di Demetrio Paolin
[una volta alla settimana pubblicherò qui il mio diario di lettura dell’Ulisse di Joyce nella traduzione di Mario Biondi, edito da la nave di Teseo. Gli appunti saranno numerati in ordine progressivo da 1 a n+1]
Settimana dal 24 giugno al 1 luglio, p.277.
4a) Vorrei concentrarmi su di un singolo capitolo, il 6, che va da p.149 a p.189. Nello schema di Joyce questo capitolo ha come titolo Ade, se dovessimo seguire lo schema omerico in modo pedissequo dovremmo registrare una incongruenza. Infatti Odisseo, come molti eroi epici, scende negli inferi: il capitolo 6 è il resoconto di un funerale. Joyce stesso nei capitolo precedenti (il 4 e il 5) si era premurato di farci sapere che Bloom avrebbe dovuto presenziare a una cerimonia. Se quindi dovessimo seguire alla lettera le indicazioni di Joyce ci troveremo davanti a un episodio parodico del viaggio nel regno dei morti che possiede come fondamenta: il cinico materialismo di Bloom, il suo essere come sempre fuori posto, ebreo non troppo ortodosso che presenzia a un funerale cattolico, il morto che non è un eroe, ma un semplice amico di sbronze. Nella realtà se guardiamo con attenzione queste pagine hanno un altro bersaglio di confronto, subiscono – per dirla con un altro Bloom, Harold – una diversa angoscia di influenza.
A me pare che, in queste pagine, Joyce faccia i conti con Amleto e in particolare con atto V scena 1, ovvero la scena dei due becchini e del cimitero. In quelle sequenze abbiamo davanti a noi chiarissima quella mescolanza di stile tragico e comico, di alto e basso, di crasso e sublime, che è la cifra, secondo Auerbach, dell’opera di Shakespeare e che, aggiungo io, è la misura di quel realismo creaturale che sta alla base di tutte le opere prese in analisi in Mimesis. Il capitolo 6 di Joyce vive della medesima mescolanza, che è tipica di tutto l’Ulisse, di una riflessione sapienziale e esistenziale, che si mescola con la battuta più trita. Questa ibridazione è di certo stilistica, ma possiede anche un valore di speculazione filosofica: il cristianesimo, con cui Joyce fa i conti nascostamente per l’intero romanzo, non concepisce la vita come una tragedia, anzi la vita dell’uomo non può essere raccontata tramite le strutture della genere classico, perché il tragico è “soltanto figura o riflesso d’un insieme in cui sfociavano il peccato originale, la nascita e la passione di Cristo e il giudizio universale” (Mimesis, p.69). Come a dire che mentre i personaggi della tragedia greca, così come i personaggi epici, sono bloccati in un’azione immobile e priva di storia; nelle tragedie di Shakespeare essi hanno a che fare con il tempo storico, con il percorso che ogni uomo produce all’interno della propria vita. Sempre Auerbach: “Il teatro di Shakespeare non rappresenta colpi del destino isolati che capitino dall’alto […] – bensì rappresenta intrecci immanenti, risultanti da determinate situazioni e del concreto di molteplici caratteri” (p.75).

È chiaro che parlando del cap. 6 alla luce della scena 1 del V atto, vorrei sostenere che siamo di fronte a qualcosa in più del semplice centone; mi piacerebbe ravvisare la centralità dell’Amleto come funzione narrativa in tutto lo sviluppo del romanzo di Joyce. Proviamo a sondare un po’ il testo del capitolo per vedere se le nostre impressioni sono suffragate dai testi. A p.152 Bloom riflette nuovamente su Rudy, c’è un momento di commozione: “Se il piccolo Rudy fosse vissuto. Vederlo crescere. Sentire la sua voce in casa. Lì a camminare al fianco di Molly in un completo tipo Eton”. È un momento lirico e poetico, notiamo un lato di Bloom che avevamo solo intravisto. Joyce mescola le carte, e ci racconta così il concepimento di Rudy: “Dev’essere stata quella mattina in Raymond terrace che lei era alla finestra a guardare due cani che ci davano accanto al muro del gabbio. E il pulotto guardava ghignando. Indossava una gonna color crema con lo strappo che non ha mai rammendato. Dammi una botta, Poldy. Dio, sto morendo di voglia. Così comincia la vita” (p.152).
