di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione
1. Per decidere di pubblicare un’opera letteraria, o un libro in generale, un editore ha bisogno della sensazione di avere davanti qualcosa di compiuto, finito e dotato di senso. Nel caso dell’editoria cosiddetta “letteraria”, il romanzo o la raccolta di racconti o il lavoro poetico devono dare una sensazione di “coesione” e di “pienezza”: la sensazione di essere un’ “opera”. Nella narrativa basata sull’intreccio, l’intreccio deve funzionare senza vuoti o attriti. Nella manualistica alla completezza delle informazioni devono aggiungersi la facilità di reperimento delle stesse, la chiarezza dell’esposizione, la definizione precisa delle competenze che si presumono già presenti nel lettore, eccetera. Nella saggistica, la presenza di una “tesi” o di una “costellazione di tesi” deve accompagnarsi a un’adeguata e ben mirata argomentazione. E così via.
2. Per decidere di pubblicare un libro, un editore ha bisogno di poter immaginare chi lo leggerà. Si tratta di un’immaginazione doppia, qualitativa e quantitativa. Qual è il lettore ideale di questo libro? Quali sono le categorie di lettori (i “target”) che potrebbero essere interessati a questo libro? Quanti sono, complessivamente, i lettori interessati o interessabili a questo libro? Qual è il lettore che il libro presuppone? E, simmetricamente: quali sono i lettori ai quali questo libro non può interessare, o addirittura può fare schifo? Eccetera. Individuato il pubblico (potenziale), si studierà poi il modo di raggiungerlo e di convincerlo. C’è chi, per dire, legge soltanto i libri che percepisce come “per tutti”, e c’è chi invece questi libri li ignora e punta direttamente ai libri “per pochi”. Una stessa opera letteraria potrebbe essere oggetto di campagne promozionali diverse o addirittura contraddittorie. A un “settimanale femminile” si dirà che Orgoglio e pregiudizio è un romanzo scritto da una donna per le donne (e questa sarebbe una bugia, benché parziale), a un quotidiano economico-finanziario si ricorderà che Jane Austen è stata la prima scrittrice a mettere in primo piano i fatti economici (altro che amore! in questo romanzo si parla solo di soldi!), al gestore di un sito dedicato a Stephen King si ricorderà che ci sono importantissimi elementi horror in tutti i romanzi di Austen, non solo nell’Abbazia di Northanger, e così via.
3. Per decidere di pubblicare un libro, un editore ha bisogno di sapere se l’autore o autrice ha o non ha già un suo pubblico. L’affermazione può sembrare bizzarra: non è il compito dell’editore, appunto (vedi punto 2) andare a caccia di un pubblico, eventualmente di crearlo? (Come fece Apple con lo smartphone: nessuno sapeva di averne un bisogno vitale, prima che Apple lo mettesse sul mercato). Ma oggi le cose vanno un po’ diversamente da un tempo, esistono i social media e tutte quelle trappole lì, e soprattutto: gli editori maggiori non hanno più un’immagine netta e distinta, nella loro ansia di occupare tutti gli anfratti del mercato sono diventati dei puri contenitori, e poi pubblicano troppi libri per poter davvero costruire un lavoro promozionale apposito per ciascun titolo. Quindi: sei tu TikTok, su Instagram, su Youtube, su Facebook, su Instagram, o altrove? E quanti followers hai? E in quanti ti commentano? Sono conti brutali, lo so. Ma si fanno. (Ovviamente succede che si faccia anche il ragionamento contrario: questa qui o questo qui ci ha un sacco di followers, che libro gli facciamo fare? I risultati, come noto, sono spesso orribili).
