di giuliomozzi
direttore della Bottega di narrazione
Nella Teoria degli apocrifi di Sabino Ordás, l’immaginario maestro di Léon [Castiglia] che Luis Mateo Díez, Juan Pedro Aparicio e José María Merino hanno inventato alla fine degli anni Settanta, è esposto un approccio molto utile alla creazione di imposture. Rispetto ad altre manifestazioni letterarie che si conformano alla propria coerenza come universo immaginario e paradiso di fantasia, l’apocrifo e l’eteronimo rappresentano una pratica trasgressiva che sovverte le norme dell’arte e le regole del patto o dello spazio autobiografico: sono la fabulazione – e la vita – spiega Ordás, che sta cercando di passare per realtà e quindi ricevere l’autonomia che appartiene a loro. La finzione si maschera per non rivelare la propria identità, nascondendosi, e la simulazione opera in primo luogo, eseguendo la copia più esatta e possibile rispetto all’originale.
Così María Rosell, dell’Università di Valenza, nel saggio Aproximaciones al apócrifo en la órbita de Max Aub: del modelo francés a las últimas manifestaciones peninsulares (apparso in Revista de Literatura, 2009, v. 71, n. 142, pp. 525-564), definisce con precisione, e con l’autorevole appoggio di Sabino Ordás, quel tipo particolare di finzione che è l’impostura. Non, a dire il vero, che l’impostura goda di grande favore. Basti consultare il Dizionario etimologico del compianto Ottorino Pianigiani:
Jusep Torres Campalans, di Max Aub (scrittore di lingua spagnola, nato nel 1903 in Francia da padre tedesco e madre francese, abitò dal 1914 al 1938 in Spagna, poi brevemente in Francia – dove conobbe la prigione in quanto comunista -, poi via Casablanca nel 1942 rifugiò in Messico, dove visse fino alla morte nel 1972, salvo sporadici ritorni in Europa) è un libro nato dal caso e dalla nostalgia. Nel 1955, in Messico, Aub, mentre per un ciclo di conferenze si trovava in una cittadina del Chiapas, fu presentato a un anziano signore: José Torres Campalans, detto Jusep, catalano, ex pittore.
Torres Campalans era vissuto a Parigi in quegli anni di prima della Grande Guerra in cui a Parigi c’erano tutti, e tutti gli artisti andavano ad abbeverarsi a Parigi: Apollinaire e Diagilev, Hemingway e i fratelli De Chirico (Giorgio e Andrea, quest’ultimo noto col nome di Alberto Savinio), Pablo Picasso e Georges Braque, Igor Stravinskij e Ezra Pound; e tutti, credo, vivevano a spese di Gertrude Stein e di Alice B. Toklas – o almeno ogni occasione era buona per andare a cena da loro (e infatti Marcel Proust, che nel 1909 aveva cominciato a pubblicare la Recherche, non frequentava quel club; mentre André Gide studiava ormai da classico).
Chiacchierando con Torres Campalans, Aub fu preso dalla nostalgia. Lui, nato nel 1903, sia pure in famiglia assai colta, di quell’epoca mirabile aveva colto solo frammenti, scarse immagini; e gli era sempre rimasto il rimpianto di non essere nato una decina, una decina solo d’anni prima, quanto bastasse per vivere in quel fermento. Certo: i protagonisti di quegli anni li aveva conosciuti, ma da adulto, e loro adulti (per dire: egli fu tra coloro che spinsero Picasso a creare, per il padiglione spagnolo dell’Esposizione internazionale di parigi del 1937, Guernica); ma era tutt’altra cosa. La giovinezza passa, ahimè, e non torna più.
Tuttavia, in quelle sere di tranquille conversazioni messicane nacque nella mente di Aub un progetto: tentar di raccontare quel periodo proprio attraverso la figura di Torres Campalans, un artista minore, e si può dire anche fallito (fuggì prima della guerra in Messico, non dipinse più), dimenticato da tutti o dai più, e che pure aveva, come tutti, frequentato tutti. Il progetto, in breve tempo, divenne innanzitutto un’esposizione, a Città del Messico, dell’opera superstite quasi completa di Torres Campalans:
Meglio – scrive in una nota il traduttore italiano dell’opera, Giuseppe Cintioli, Mondadori 1963, p. 361 – tutto quel che gli [ad Aub] era riuscito di rintracciare, quel che si era salvato dalla distruzione e dalla distrazione del mondo, culturale e no. Dopo tutto, a parte quelle minori, c’erano state due guerre mondiali.
I quadri, morto durante un bombardamento il tal H.R. Town che li possedeva, erano finiti in mano, “in circostanze alquanto oscure, a un fuzionario franchista: un catalano residente a Londra, più amante della tranquillità che dell’arte”. Questi, venuto a conoscenza delle ricerche di Aub, glieli aveva fatti avere: “probabilmente per farsi perdonare qualche vecchio trascorso”.
I virgolettati nella citazione qui sopra vengono dal catalogo delle opere di Torres Campalans, incluso nell’edizione originale (qui sotto) del libro di Aub, ma escluso in quella italiana – sostituito da una magrissima selezione di riproduzioni in un sedicesimo in fondo al volume.