La mescolanza di stile, che è uno dei sigilli della grandezza di Shakespeare, è quindi cercata e raggiunta più volte da Joyce. Gli esempi possono essere diversi, ricordo la descrizione dello gnomo Rudy a p.162 o a p166: “Una bara scaraventata sulla strada. Si spalanca. Paddy Dignam sparato fuori, che rotola stecchito nella polvere in un abito marron troppo grande per lui. Faccia rossa: adesso grigia. Bocca che penzola aperta. Chiedendosi adesso cosa succede, Giustissimo chiudergliela. Aperta è orrenda da vedere. E poi le interiora si decompongono in fretta. Molto meglio tappare tutti gli orifizi. Sì, anche. Con cera. Lo sfintere rilasciato. Sigillare tutto”. È facile vedere in queste parole il ricordo delle riflessioni dei becchini, e quel loro modo un po’ stralunato di interpretare uno dei grandi topos della letteratura medioevale e non solo dell’ubi sunt? e del de contempu mundi. Infatti poche pagine dopo leggiamo: “Ogni mortale giorno un’infornata nuova: uomini di mezza età, vecchie, bambini, donne morte di parto, uomini barbuti, professionisti calvi, ragazze tisiche con tettine da passero.” (p.174). L’idea, che germina in queste pagine, è che la nostra fragilità creaturale, il nostro essere umani, passi e si mostri in tutta la sua chiarezza nella contemplazione del corpo morto o morente (c’è un passaggio del Secretum di Petrarca, in cui lo scrittore fa una sorta di immaginazione allucinatoria in cui cerca di vedersi e di sentirsi morto), per esemplificare scelgo un estratto: “Il tuo cuore forse ma cosa non gliene frega al povero diavolo chiuso in quei sei piedi per due con i ditoni rivolti alle margherite? […] Ce n’è un fottio qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite nient’altro. La resurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto” (p.175). Tutta la scena del cimitero avviene all’interno di un “sbarrato, disabitato, incolto giardino” (p.168, che è una citazione da Amleto), un luogo poco salubre, che “sembra zeppo di gas malsano” (p.173). In questo ambiente compaiono ovviamente i becchini (p.174). Nella scena dell’Amleto i becchini svolgono, dal punto di vista narrativo, una funzione di alleggerimento, la grandezza di Shakespeare sta nel dare a quella funzione di cassetta una potenza narrativa magistrale. In Ulisse accade qualcosa di simile quando uno dei necrofori racconta la storia dei due ubriaconi alle persone presenti alla tumulazione dell’amico, sono poche righe dal sapore di aneddotico e di burla, a cui seguono le seguenti battute di dialogo:
“Lo ha fatto con uno scopo” spiegò Martin Cuningham a Hynes.
“Lo so,” disse Hynes.
“Lo so.”
“Per tirarci su,” continnuò Martin Cunningham. “È pure bontà di cuore, assolutamente nient’altro”.(p.177).
Se la funzione narrativa dei becchini è esemplificata dalla storia e dalle successive battute, c’è un’altra prova dell’influenza prodotta dall’atto V scena 1 dell’Amleto su questo capitolo: il tema del suicidio. I due becchini nell’Amleto parlano del suicidio di Ophelia, e riflettono su quanto sia lecito o meno seppellire in terra consacrata una persona che si è tolta la vita. Ora a p.162 e 163 dell’Ulisse il signor Power dice: “Ma peggio di tutto è colui che si toglie la vita” e rincara la dose: “La peggior disgrazia che possa capitare a una famiglia”. Dopo queste parole, tra le persone scende il gelo, tutti sanno che il padre di Bloom si è suicidato, e sta a Cunningham portare un po’ di ragionevolezza, deviando la conversazione su lidi più sicuri. Subito dopo Bloom dice: “I grandi occhi di Martin Cunningham. Che adesso guardava da un’altra parte. Di faccia assomiglia a Shakespeare. Sempre pronto a mettere una buona parola. Questa cosa non la perdonano, come l’infanticidio. Rifiutano l’esequie cristiane.[…] Trovato sul letto del fiume aggrappato a giunchi” (p.163). La citazione dell’Amleto è duplice, senza contare l’esplicito riferimento a Shakespeare: c’è la sovrapposizione del padre con Ophelia (la ragazza che si lascia affogare e l’uomo che muore nel letto), e il tema del suicidio come atto imperdonabile e che suscita riprovazione eterna. Le presenze testuali sono così ovvie e chiare che quindi non stupisce quando a p.180, Bloom nomini finalmente “I becchini dell’Amleto”.