4. Per decidere di pubblicare un libro, un editore ha bisogno di poterne immaginare la “durata”: per quanto tempo lo venderemo? Quando nel 1963 (se non erro) l’editore Hoepli pubblicava il libro di Livio Susmel Il canarino: allevamento, malattie, cure, forse non immaginava che gli sarebbe rimasto in catalogo per quarant’anni (e ancora oggi circola abbondantemente nel mercato dell’usato). Quando rifiutò Se questo è un uomo di Primo Levi (“Un altro libro sui campi di concentramento! Basta! Non se ne può più!”), o quando finalmente lo pubblicò nella collana dei Saggi (nella quale uscì anche Il diario di Anne Frank), l’editore Einaudi forse non aveva compreso la natura dell’opera: non aveva compreso che, oltre che una testimonianza, Se questo è un uomo è una grande opera d’arte; e certamente non aveva immaginato che, tra i tanti (effettivamente tanti) libri di memorie che si pubblicavano in quegli anni, Se questo è un uomo sarebbe durato più degli altri (per capirsi: la pubblicazione di Se questo è un uomo è la più grande e fruttuosa operazione commerciale della storia di Einaudi – me lo disse Roberto Cerati un po’ d’anni fa). Oggi, a dire il vero, si tende a valutare più la possibilità di vendita immediata che quella sul lungo termine.
5. Per decidere di pubblicare un libro, insomma, un editore ha bisogno di riuscire a immaginarne la “dinamica”. Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro uscì nel 1994 in seimila copie (uno sforzo non esagerato, a quei tempi, per un editore come Baldini e Castoldi) e cominciò a “muoversi” in libreria diversi mesi dopo essere stato pubblicato. Gomorra di Roberto Saviano uscì nel 2006 ugualmente in seimila copie (il minimo sindacale, a quei tempi, per un editore come Mondadori). Nel caso di Saviano si sa quali eventi hanno dato il via alle grandi vendite; nel caso di Tamaro si può al massimo fare un riferimento generico al “passaparola”. Inshallah di Oriana Fallaci, pubblicato da Rizzoli con enorme pressione promozionale, diventò la più grande montagna di rese della storia dell’editoria italiana. Nei periodici “resoconti di gestione” di Mondadori (disponibili nel sito) le vendite dei libri di Fabio Volo sono spesso commentate con un sensibile stupore. Cito questi quattro casi per far capire che i grandi successi e i grandi insuccessi non sono sempre (come credono gli ingenui) programmabili. Ma la buona salute di un editore non dipende, non può dipendere, dai “colpacci”: dipende dalla capacità di diffondere, di ciascun titolo, esattamente il numero di copie che se ne può vendere (per giudizio unanime di librai, distributori ed editori, la casa editrice più capace di esatte previsioni è Marcos y Marcos; anche se ultimamente il fenomeno-Ervas forse è stato in buona parte imprevisto).

6. Per decidere di pubblicare un libro, un editore ha bisogno di immaginare come “comunicarlo”. Un romanzetto del tipo “Ci sono lui e lei, che vogliono sposarsi; c’è un cattivone che si mette in mezzo; seguono peripezie, separazione degli amanti, moti di piazza, intrighi; poi una grande calamità spariglia tutti i giochi; e alla fine lui e lei si sposano e fanno tanti bambini: il tutto scritto magnificamente, con una lingua alla portata di tutti” non è soltanto una spudorata operazione commerciale: è prima di tutto un libro facile da comunicare. Un romanzo del tipo: “Un uomo perennemente indeciso entra far parte di una commissione nella quale non si decide nulla; mille pagine dopo sono ancora tutti lì a non fare nulla; il tutto è inframmezzato da capitoli filosofico-mistico-matematici” non è soltanto un esperimento velleitario e pretenzioso: è prima di tutto un libro impossibile da comunicare.
