di Giulio Mozzi
Il bel pamphlet di Alfio Squillaci Chiudiamo le scuole di scrittura creativa!, Gog Edizioni, 118 pagine, pubblicato nel giugno scorso, non è un pamphlet contro le scuole di scrittura creativa. Non può esserlo, perché è abbastanza evidente che della realtà delle scuole di scrittura creativa (italiane e no) l’autore non sa niente. Se non erro ne cita una sola (la Scuola Holden, com’è ovvio), cita un solo esempio di corso (condotto da Roberto Saviano, non esattamente uno che abbia scelto l’insegnamento come professione), del quale sembra conoscere solo ciò che lo stesso Saviano ne ha scritto in Facebook. Nelle quattro pagine di bibliografia trovano posto Roland Barthes e Gérard Genette, Pier Paolo Pasolini e Hippolyte Taine, ma nessuno di quei manuali che nel pamphlet sono genericamente stigmatizzati e mai citati. E questi, sia chiaro, sono tutti pregi del pamphlet, che in questo modo, cioè facendo tutto fuorché parlare male delle scuole di scrittura creativa, riesce a scansare quasi tutti i luoghi comuni che da due decenni e mezzo in qua leggo attorno alle scuole di scrittura. Gliene scappa giusto uno nel sottotitolo (Perché la letteratura non è una catena di montaggio: ma sospetto una complicità, o addirittura una piena responsabilità, dell’editore).
In alcuni punti, non pochi, Squillaci riesce a dire alcune cose importanti molto bene. Per esempio (p. 37):
Nella narrazione creativa, ogni precettistica arretra rispetto all’urgenza e alla necessità della creazione che nel momento in cui crea, crea anche le proprie forme espressive. E’ la creazione poetica, nella narrazione, che fa le regole, e non le riceve, poiché non c’è un solo miglior modo di scrivere.
Non si può che essere d’accordo. Come non si può non essere d’accordo sulla considerazione che immediatamente segue:
Altra obiezione [da parte dei difensori delle scuole di scrittura creativa] è quella di affermare, schermendosi, che nelle scuole creative si insegnano dopotutto soltanto delle tecniche. Chi lo afferma preferisce restare sul vago e non chiarisce mai abbastanza se si tratta di tecniche diciamo così teoriche o applicate. Nel primo caso hanno un valore meramente descrittivo, nel secondo configurandosi esse con un carattere normativo o peggio precettivo, occorre vedere come avviene il processo, come vengono applicate.
A partire da questo approccio, è interessante l’uso che Squillaci fa del concetto di improvvisazione:
Abbiamo in mente una espressione personale, il nostro stile, che in letteratura è una maniera unica e assoluta di vedere le cose, e abbiamo un soggetto in testa, un pezzo di vita alle spalle, una lingua a disposizione, molte letture condotte: siamo potenzialmente scrittori, forse letterati, non sappiamo se siamo dei buoni narratori. Proviamo a scrivere tuttavia. Improvvisiamo. Scrivere improvvisando è come parlare. (p. 77).
In realtà non si improvvisa dal nulla, si improvvisa sempre partendo da qualcosa: per intanto, la tradizione letteraria, che è la nostra metafisica influente. Ma non è solo scrivere à la manière de: si improvvisa su uno strato di letture che abbiamo obliato nella loro interezza, ma che sono rimaste come fosfeni nei nostri occhi e cervello. Sono dei residui, delle tracce mnestiche, un qualcosa di informe ma che al momento in cui ci poniamo a scrivere funzioneranno da guida al nostro improvvisare. (p. 79).
E del tutto condivisibili sono le parole che Squillaci spende sulla non-solitudine dell’artista:
Un creativo – è una cosa questa non molto osservata nellla storia dell’arte -, è raramente isolato. […] Anche l’artista di genio agisce all’interno di una costellazione di suoi pari, spesso sodali o antagonisti, che attorno a lui rendon un’atmosfera ideale propizia per la produzione propria e altrui. […] Ci sono epoche e ambienti propizi in cui il genio pare essere collettivo. (pp. 69-72).
La domanda è: una scuola di scrittura può essere un ambiente nel quale si apprendono tecniche in modo descrittivo e non prescrittivo, e nel quale si impara a rielaborare autonomamente la propria tradizione letteraria – dunque a improvvisare?
Io potrei rispondere per la Bottega di narrazione, che indegnamente dirigo, e dire che, in effetti, il nostro ideale è esattamente questo. Che poi ci riusciamo, è un altro paio di maniche.
Certo che, col passare del tempo, e anche con l’ingrandirsi dell’attività, le sirene della didattica tendono a suonare sempre più insistenti e più forti. Il lavoro centrale che si fa in Bottega, la discussione dei testi, è faticosissimo (tocca leggere e rileggere centinaia, migliaia di pagine). Ma certe illuminazioni, certe – oso dire, non so se Squillaci accetterebbe l’idea – certe improvvisazioni a due, è solo nella discussione che riescono a prodursi. E’ molto più facile, molto meno faticoso, fornire delle buone lezioni. Magari, ora che – temporaneamente, si spera – si lavora tutti a distanza, registrate. Mantenere il giusto equilibrio, ricordarci che non siamo dei didatti ma piuttosto dei pedagoghi, se non addirittura delle levatrici: questo è il punto.
Gentile Giulio Mozzi, ho sempre avuto delle perplessità relativamente alle scuole di scrittura perché nel mio ambito delle cosiddette Arti Figurative ( ho insegnato all’Accademia di belle arti per pochi anni) non si sa esattamente cosa sia opportuno insegnare, ho sempre pensato però che la scrittura e la musica a differenza delle Arti figurative avessero saputo abbandonare gli eccessi delle sperimentazioni post avanguardia storica perché più legate a programmi e competenze ineludibili: ” c’è ancora in queste discipline… un mestiere, una maestria… pazientemente appresa, una tecnica singolare insegnata e trasmessa… nelle arti plastiche non c’è più mestiere… Ma che cosa si può -insegnare- oggi in una scuola di Belle Arti, che non ha più nulla da trasmettere se non i lacci del maercato?” (Jean Clair 2010) resta comunque difficile oltre ad una tecnica insegnare anche la scrittura, per fare poesia non basta la tecnica che anzi deve essere cotraddetta e negata
e come per ogni buon manierista si deve presupporre la conoscenza di uno stile a cui si crede di aderire per inconsciamente cercare di evitarlo.
Ecco, penso che in fondo siamo tutti d’accordo le scuole non vanno chiuse, ma non sono sufficenti
Rosario Morra
Che importa se si vendono sempre meno libri e se la maggior parte di essi finisce al macero? La parola magica è RICONVERSIONE. Basta cambiare articolo e vendere, al posto dei libri, corsi di scrittura. Ci sono molti più aspiranti scrittori che praticanti lettori. Oltretutto non servono titoli per riciclarsi come docenti di scrittura. Può farlo chiunque, anche mia nonna in carriola:-/
Rosario, non ho mai pensato che le scuole siano sufficienti. E non ho nessun interesse per trasmettere “i lacci del mercato”.
Caro Mozzi, conosco il suo lavoro da molto tempo e so che non pensa di trasmettere “i lacci del mercato” il mio era solo lo sfogo di chi lavorando con scrupolo da più di quarant’anni in un ambito artistico si trova ad essere continuamente mortificato. Se mi sono spiegato male mi dispiace e me ne scuso. Grazie
Rosario Morra
Caro Rosario, si era e si è spiegato benissimo; mentre io sono stato forse un po’ troppo lapidario. Grazie.