Perché quindi parlo di funzione Amleto per l’Ulisse? Perché oltre a questo capitolo dominato dal confronto con l’Amleto, Joyce continua a rimandare e ad alludere al quel testo tragico; già nella figura di Stephen c’era l’ombra di Amleto, lì vista come sfida intellettuale, il saggio sull’interpretazione dell’Amleto, ma c’è di più a un certo punto leggiamo questo monologo di Stephen: “Così nei turni di guardia della luna io pattuglio la stradina sopra le rocce, in nero argentato, prestando orecchi alla tentatrice marea di Elsinore” (p.88). Citazione chiara ed esplicita dell’Amleto e che mette Stephen in collegamento con il personaggio del dramma, anche lui alla ricerca di un padre, orfano, esule e al limite della follia. Il tema dell’Amleto è il tema del figlio che scopre la propria identità, tramite la scoperta dell’essere orfano; in un certo senso questo accomuna Amleto all’Odissea, o forse accomuna Ulisse, Amleto e Odissea a una struttura narrativa più antica, qualcosa di remoto, una funzione del racconto che si perde all’inizio dei tempi ovvero l’orfanità: si scrive nel momento in cui si percepisce una perdita, nel momento in cui si realizza il bisogno di definire il vuoto che ci circonda; paradossalmente anche l’incipit della Bibbia nasce da una elezione di orfanità; Jahvè è solo e crea il mondo, ciò che lo circonda è il nulla, in più niente è più orfano delle cose del “nulla”, in quanto negazione delle cose stesse.
Più volte, comunque abbiamo visto, come in Stephen ritorni il tema di Amleto e del figlio che ha perduto i genitori (realmente: la madre; simbolicamente: il padre). Anche Bloom è orfano, orfano del proprio figlio, poiché non esiste una parola che descriva la situazione di un genitore a cui muore il figlio – l’assenza di una parola specifica indica in un certo senso un vuoto grammaticale, sintattico, concettuale per dire qualcosa che è fuori da ogni immaginazione -; potremmo dire che Bloom è come il fantasma del re, che morto o passato a un altro modo, si scopre privato del proprio figlio. Oppure possiamo costruire una immaginazione, che forse ha fatto pure Joyce: a Shakespeare muore il figlio Hamnet, nel 1596, e le sue grandi tragedie sono tutte successive a quella data; è possibile che sia avvenuto qualcosa, che quella morte abbia prodotto nello scrittore inglese una incrinatura, una rottura dello svolgersi del tempo, un cambiamento nelle regole dell’universo, un cosmo nuovo e alla rovescia dove il brutto è bello e il bello brutto? Shakespeare è così enigmatico, così lontano da ognuno di noi, così siderale – non sappiamo nulla di cosa pensi, o senta; noi sappiamo cosa sentono e pensano i suoi personaggi, ma di lui ignoriamo ogni singolo sentimento – che potrebbe essere un’ipotesi percorribile (credo che una certa parte di critica ci abbia pure ragionato). Joyce è un grande narratore e come tale potrebbe essere stato incuriosito da quella zona d’ombra, che aveva come unico appiglio il nome del figlio morto così assonante a quello del protagonista della tragedia, da immaginare uno Shakespeare straziato dal dolore, che osserva i becchini seppellire tra motti salaci e battute di spirito la piccola bara. Ecco a noi non interessa sapere se tutto ciò sia vero o no, a noi interessa che quella tonalità di autunno marcescente, di tempo fuori di sesto, sia esperienza comune a Leopold Bloom, orfano di Rudy, e Amleto principe di Danimarca.