7. Per decidere di pubblicare un libro, un editore ha bisogno di immaginare perché quel libro possa risultare “interessante”. La cosa apparentemente bizzarra è che il motivo d’interesse – quello che si spende nella comunicazione, non quello reale – non sta quasi mai nella bellezza del libro. Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno, spiega Antonio Franchini (dirigente Mondadori) nel documentario Senza scrittori di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, era un romanzo “interessante” perché racconta e descrive un ceto, quello delle famiglie dei palazzinari romani, al quale fino allora non era mai stata dedicata un’opera romanzesca. Il motivo d’interesse, che Franchini chiama “gancio”, richiede ovviamente che l’opera di per sé sia almeno discreta: ma il punto è che se un ufficio stampa dice a un giornalista: “Guardi, questo romanzo è molto bello”, il giornalista risponde: “E allora?”; mentre se l’ufficio stampa dice a un giornalista: “Guardi, questo romanzo per la prima volta racconta la tal cosa, descrive il tale ambiente, contiene questo o quel motivo di scandalo”, eccetera, il giornalista risponde: “Interessante”. Nella mia esperienza sono arrivato perfino al punto, e per due volte, di “vendere” un romanzo usando come “gancio”… la sua illeggibilità. La prima volta fu con Perceber di Leonardo Colombati (Sironi 2005): qualche mese prima dell’uscita costruimmo un blog nel quale si raccontavano una quantità di cose del romanzo, presentandolo direttamente come romanzo-monstre; pubblicammo foto dei luoghi dell’azione, lunghi elenchi dei personaggi, enigmatici estratti, e così via; così che, prima ancora di parlare del romanzo, i giornali cominciarono a parlare del gran parlare che di quel romanzo si faceva (il blog, tanto per dar dei numeri, nei due mesi precedenti l’uscita del romanzo, arrivò ad avere quattro/cinquecento visite al giorno). La seconda volta fu con La dissoluzione familiare di Enrico Macioci: ne pubblicai degli estratti nel mio blog vibrisse presentandolo appunto come “romanzo illeggibile”: e nel giro di qualche settimana si presentò un editore.
8. Per decidere di pubblicare un libro, un editore ha bisogno di immaginare come i potenziali compratori capiscono che se quel libro è stato pubblicato da quell’editore lì, proprio quello lì, una ragione deve esserci. Quando ha cominciato a pubblicare la saga Millennium, l’editore Marsilio era già “quello dei gialli svedesi” (e lo è ancora, con onore). Quando minimum fax nel 2010 ha pubblicato Acqua in bocca di Camilleri & Lucarelli, tutti i lettori affezionati all’editore hanno capito che pubblicare una vergognosa puttanata (tanto vergognosa che gli autori hanno pubblicamente devoluto i propri diritti in beneficienza) era per quell’editore più sensato che farsi strangolare dalle banche.
9. Per decidere di pubblicare un libro, un editore non ha bisogno di leggerlo. Ci sono libri sui quali si può decidere a occhi chiusi, perché per venderli non c’è proprio bisogno di leggerli (e neanche di scriverli, mi vien da dire). Un’autobiografia di Silvio Berlusconi intitolata Tutte le donne del presidente, un memory di Giuseppe Conte intitolato Come uscire dall’anonimato giusto in tempo per trovarsi di fronte al più grande guaio di sempre, un manuale di Ernesto Galli della Loggia intitolato Come parlare in pubblico dicendo sempre la stessa cosa, eccetera, sono prodotti editoriali che gli editori addirittura evitano di leggere (per non rovinarsi le papille gustative). I grandi editori, poi, sono così grandi, e così meticolosa è la divisione del lavoro al loro interno, che alla fin fine l’unico a leggere davvero il libro, prima della pubblicazione, è l’autore stesso: parola per parola, facendo le bozze (perché anche i correttori di bozze lavorano spesso in squadra: cinquanta pagine la fa uno, cinquanta ne fa un altro, cinquanta un altro ancora, e via).
10. Per decidere di pubblicare un libro, un editore deve aver voglia di pubblicarlo. Anzi, deve avere – in generale – voglia di pubblicare. Deve poter pensare di ricavare dal pubblicare un qualche profitto – economico, sociale, culturale, di autostima, per sé, per la comunità alla quale appartiene, per i propri figli, per la Patria, per il popolo, e chi più ne ha più ne metta. Deve avere, l’editore, una certa qual voglia di futuro; e deve aver voglia di dare, a quel futuro di cui ha voglia, una forma di cui ha voglia. Magari a te, autrice, a te, autore, quella forma di futuro lì non piace. E dunque: cerca un altro editore.