D’altra parte, Torres Campalans era davvero un pittore minore; le poche riproduzioni che ho trovate mostrano un artista che, sostanzialmente, non fa che imitare – magari benino – il lavoro di artisti ben più grandi.
Il “caso Torres Campalans” suscitò immediato interesse, tanto che due anni dopo non solo la biografia-catalogo di Aub fu pubblicata in Francia (e da Gallimard, in una collana che reca anche il prestigioso monogramma della Nouvelle Revue Française: la rivista letteraria che vanta più imitazioni della Settimana Enigmistica), ma la mostra fu replicata – arricchita di alcune altre opere nel frattempo ritrovate grazie al clamore seguito al libro Aub – proprio in quella Parigi dove tutto aveva avuto inizio.
Ora: l’opera di Aub, di per sé, non presenta una forma particolarmente interessante. Inizia con un breve Prologo indispensabile, nel quale Aub racconta l’incontro con Torres Campalans in Chiapas (ma non riferisce ancora le conversazioni). Continua con una paginetta di Ringraziamenti, dai quali si deduce che per avere notizie su Torres Campalans Max Aub deve avere scomodato mezzo mondo (da Jean Cassou a Georges Braque, da Daniel Henry Kahnweiler a André Malraux, e si conclude con un’annotazione curiosa e triste:
Ma, adesso mi viene in mente, con un po’ di malinconia, una lontana colazione. Era il 1937, io ero seduto tra Bonnard e Vuillard, con Maillol di fronte. Stavamo aspettando inutilmente Picasso. Fu lì che per la prima volta – me lo ricordo solo adesso – udii fare il nome di Torres Campalans.
“Che cosa ne è stato?”.
“Sparito senza lasciare traccia. Aveva del talento”.
Curiosamente sostanziosa (ma bisogna pensare al pubblico non europeo, messicano, al quale l’opera era inizialmente dedicata) è la sezione denominata Annali, una cronologia degli avvenimenti artistici, letterari e musicali tra il 1886 e il 1914, arricchita da una quantità di note di approfndimento. Segue la biografia vera e propria (pp.107-217 dell’edizione italiana citata); una brevissima (due paginette) raccolta di testi di Torres Campalans apparsi in riviste dell’epoca (più che altro risposte telegrafiche a interviste, in articoli-miscellanea); la trascrizione di un quaderno – il Quaderno verde – contenente annotazioni varie di Torres Campalans tra il 1906 e il 1914 (non tutte sono annotazioni originali; spesso il pittore trascrive pensieri da libri e riviste), donato a Max Aub da Jean Cassou (pp. 221-305); e finalmente il resoconto delle conversazioni tra Aub e l’ormai anziano Torres Campanals (pp. 307-358). Nell’edizione originale, come si è detto, seguiva il catalogo delle opere, con abbondanti riproduzioni; l’edizione mondadoriana riportava solo una smilza scelta, così come quella del 1992 presso Sellerio (medesima traduzione); non so come sarà l’annunciata edizione presso Skira. Discreta, ma purtroppo illustrata solo in bianco e nero, la recente edizione presso Theoria.
Il fatto, però, è che tanta verità storica è a supporto di una finzione: Jusep Torres Campalans altri non è che un ente di finzione, un personaggio inesistente creato da Aub,
scrive Donatella Siviero nel saggio Sconfinamenti tra generi nella narrativa spagnola tra Otto e Novecento: alcuni esempi (apparso nella rivista Enthymema, iv, 2011; cito dalle pp. 100-201); e continua:
è il romanzo tutto ad essere esattamente una straordinaria «trappola», un testo nel quale i confini tra genere finzionale, genere biografico e autobiografico si confondono al punto da essere annullati, un’invenzione basata sulla perfetta costruzione di una falsa definzionalizzazione disseminata di sottili e giocose ambiguità, a cominciare dalle frasi in esergo. Ad apertura di libro, infatti, dopo una citazione di Gracián, c’è la frase, «¿Cómo puede haber verdad sin mentira?» [«Come può esserci verità senza bugia?»], attribuita a un certo Santiago de Alvarado che, come ha suggerito Dario Puccini, dovrebbe essere già un importante segnale per il lettore circa la natura finzionale del testo. Segnale che viene rafforzato, credo, da un’affermazione collocata quasi a chiusura del Prólogo indispensable. Il prefatore dice infatti: «Que los deseosos de prólogo – que los hay, queriendo descubrir en él lo que un libro nunca oculta del todo, si dice algo – se remitan al mejor: al del Quijote». Questo rimando al testo cervantino, secondo Aub il migliore dei prologhi possibili, a mio avviso è il più chiaro segnale che aggancia il Jusep Torres Campalans all‟ambito della finzione romanzesca. Tuttavia, l’abile mistificazione di Aub fu tale che il pubblico a lungo credette nella reale esistenza del suo ente di finzione e a lungo rifiutò di credere a quello che, a ben guardare, il Prólogo indispensable gli aveva già maliziosamente svelato.
Aggiungerei un’altra spia: negli Annali, all’altezza del 1903, p. 59 dell’edizione mondadoriana in mio possesso, nella rubrica “Nascono” (sottinteso: in quell’anno) viene segnalato, tra Erskine Caldwell e Aram Kachaturian, Max Aub.
Quale vero biografo oserebbe inserirsi a tal modo nella Storia?
Q. E. D.