4b) Abbiamo già in parte ragionato sullo strano nonché interessante errore di valutazione di Svevo che leggeva l’Ulisse con gli strumenti del romanzo naturalista. Ora non è sempre detto, soprattutto nell’ambito della critica letteraria e nell’approccio dei testi, che scegliere una via sbagliata sia poco propizio, anzi potrebbe alla lunga produrre qualcosa d’interessante. Se guardiamo i grandi maestri del romanzo ottocentesco spesso troviamo che loro stessi accostino la propria arte alla immagine di uno specchio. La scrittura come stenografia del reale, come tentativo di chiudere in un modo finito un mondo infinito, trova il suo correlativo più stringente nello specchio che riflette. Il realismo, nelle sue diverse e complicate ramificazioni, si pone come uno specchio che pretende di riflettere (in questo ci sta anche tutta la passività dell’opera d’arte rispetto alla realtà) la vita e l’esistenza. Si potrebbe continuare in questa metafora ragionando sui diversi gradi di nitore della superficie riflettente; cioè sulla qualità della rappresentazione di Balzac, di Flaubert o di Zola, come lo specchio in parte deformate di Balzac, sovrabbondanza d’aggettivazione, un uso eccessivo dell’amplificatio, si vadano via via chiarificando e rendendo nitidi i contorni di ciò vengono rappresentati. Uno specchio, insomma, che con il passare degli anni e dei romanzi diventa sempre più “fedele” rispetto a ciò che gli si para davanti – ci sarebbe da discutere se sia possibile definire “fedele” un’immagine riflessa e quindi sostanzialmente irreale di una cosa. Insomma varrebbe per tutti questi autori ciò che George Eliot scrive per spiegare la sua intenzione narrativa: “ritrarre fedelmente persone e cose, come sono riflesse nella mia mente”. E poi aggiunge: “lo specchio è certamente difettoso; qualche volta i lineamenti appariranno offuscati, le immagini deboli e confuse; ma mi sento in dovere di narrarvi il più fedelmente possibile tutto quanto vi è stato impresso, come fossi in tribunale, sul banco dei testimoni, e dovessi riferire sotto giuramento tutta la storia alla quale ho assistito”. Venendo a Joyce possiamo capire iniziale errore di Svevo, quando legge l’opera dello scrittore irlandese sotto una lente naturalistica e ottocentesca. Non è Joyce che ha scritto Il ritratto dell’artista da giovane (A Portrait of the Artist as a Young Man)? Non è forse vero che proprio nelle prime pagine dell’Ulisse ci troviamo davanti Stephen Dedalus (protagonista del Ritratto) e che Joyce costruisce una abile trama di riferimenti per far sì che sia proprio lo specchio (vd Appunto 2b)? La metafora dello specchio come luogo dell’identità sia autoriale che narrativa (come la citazione di Goerge Eliot ci ricorda) è quindi pienamente dispiegata da Joyce, eppure succede qualcosa nell’Ulisse che prima non era mai accaduta: lo specchio s’incrina. In questo specchio franto si può vedere come e in che modo la realtà si disponga in Joyce, come si differenzi la percezione della natura ad esempio tra il libro di racconti Gente di Dublino e l’Ulisse e su come dal punto di vista della percezione del reale l’Ulisse sia un superamento netto e nuovo delle famose epifanie joyciane (è un tema che affronteremo, in uno dei prossimi appunti, quando avrò ancora altro materiale). A questo punto della lettura fermiamoci alla semplice struttura del romanzo e analizziamo il capitolo 7. A prima vista abbiamo una serie di frammenti con tanto di titoli: senza averli letti potremmo ipotizzare che siano come cartoline più o meno brevi dalla Dublino di inizio Novecento, potremmo pensare che queste prose come dei flash, dei lampi o, per usare un termine di moda in quegli anni nelle nostre patrie lettere, dei frantumi (Boine) o dei trucioli (Sbararo); insomma vedere in Joyce una deframmentazione della realtà, un suo scomponimento simile a ciò che accadeva con il cubismo in arte figurativa. Ci si potrebbe spingere ancora più in là con questa semplice rappresentazione visiva del capitolo 7 e dire che Joyce è antesignano di narrazioni completamente parcellizzate del nostro tempo (come può essere il Tempo è un bastardo della Egan). Attenzione, però, non ho detto che il vetro di Joyce è andato in frantumi, ho detto che si è incrinato, ovvero che la sottile lastra è fessa da linee, sbucciature e piccoli