo – più che discreto, di per sé – nel quale a ogni battuta di dialogo c’era il verbo di conversazione e, spessissimo un’ulteriore determinazione (un avverbio, una forma avverbiale, un gesto). Qualcosa del tipo.

“Ascolti”, alzò la voce all’improvviso Mario, mentre gli si avvicinava.
“Mi dica”, rispose distrattamente Girolimoni, gettando uno sguardo all’intorno.
“Lei non può pensare di cavarsela così”, sibilò Mario affrontandolo, un leggero tremito nelle mani.
“Cameriere, una camomilla per il signore”, gridò Girolimoni beffardo, girando la testa verso il banco.

Eccetera. Se non siete già morti asfissiati, provate a immaginarvi duecentocinquanta pagine così. Sembrava uno spettacolo di marionette, dove all’inespressività dei volti si deve supplire con un continuo agitarsi dei corpi.

Ma, detto tutto questo, propongo una riflessione. Semplice semplice. E la esprimo nella forma di criterio generale, e la metto addirittura in grassetto.

Se un dialogo è bene scritto, non ha bisogno di alcun indicatore di modulazione del tono di voce.

Non c’è bisogno di dire che Giggetto urlò, se le parole dette da Giggetto sono parole che “contengono”, per così dire, l’urlo; non serve dire che la giovinetta surrurrò trepidamente, se le sue parole sono in effetti parole pensabili solo come dette in un trepidò sussurro, non serve dire che Cesare esclamò, se ciò che dice è tipicamente un’esclamazione (“Guarda chi si vede”), addirittura rimarcata da un punto (vedi mai) esclamativo (“Guarda chi si vede!”), e così via.

I verbi di conversazione, gli avverbi, eccetera, sono spesso come dei cartellini appiccicati alla scena in corso, che dicono al lettore: “Ehi, guarda che questa cosa qui lui l’ha detta esclamando! Guarda che lei gli ha risposto flebilmente! Guarda che lui ha ribattuto, lei ha rimarcato, lui ha insistito, lei ha ceduto infine…”. A me (questione di gusti? senz’altro) fanno lo stesso effetto di quei camerieri che mentre ti mettono il piatto davanti – cogliendoti di sorpresa, da dietro – ti bisbigliano all’orecchio il contenuto del piatto. Capisco che è il loro lavoro, e che le regole del locale sono quelle, ma ne farei molto volentieri a meno.

A chi fosse interessato alla materia, dunque, propongo un esercizio. Basta prendere un proprio testo (o, se non si è autolesionisti, un testo scritto da qualcun altro – magari da uno scrittore illustre), osservare una per una le battute di conversazione con gli eventuali verbi di conversazione, avverbi ec. connessi, e volta per volta domandarsi: potrei fare a meno di questi verbi, di questi avverbi ec.? Quali parole devo mettere, nella battuta di conversazione, perché non siano necessarie altre specificazioni e indicazioni per il lettore? Che cosa posso fare, insomma, perché il dialogo abbia forza di per sé, e non debba essere sostenuto da una più o meno macchinosa messa in scena?

A quel punto, potrete limitarvi a usare il caro vecchio “disse”; o addirittura – con un po’ di attenzione, perché il lettore riesca ad attribuire le battute senza doverci pensare su – fare a meno anche di lui.

A chi vorrà dedicarcisi, buon lavoro.

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[*] Sia chiaro che ciò che è impercettibile non può essere percepito dagli altri personaggi sulla scena.

4 pensieri riguardo “144 modi per non dire “disse”, uno per non dirlo proprio e uno per dirlo sempre

  1. Condivido pienamente quello che hai scritto: il dialogo dovrebbe essere esplicativo, contenere gli elementi necessari a descrivere l’azione, tanto che i migliori autori di dialoghi riescono a costruire i loro romanzi in maniera quasi completamente visiva (e non a caso sono anche sceneggiatori). Io ritengo che il classico “disse” in un dialogo ben costruito sia praticamente trasparente, e che i sinonimi debbano servire ad indicare l’azione corrispondente, quando è presente. Diversamente, se sono utilizzati per evitare la ripetizione sono autentico piombo sulla pagina, fastidiosi quando non addirittura ridicoli. È chiaro che, salvo l’utilizzo di particolari modelli stilistici, tutto deve essere fatto in maniera ragionata, ma sono convinto che i dialoghi devono essere sempre più puliti e veloci possibile

  2. Dopo un po’ ho capito dove volevi andare a parare, almeno credo. I dialoghi che funzionano sono quelli che arrivano dritti al punto, senza tanti orpelli che di solito nascondono la difficoltà dello scrittore nel renderli tali

  3. Non ho spulciato almeno un libro di Dick, ma ne ho letti una ventina. Il libro di Dick era preso solo come esempio, perché mi ha dato l’idea per quell’articolo.
    Una sfilza di “disse” in un dialogo, specialmente se fatto di frasi brevi, più che annoiare, stona. Dà proprio un senso di ripetitività.
    Io stesso in alcuni racconti non ho proprio scritto alcun “disse” né un sinonimo.
    Ma variare secondo me aiuta, in alcuni casi.

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