difetti che rendono l’immagine come fratturata ma in sé unitaria. Infatti leggendo il capitolo, vediamo come gli episodi rimarcati dai vari capitoletti siano in realtà collegati gli uni agli altri, con una struttura che ricorda più le vidas dei trovatori, che non gli esperimenti di frantumazione lirica del primo novecento. Quello che vuole raccontare Joyce è appunto questa molteplicità focale, è come se il suo specchio franto avesse più punti di vista, più luoghi, attraverso i quali la “cosa reale” può essere vista. E non mi pare causale che questo sia il primo capitolo dove Dublino entra in scena in tutta la sua interezza; una interezza che non può essere simile alla rappresentazione della città nel romanzo dell’800 (in particolare Parigi e Londra che mirabilmente si tengono la mano nel romanzo di Dickens), ma che deve dare il conto dei cambiamenti che sono avvenuti. Mi sembra interessante anche vedere quale è il milieu culturale, l’ambiente che racconta questo capitolo ovvero il mondo dei giornali e delle gazzette. Anche in questo caso c’è una origine o una memoria balzachiana in Joyce, penso a Illusioni perdute e penso a quella Parigi vista dal giovane protagonista. Non è un caso che nel capitolo 7 troviamo per la prima volta riuniti i due filoni narrativi di Bloom e Dedalus, che ancora non si incrociano; Joyce rappresenta in loro anche il profondo cambiamento del mondo dei giornali. Se nell’ottocentesca Parigi di Balzac i giornali erano il trampolino di lancio per giovani scrittori o artisti pronti a conquistare il mondo e metterselo sotto i piedi, nell’Ulisse abbiamo una notevole mitigazione; vediamo Bloom che ragiona e litiga con direttori, compositori di pagine etc etc per strappare un quartino o mezza pagina di pubblicità, che spiega bozzetti di reclame, che tratta gli spazi a livello economico. Bloom è insomma il prototipo del pubblicitario, di quello che ancora adesso, se qualcuno di voi ha esperienza dei piccoli giornali di provincia, fa le telefonate e gira i negozi per cercare acquirenti per redazionali, per costruire pagine di pubblicità come se fossero articoli che vengono comprate dagli inserzionisti: Bloom è il prototipo di quell’uomo lì, di quella mediocrità, del fatto che i giornali campano per le inserzioni e non di notizie. La comparsa di Dedalus è invece interessante, perché abbiamo visto che in Stephen Joyce lasci ancora traccia del vecchio personaggio ottocentesco, dell’intellettuale deluso dal suo tempo; è come se fosse una scoria di naturalismo in un romanzo moderno, come se fosse il legame tra ciò che è stata la narrativa e ciò che potrà essere. Infatti quando compare Dedalus il termini del discorso passano da economici a letterari. Dedalus a p.230 inizia a raccontare a voce alta una breve novella che vorrebbe pubblicare sul giornale. Il paragrafo dal titolo CARA SUDICA DUBLINO inizia con queste parole “Gente di Dublino” e chiaro il riferimento a libro precedente di Joyce e non solo nelle pagine successive fino a 234 Stephen racconta a voce agli altri colleghi del giornale una storia, che avrebbe potuto benissimo essere un altro racconto di quella raccolta; un racconto però – ecco la modernità che spinge per entrare – che viene interrotto e inframmezzato da alcune apparizioni di Bloom che cerca in tutti i modi di chiudere un contratto pubblicitario. Ecco perché non è casuale che il capitolo 7 porti all’attenzione del lettore le linee dei tram di Dublino, “In vari punti delle otto linee c’erano vetture tranviarie freme sui binari con trolley immobili, dirette a o provenienti da Rathmines, Rathfarnham, Kingstown, Blackrock….[…] tutte ferme, bloccate in un cortocircuito. Fiacre, carrozze, carri per consegne, furgoni postali, brum privati, carri scoperti di acqua minerale gasata pieni di sbatacchianti cestelli di bottiglie sferragliavano, rotolavano, trainati da cavalli, rapidamente.” (p.236), come a dire che quell’unitaria e moderna frenesia della città – che potremmo vedere riassunta nell’avverbio “rapidamente” – è segno conseguente di un nuovo modo di guardare la realtà sempre da uno specchio, ma scomposto come se fosse un ritratto cubista.
4c) Faccio una piccola ricognizione rispetto alle traduzioni, prendendo un paragrafo dal capitolo 8. Come sempre la versione originale e poi le tre a confronto.
Joyce: Sss. Dth, dth, dth! Three days imagine groaning on a bed with a vinegared handkerchief round her forehead, her belly swollen out! Phew! Dreadful simply! Child’s head too big: forceps. Doubled up inside her trying to butt its way out blindly, groping for the way out. Kill me that would. Lucky Molly got over hers lightly. They ought to invent something to stop that. Life with hard labour.
Biondi (p.254): Sss. Tz, tz, tz! Tre giorni pensa tu a gemere a letto con un fazzoletto impregnato di aceto attorno alla fronte, il pancione che quasi scoppia. Fiuuuu! Terribile, e basta! Testa del bambino troppo grossa: forcipe. Piegato in lui dentro di lei, cerca di aprirsi alla cieca via d’uscita a testaste, annaspando. Me mi ucciderebbe. Per fortuna Molly se l’è cavata entrambe le volte. Dovrebbero inventare qualcosa per piantarla con roba del genere. Una vita da travaglio forzato.
Celati (p.221): Sss. Tss. Tss. Immagina tre giorni a gemere a letto con sulla fronte un fazzoletto imbevuto d’aceto e la pancia gonfia al massimo. Pfff! Tremendo! La testa del pupo troppo grossa: forcipe. Piegato in due dentro di lei là tentando di farsi strada alla cieca, per poi trovare a tastoni l’uscita. Una cosa così mi stroncherebbe. Fortuna che Molly se l’è cavata facilmente. Dovrebbero inventare qualcosa per finirla, questa vita di lavori forzati.
Terrinoni (p.178): Sss. Dth, dth, dth! Tre giorni immagina a lamentarti su un letto con un fazzoletto imbevuto d’aceto sulla fronte, la pancia tutta gonfia! Fiu! Semplicemente terribile. La testa del bimbo è troppo grande: forcipe. Piegato in due dentro di lei a farsi strada alla cieca, palpando per trovare l’uscita. Mi ucciderebbe una cosa del genere. Fortunata Molly le sue sono state leggere. Dovrebbero inventare qualcosa per fermarle. Vita da travagli forzati.
Partiamo dall’onomatopea iniziale. In Joyce abbiamo, dopo l’iniziale suono che pare stabilire una sorta di silenzio, le tre lettere che compongono il trigramma “dth”, Celati e Biondi traducono con un “ts” e un “tz”, sostanzialmente simili, Terrinoni lascia il suono intatto; questa onomatopea è complessa da tradurre, proprio per il suo attingere a una sorta di linguaggio pregrammaticale; è anche vero che quando Bloom, perché è lui a parlare, parla di bambini sembra quasi sempre alludere alla vicenda mortale di Rudy. In queste righe abbiamo davanti a noi una descrizione della fatica di venire al mondo, e non credo che sia casuale l’introduzione di questa strana onomatopea. Questo trigramma ricorda a me la parola inglese death, di cui Joyce utilizza le tre consonanti. Quel “dth” ripetuto tre volte sembra essere un sorta di singulto in cui qualcuno dice “death/morte”, la ripetizione di tre si collega con i “tre giorni” della frase successiva, giorni di travaglio e passione (c’è qualcosa di cristologico in questo).
Proprio per questo motivo per la vicinanza del numero tre con le tre onomatopee, credo che le scelte di Terrinoni e Biondi siano più azzeccate, lasciando la costruzione della frase simile a quella originale, cosa che invece Celati non fa. Non comprendo anche la scelta di “pupo” invece di “bambino” per tradurre “child” di Celati. Da un lato mi pare che con questa parola voglia dare un taglio più “basso” alla frase, ma in questo caso non capisco perché allora traduca la frase “Kill me that would con “Una cosa così mi stroncherebbe””, perché l’originale suona scorretto o anomalo, mentre nella traduzione di Celati è corretta e perde quella sfumatura di parlato che secondo me è resa bene solo da Biondi, mentre Terrinoni mi pare scelta una via mediana, che si conferma anche nella resa della chiusa del periodo. La scelta del parlato di Biondi secondo me rende bene la chiusa finale della frase, che invece Celati rendendola più armoniosa depriva di molta della sua icasticità.
*
Nelle puntate precedenti
*